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N.S.O.E.
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E-book349 pagine5 ore

N.S.O.E.

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Info su questo ebook

Sette sconosciuti si ritrovano in una hall di un lussuoso hotel a New York, scelti da un misterioso Pastore, per un viaggio con destinazione Los Angeles. I sette partiranno, senza l’artefice del progetto, il quale all’ultimo non si presenterà. Attraverseranno deserti, luoghi sperduti sotto cieli infiniti, passando per metropoli affollate, toccando i luoghi più spettacolari d’America. Ma ben presto il viaggio li porterà a valicare altri confini: verseranno lacrime, esploderanno di rabbia, rideranno a crepapelle fino a raggiungere il limite della loro anima, confrontandosi con il loro passato e con quel senso di alienazione che li ha condotti a saltare in quel viaggio per ritrovare la fiducia nella vita e nei sogni impossibili. Balleranno sotto la pioggia, celeranno e sveleranno segreti, dipingeranno paesaggi surreali, spezzeranno legami, brinderanno di gioia, faranno promesse d’amore, punteranno a tutta velocità verso mete inattese.

Toccheranno con mano l’essenza primitiva dell’esistenza e nella ricerca affannosa dei propri sogni improvvisamente l’inaspettato travolgerà il loro percorso, infrangendo l’incanto del viaggio e costringendoli a ricercare nuovi sogni per cui vivere, realizzando così il progetto del Pastore.
LinguaItaliano
Data di uscita28 ago 2020
ISBN9788831689687
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    Anteprima del libro

    N.S.O.E. - Vansky

    info@youcanprint.it

    Da qualche parte nel mondo

    C’era una volta, da qualche parte nel mondo, un posto magico dove le distese pianeggianti sembravano infinite e le steppe sconfinate, a perdersi nell’orizzonte lontano. Gli alberi erano perennemente ricoperti di foglie, i fiumi scorrevano limpidi a gettarsi nei laghi pieni di pesci, mentre i fiori regalavano le forme e i colori più belli durante tutto l’anno. Il cielo era sgombro da nuvole, i riflessi del sole offrivano a tutte le creature, che in quel pezzo di terra vivevano, il loro caldo tepore e l’aria era intrisa dei profumi intensi della natura. Immerso in tanta bellezza, ogni essere che posava piede in quel luogo non avrebbe potuto chiedere niente di più, tutti infatti sembravano sereni e in pace.

    Tra questi c’era un elefante, uno come tanti, visibilmente sovrappeso, impacciato e decisamente ingombrante. Uno che, quando passava, faceva sentire in tutto e per tutto la sua presenza. Nonostante non fosse fisicamente adatto, aveva fin da piccolo un grande sogno: quello di volare.

    Così, quando riusciva ad alzare la testa al cielo, i suoi occhi riflettevano un colore così vivido, fino a smarrirsi incantati, perché in fondo sapeva da sempre di amare il firmamento. Ma lui era un quadrupede qualunque, uno come tanti, uno di fronte al quale non ci si ferma con ammirazione.

    Eppure, quando i suoi occhi si spalancavano verso il cielo azzurro, sentiva una voce dentro che gli parlava e nel silenzio gli chiedeva di essere ascoltata. Diventava insistente e non smetteva di ripetere che esistevano strade che lui non aveva mai percorso, che portavano a luoghi e a sensazioni che lui credeva non potessero appartenere a un semplice elefante. E questa voce andava e veniva, mentre lui con la forza della ragione cercava di zittirla, ben cosciente che la realtà fosse un’altra cosa, che gli elefanti non volano, lo sapevano tutti. Fin da piccolo gli era stato insegnato che i compiti e i doveri di un elefante erano altri: andare in cerca di cibo, procurarsi dell’acqua, allevare la prole, cercare un riparo per la notte. La follia di seguire il proprio cuore e dove lui voleva condurlo non doveva essere assecondata, non c’era spazio per altro. Le fantasie dovevano essere lasciate all’infanzia, al periodo in cui tutto è possibile.

    I giorni passarono lenti, come granelli nella clessidra del tempo, più o meno tutti uguali, alcuni più difficili altri più piacevoli. A ogni caduta di un chicco, qualcosa andava perduto e cementava la dura realtà fatta di ore vuote, di lacrime ingoiate, il tutto permeato dalla rassegnazione che la vita fosse ben diversa da quella che ci si attende.

    Ormai vicino alla morte, trascinandosi a fatica tra la polvere della savana, udì delle risate di gioia provenire poco distante, in prossimità di una splendida cascata che conosceva piuttosto bene. Si avvicinò con passo lento e stanco, mosso da una curiosità inaspettata per un vecchio animale in attesa di morire.

    D’improvviso dalla sommità vide emergere una palla grigia che puntava verso l’azzurro del cielo, che tanto amava, saltando giù, tra urla euforiche. Non lo riconobbe subito, ma dopo aver aguzzato la vista, ormai non più lucida, notò un piccolo elefantino sprizzante di gioia. Sbatteva più che poteva gli enormi orecchi per stare su, ma la mole del suo corpo lo trascinava giù verso la pozza di sotto, gridando con tutto il fiato che aveva «Io volo». E continuava ad arrampicarsi per poi saltare giù per la cascata, con tutta l’allegria di quel banale gioco, senza pensare che lui non avrebbe potuto volare o chiedersi che cosa ne pensassero i suoi simili.

    Ma per il vecchio elefante incredulo e sbigottito di sotto, il giovane volava. Impietrito, fu risvegliato da una voce, che non sentiva più da molti anni oramai, che portò a galla emozioni sopite. Gli si spalancò uno squarcio nel cuore assistendo alla prova tangibile che il suo sogno poteva diventare vero e che non esistevano limiti nel mondo dell’immaginario.

    Di fronte all’euforia travolgente del piccolo, gli occhi divennero lucidi di commozione. Iniziò a piangere per aver sprecato i suoi giorni, rinchiudendo tutte le opportunità di vivere ciò che da sempre gli aveva fatto battere il cuore. Se avesse creduto fino in fondo a quello che provava, sarebbe stato un elefante felice. E tra le lacrime e ricordi, rivide tutte le cascate a cui era passato davanti, tutte le volte in cui aveva abbassato lo sguardo al passaggio degli uccelli sopra di lui, tutti gli inganni che aveva permesso a se stesso giustificando la breve vita