Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il piccolo Fennec e altri animali
Il piccolo Fennec e altri animali
Il piccolo Fennec e altri animali
E-book321 pagine4 ore

Il piccolo Fennec e altri animali

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il piacere della lettura si mischia alla raffinatezza dell’esperienza che Bruno regala al lettore mutuandola da una vita avventurosa, di autentico cavaliere errante da un continente all’altro, mosso da necessità di impiego e di lavoro, ma fondamentalmente dall’amore incondizionato per la natura tout court (umani, bestietti e vegetali).
È anzitutto un raffinato etologo (La natrice dal collare), un vero maestro di Botanica e di coltura vegetale, è un sottile filosofo di ascendenza anche leopardiana (cf Le zanzariere e il rinvio alla dura, ma vera realtà de La ginestra), ma fondamentalmente è un maestro di vita!
Bruno ha una raffinatezza sensoriale che gli permette di offrirci una visione più intensa ed una lettura più profonda di quanto ci circonda.
C’è una saggezza che, ben lungi dall’essere ciarlataneria, è «scienza sperimentata ed applicabile».
Commovente la sua vita in simbiosi con una Natura variegata e sempre sorprendente; indimenticabili i riti di seppellimento e di «accudimento» oltre il mondo della luce di tutte le creaturine… andate!
L’incorreggibile devozione di Principessa ne è il trionfale suggello.
Lo stile è ricco, variegato e, all’occorrenza, plastico ed adeguatamente colorito.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2014
ISBN9788884497178
Il piccolo Fennec e altri animali

Correlato a Il piccolo Fennec e altri animali

Ebook correlati

Saggi e diari di viaggio per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il piccolo Fennec e altri animali

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il piccolo Fennec e altri animali - Bruno Brunello

    Brunello

    Premessa

    Qualcuno mi ha detto: «Tu devi scrivere un libro con tutte le cose interessanti che hai da raccontare... viaggi, avventure, incontri...» 

    Per anni mi sono sentito ripetere con convinzione questo invito, ma quello che non era convinto ero io. Per me i libri sono sacri, indipendentemente dall’argomento che trattano. Chi offre i propri scritti ai lettori, si carica di una responsabilità mica da poco. Bisogna essere saggi, preparati, consapevoli del messaggio che si affida a delle parole mescolate tra loro.

    Dovrei buttar giù cose edificanti e consolatorie per la nostra tribolata epoca, ricche non tanto di speranza, quanto di certezze... ma questo è troppo per me.

    Me la cavo meglio con i racconti di viaggio che hanno sempre affascinato in maniera irresistibile l’animo umano che anela guardare oltre l’orizzonte, inducendolo a fantasticare di altri popoli e altre filosofie di vita, di complicate religioni e paesaggi leggendari. Divoravo quel genere di libri, parlandone con entusiasmo ai miei, mentre indicavo sull’Atlante i luoghi descritti.

    Sognavo di trovarmi tra minareti e moschee, templi maestosi e vocianti folle variopinte, suadenti musiche orientali e mercati odorosi di spezie. Mi trasferivo con il pensiero davanti a luminosi panorami mozzafiato e silenziosi deserti ricamati dal vento.

    Di viaggi scriverò certamente. Per ora, ecco questo mio primo libro. Parla del mondo degli animali, quelli che ci circondano, che vivono con noi, come cani, gatti, uccelli, pesci, capre, nonché qualche esemplare esotico incontrato in altri continenti; vi compaiono pure insetti, che la maggior parte del genere umano trova ripugnanti e combatte con veemenza. 

    Se riuscirò a ridurre l’ostilità verso questi nostri compagni di viaggio, mi riterrò soddisfatto. Anziché schiacciarlo con ribrezzo, qualcuno raccoglierà con una cartolina il ragnetto trovato in casa e lo porterà fuori, invitandolo a tessere altrove la sua ragnatela.

    Quel gesto gentile nei confronti di una Sua creatura, renderà Dio riconoscente verso chi lo compirà, fratello maggiore di tanto minuscolo esserino.

    L’autore

    Introduzione

    Non avrei creduto a chi mi avesse raccontato molte delle storie di questo libro. Sono invece realmente accadute a me, ai miei familiari, nonché a nostri amici. In alcune sono stato coinvolto in prima persona a livelli inaspettati, come è avvenuto col topo che mi veniva ad augurare la buonanotte oppure con la gattina cieca che, concluso il cammino terreno, non mi abbandonò, iniziandone uno incorporeo per accompagnarmi ovunque nel mondo. 

    Solo dopo anni ho percepito la profonda realtà di queste «favole». Mentre le vivevo, non ne comprendevo il significato. Pensavo a fenomeni transitori che stavano semplicemente accadendo, privi di significato. Oggi ho scoperto che di fronte all’amore non ci sono barriere, né fisiche né temporali e tutto può accadere.

    Per amore delle bestiole, che tendiamo a considerare migliori dei nostri consimili, la mia famiglia e io, da molti anni, non ci nutriamo più di carne. Mangiamo legumi, cereali, frutta, verdura, alghe, derivati della soia e del grano, sostituendo le proteine animali con quelle vegetali, più sane e digeribili.

    È per questa ragione che non mi meraviglia la sensibilità con la quale gli animali comprendono le nostre carezze e l’amore con cui vengono elargite. Così è stato con i serpenti velenosi incontrati nei miei viaggi, che mi permettevo di accarezzare con una certa dose di incoscienza e di cameratismo, fratelli dal diverso aspetto, impegnati come noi nel viaggio della vita.

    Forse non siamo poi così distanti da loro. Ne siamo imparentati più di quanto immaginiamo, non tanto nel DNA, soprattutto nello spirito. Penso addirittura che possa esserci una spiegazione del perché ci trasciniamo strane abitudini o ataviche paure come la paralisi che coglie una ragazza del mio paese alla vista d’un gatto. Non sarebbe del tutto errato nutrire il sospetto che in una sua vita precedente fosse stata un topolino.

    «Cosa vorresti dire? Che eravamo animali?» mi si potrebbe obiettare. Risponderei: «Provate a immaginare di risvegliarvi un mattino e di sbadigliare stiracchiandovi con quattro zampe pelose e la netta percezione di aver dormito in fondo al letto, ai piedi dei padroni, sognando di essere umani!». Si potrebbe ribattere che difficilmente un essere umano regredisce, tranne in caso di perfida malvagità. Quando mia moglie stigmatizza un qualche mio comportamento, mi augura di rinascere «cane randagio in un deserto di sale, afflitto da una pulce affamata». Io ribadisco serafico che potrebbe anche darsi e in tal caso lei incarnerà la pulce.

    Se guardo un animale nel profondo degli occhi, sia esso serpente, cavallo o uccello, mi sciolgo nei ricordi di quand’ero piccolo e ignaro, nei miei primi anni di vita. Mi risvegliavo la mattina con la piacevole sensazione di aver giocato allegramente fra amici. In un sogno ricorrente, strisciavo senza fatica in una galleria buia, in fondo alla quale mi lasciavo attorcigliare insieme ad altre serpi, scure come me, immerso nella simpatia di tanti amici che mi facevano sentire protetto e coccolato come tra le braccia della mamma. Nella realtà di tutti i giorni, ad occhi aperti, ero terrorizzato da questi vertebrati che s’incontrano sovente sulle nostre colline.

    Non raccontai a nessuno di quei sogni infantili, dando per scontato che fossero usuali e senza un particolare senso, ciononostante non ne cancellai il ricordo. Molte altre tessere nel mosaico della mia vita paiono svelarmi tratti di vite precedenti, sia in forma animale, sia nei panni di un essere umano.

    Durante un lungo soggiorno in India, discussi di reincarnazione con alcuni colleghi indiani. Quando rivelai che noi occidentali non vi crediamo, rimasero sconcertati, quasi dispiaciuti per la nostra inconsapevolezza. «Ma allora a cosa credete?». I miei tentativi di dare delle spiegazioni non furono convincenti e, sebbene cercassi di mitigare la mia ignoranza accennando a talune mie convinzioni personali piuttosto fuori dai canoni di qualsiasi religione precostituita, le teste continuarono ad essere scosse desolatamente, con sorrisi che io interpretai di scherno.

    Constatai che anche mentre chiarivo loro i miei schemi elettronici, scuotevano la testa come a negare perfino le più ovvie delucidazioni. Così andò nel cantiere di Puna. Non potevo ripetermi in continuazione e dubitando che il mio scarso inglese avesse fallito per l’ennesima volta, tracciai elementari disegni e tabelle. Ora la spiegazione s’era fatta talmente lampante che allibivo nel vederli ancora scuotere la testa a destra e a manca dissentendo.

    Prima di lasciarmi prendere dall’ira confidai il mio sgomento a un collega italiano, veterano del luogo, che ridendo di gusto mi spiegò come quel movimento basculante altro non era che il loro modo di esprimere consenso e approvazione. Avevano compreso il mio discorso ed erano perfettamente d’accordo con me!

    Un mio cruccio, lo avrete capito, è il consumo di carne e la diffusa attrazione verso questo alimento che in gran numero gli esseri umani condividono. Sono dispiaciuto per le sofferenze che infliggono a questi fratelli e non sono convinto che il tutto sia privo di conseguenze.

    Molti bravi cristiani si appellano alla Bibbia per giustificare quest’insana abitudine, citando il libro della Genesi dove si dice: «... e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gn 1,26).

    Ma sta pure scritto che Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è sulla terra e ogni albero in cui è il frutto che produce seme: saranno il vostro cibo» (Gn 2,29).

    Durante l’epoca delle glaciazioni forse siamo stati indotti a cibarci di animali per la nostra sopravvivenza, ma i tempi e il clima sono cambiati e molti oggi sono vegetariani, rispettando la vita e i consigli di Dio, che ha voluto dare a noi tutti l’investitura di Re della Sua Creazione.

    I buoni sovrani amano i loro sudditi, li proteggono e li fanno prosperare. Perché mai noi dovremmo divorarceli?

    Non mi sembrano punto i dettami del Buon Dio, nostro Padre.

    Il Piccolo Fennec

    Quella sera mi aspettavano all’Ambasciata italiana, sulle colline di Algeri. 

    La città, che si affaccia sull’omonima baia, è adagiata su una serie di alture, come la nostra capitale. Un lembo di terra, abbracciato dal mare, consente il passaggio della principale arteria stradale e dei binari, fino alla stazione e al parco ferroviario, a ridosso del porto commerciale.

    A guardarla dal mare, provenendo dal largo, sembra una cartolina, con l’antica Moschea ai piedi della Casbah, abbarbicata sui declivi.

    Lungo il litorale sorge il famoso Casinò Aletti e alzando lo sguardo, su, a mezzo monte, tra le terrazze delle case, si vedono spuntare le cime delle palme che adornano la piazza della Posta, circondata dai palazzi governativi.

    Dovevano consegnarmi della documentazione per la spedizione scientifica di cui facevo parte. Mi avviai verso la zona residenziale dove sorge l’Ambasciata, nella parte orientale della città.

    Lasciai la jeep nel parcheggio esterno e, nel buio della sera inoltrata, cominciai a scendere per il vialetto che conduce alla villa. Percorrevo il pendio senza vedere nulla. Mi facevano da guida le sommità degli alberi che si stagliavano nel cielo opalescente.

    Dopo pochi passi, varcato il cancello, udii il rumore di una cinghiola che sembravo trascinarmi appresso, sicuramente quella dei miei anfibi, i robusti scarponi che avevamo in dotazione.

    Mi chinai a tastare le calzature per provvedere a riallacciarle. Nessuna cinghia risultava allentata. Nemmeno in tasca rintracciai nulla che chiarisse l’origine di quel rumore metallico. Ripresi il passo e il suono si rinnovò. Mi fermai di botto e, nella quiete sovrana, il suono cessò.

    «Sono certo di essere io a generare il rumore, ma non so come». Continuai a camminare lentamente ed il suono mi seguiva piano, accelerai ed il suono accelerò.

    Era un tintinnio di sonaglietto... «Un serpente a sonagli?! Qui?!». Sorrisi tra me e me, soppesando le assurde paure che nascono dal non essere in grado di vedere. Avessi avuto una torcia!

    A ogni modo e a scanso di equivoci, non indugiai oltre e partii al galoppo, inciampando nelle aiuole, braccato da chissà quale bestia. Il suono mi teneva dietro, senza tregua. La fuga scomposta terminò nell’ingresso illuminato del salone, dove giunsi ansimante col cuore in gola.

    Trovai ad attendermi un cortese funzionario con il plico in mano, meravigliato dall’espressione di terrore che portavo dipinta sul volto. Gli chiesi di slancio, con la voce rotta per l’emozione e la corsa affannosa, se ospitassero serpenti a sonagli nel loro giardino.

    Ridendo, l’uomo si chinò ad accarezzare una piccola volpe del deserto, il Fennec, che sbucò allegro tra le mie gambe, dondolando orgoglioso l’argenteo sonaglietto che portava appeso al collare.

    L’Aggressione del Mastino

    La strada che conduce al piano costeggia la lunga recinzione di una villa con un feroce mastino per guardiano. È un cane addestrato a difendere la proprietà e quando un ignaro passante transita da quelle parti, lo fa sobbalzare latrando improvvisamente, accompagnandolo per tutto il tratto di sua competenza. Scatenato, abbaia con le bave alla bocca e, per la smania di correre avanti e indietro, ha segnato un sentiero tra la rete e le tuie argentate. 

    Ho spesso cercato di tranquillizzarlo, ma il solo fatto che ci si interessi a lui, gli fa raddoppiare la furia che lo pervade fino al parossismo. Raspa la rete del recinto che, a ben guardare, è tutta rappezzata. Viene da chiedersi cosa potrebbe succedere se riuscisse ad aprirsi un varco. Non si dovrebbero addestrare i cani alla ferocia; troppo spesso le cronache riferiscono di tragiche aggressioni ad adulti e bambini.

    C’era un altro cane, un pastore nero, nel giardino di una palazzina verso Castelnovo, che non mi perdonava di aver osato introdurre la mano tra le sbarre della ringhiera nel tentativo di accarezzarlo. Se mi trovavo a passare dalle sue parti, cominciava a ringhiare abbaiando furibondo fin da quando imboccavo la via e smetteva solo dopo che ero sparito dalla sua vista. Spesso cambiavo strada per non scatenare la sua furia e non disturbare la quiete degli abitanti del quartiere.

    Conoscevo fin da quando era piccolo il ragazzo dai capelli rossi che abitava in quella casa ed ora che studiava informatica alle superiori ed era diventato esperto di computer, mi rivolsi a lui per sistemare i miei vecchi apparecchi. Mi fece entrare in giardino dove Max, così si chiamava la bestia, era pronto a sbranarmi. Il giovane lo zittì e, protetto dalla sua presenza, potei finalmente accarezzarne il pelo irsuto. Da quel momento diventammo grandi amici e ogni volta che varcavo la soglia ero accolto dal suo festoso scodinzolio. Max cercava le mie coccole e gradiva assai giocare con me.

    Spesso la nostra vecchia auto si guastava costringendoci a scendere a valle a piedi. Impiegavamo circa un’ora per il tragitto. Fatta buona parte del cammino, svoltai per la strada del mastino che mi aspettava sdraiato in mezzo alla carreggiata, all’altezza del cancello della sua abitazione, ma dalla parte esterna! Era troppo tardi per retrocedere. Quando me ne accorsi mi stava già guardando. Si alzò e mi venne incontro. Mi si fermò il respiro, ma non avendo scelta, assunsi un’aria spavalda per non mostrargli il mio sgomento. Gli rivolsi la parola con un tono a metà fra il controllato e il cameratesco: «Cosa ci fai qua bel bestione? Ti hanno chiuso fuori? Ti aiuterò io a rientrare, non preoccuparti. Mi chiamo Bruno e tu?».

    Il cane ringhiò brevemente, perplesso del mio ardire, anche se non potei giurare che intendesse il significato delle mie parole.

    Mi avvicinai al cancello automatico per verificare se si apriva almeno un poco. Niente da fare, era ben chiuso. Suonai il campanello, nessuna risposta. Insistetti a lungo, provai anche a chiamare, ma nessuno si fece vivo. Il cane senza nome, intanto, mi girava intorno annusandomi i polpacci che, a portata delle sue fauci, temevo gli apparissero fin troppo succulenti.

    Io mi stavo prendendo a cuore non solo la sorte della bestia e la mia, ma soprattutto quella dei malcapitati che, come me, da quella strada dovevano passare: ragazzi, signore, anziani a passeggio ai quali non auguravo di fare un simile incontro. Avrebbe comunque intralciato il traffico, non solo di auto o di moto, ma specialmente dei ciclisti che da quel pendìo, con una curva a destra che ne limita la visibilità, scendono sparati.

    Riprovai con il campanello. Di lato della casa vi erano dei panni sciorinati al sole. Dalle finestre spalancate, dove lenzuola e coperte erano stese ad arieggiare, non si affacciava anima viva. Nessuno giungeva in mio soccorso.

    Rassegnato, mi risolsi a cercare un qualche varco lungo la rete. Tutto inutile, era ben fissata al cemento del muretto, a filo del terreno. Più a monte notai un paletto della recinzione divelto, ma anche così la rete si abbassava di troppo poco. Tornai al cancello, sempre continuando a spiegare al quadrupede le mie intenzioni e sempre col cane che mi seguiva, pronto a farmi a fette non appena avessi terminato di parlargli.

    «Vedi qua? Potrei tagliare un paio di fissaggi e sollevare quel tanto la rete da permetterti, quatto, quatto, di sgusciar dentro. Di sicuro ti aspettano la tua bella ciotola di bocconcini e l’acqua fresca. Con tutte quelle bave, mi sa che ne hai urgente bisogno. Però, mi servirebbe una tenaglia».

    Così cianciando mi ero accovacciato per esaminare da vicino la rete. Era l’occasione che aspettava! Non doveva lasciarsela scappare e, prima che potessi reagire, mi fu sopra, facendomi rotolare lungo disteso a terra. Col suo enorme peso sul petto m’impediva qualsiasi movimento. Sferrò il suo attacco a colpi di lingua grondante, lavandomi il viso.

    Non ero in grado di opporre resistenza, bloccato sotto di lui. L’euforia per averla scampata bella mi fece venire le convulsioni dalle risa, svuotandomi di ogni energia. Stavo subendo impotente le effusioni della bestia che, cominciando forse a comprendere i miei buoni propositi, esprimeva la sua più ampia gratitudine.

    Con la barba impiastricciata mi tirai su cercando di allontanare la belva quel tanto che mi consentisse di agguantare il fazzoletto per asciugarmi alla meno peggio. Scodinzolava e tornava a buttarmi le zampe anteriori sulle spalle, ricominciando a leccarmi divertito. Ridevo anch’io, d’altronde. Non mi restò che abbracciare questo invadente fratellone e riprender fiato.

    Ora che dimostrava di apprezzare il mio operato, doveva lasciarmi lavorare. Non potevo passare l’intera mattinata a giocare con lui. Le botteghe chiudono ad una cert’ora!

    Vista la confidenza cui eravamo giunti, decisi che avrei potuto sollevarlo e fargli scavalcare il recinto nel punto più basso del paletto divelto. Abbassai il più possibile la rete e cercai di fargli appoggiare le zampe anteriori sul bordo, ma lui non ci pensava proprio. Era troppo divertente giocare. Quando poi lo presi in braccio, non senza difficoltà, vista la stazza, tentando contemporaneamente di abbassare la rete, mi ritrovai di nuovo il cane avvinghiato che non collaborava punto. Il gioco si era fatto avvincente e giù che ripartiva a sciacquarmi la faccia.

    «Che abitudini indecenti ha mai il popolo dei cani per trattare gli umani con tanto poco rispetto?! Un po’ di dignità, almeno da parte della nobile stirpe dei mastini, perbacco!».

    La comicità della situazione avrebbe meritato la ribalta di Paperissima. L’accesso di risa mi tolse le ultime forze. Sbilanciato, crollai di nuovo a terra, abbracciato all’animale che, ricorderà quello, per il resto dei suoi giorni, come il più divertente.

    Dopo aver rimosso un pezzo di reticella posta a chiusura di un precedente foro, risolsi il problema ficcandolo dentro, con la forza della disperazione, attraverso un pertugio appena sufficiente al suo passaggio. Non fu un’operazione facile, come avrete intuito, perché non gli importava un bel niente di rientrare a casa. Aveva trovato un bipede con il quale il divertimento era assicurato.

    «Suvvia, abbracciamoci ancora e rotoliamo insieme vicini vicini!», sembrava dire quando finalmente mi accomiatai.

    I Guanti in Pelle

    Trùpedo: un buffo nome per il simpatico cagnetto della famiglia Pellizzaro. Vivace e affettuoso con i bambini, obbediente e rispettoso con gli adulti, era un bastardino di piccola taglia dal musetto adorabile e il pelo raso color miele. 

    Era ben voluto da tutti in quella numerosa famiglia e non gli mancavano carezze e ossi gustosi.

    Perché dunque gli affibbiarono un tale nome? Quando lo chiamavano, correva velocemente trotterellando e Armando, il maggiore dei fratelli, che amava scovare nomignoli e inventare rime strampalate, pensò bene che «colui che trotterella» doveva esser chiamato Trùpedo. Aveva anche un soprannome, Sòrbeto, sempre di origine onomatopeica, dato che sorbiva rumorosamente il latte, lappando.

    Le foglie del cachi (il Diospyros kaki) si erano tinte di rosso e cominciavano a cadere, sospinte dal vento autunnale, lasciando spogli i fragili rami del vecchio albero, sui quali pendevano a maturare ai primi freddi i gialli frutti.

    Pierina, mamma di tanta prole, l’ArMaDaRePa, dalle iniziali dei nomi dei cinque figli, indaffarata nei lavori di casa, notò finalmente Trùpedo che cercava di attirare la sua attenzione, gironzolandole intorno festoso.

    Le porse qualcosa che teneva in bocca. Si trattava di un bel guanto in pelle di un delicato color marrone. S’avvide, rigirandolo tra le mani, che era nuovo di zecca e di pregiata fattura.

    «Caro Trùpedo, dove hai trovato questo magnifico guanto? Beh, poco importa, tanto non potrebbe servire che a un monco rimasto solo con la sinistra! Vedi, cagnetto caro, noi esseri umani usiamo le cose in coppia. Un paio di calzini, un paio di scarpe e senza uno dei due pezzi le cose diventano inservibili. Comunque, grazie del regalo. Ecco, lo metto sul mobiletto della radio, qua, vicino al posacenere di cristallo. Vieni, in cambio ti regalo una bella crosta di formaggio».

    Pierina non si dava pena che la bestiola non avesse capito, a suo parere, un accidente del suo soliloquio. Il popolo degli umani sogna d’essere inteso dagli animali che trascorrono fedelmente la vita accanto a loro. Fatto sta che la bestiola si rifugiò nella cuccia a riflettere sulle vicende umane e sulle strane esigenze dei bipedi, rosicchiando la sua crosta di parmigiano, resa sottile dalle robuste fregature sulla gràta-casòla, la grattugia.

    Tutta la famiglia partecipò alla raccolta dei cachi acerbi, deponendoli nelle cassette di legno, avvolti nella paglia che papà Attilio aveva portato dalla campagna di Trissino con un carrettino legato alla bicicletta. Quei frutti, in soffitta, sarebbero giunti fino a Natale, maturando poco per volta.

    Mamma Pierina si incamminò, la settimana seguente, verso Monte Berico, con il suo solito passo da bersagliere. Prima di raggiungere il Santuario dedicato alla Vergine, apparsa ad una contadina durante una terribile peste, che fece cessare miracolosamente, si accomodò su di una panchina. I tigli dal tronco nero lasciavano cadere al suolo i loro semi, insieme alle foglie ingiallite, dopo la deliziosa e profumata fioritura estiva. L’ultimo sole illuminava la città coi suoi numerosi campanili.

    Pierina amava molto contemplare Vicenza dall’alto del sacro Monte. Arrivò all’improvviso Trùpedo con in bocca, di nuovo, il guanto in pelle. Lei lo prese in mano ridendo, stupita di come avesse potuto riagguantarlo da sopra la radio, un voluminoso apparecchio La Voce del Padrone dei tempi andati. Lo osservò con attenzione ed ebbe la sensazione che questo non fosse lo stesso guanto che aveva riposto in casa. Era certa di avervi infilato la sinistra per provarlo. Questo era un destro. Possibile che ricordasse male? Forse il cane voleva continuare a festeggiare riportandoglielo. Oppure, incredibilmente, il cane aveva capito il suo discorso ed era andato a prendere, chissà dove, l’altro guanto? Sicuramente, entrando nel tinello, avrebbe visto il piano della radio vuoto.

    Oppressa dal dubbio, tornò immediatamente sui suoi passi. Quando vide al suo posto il primo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1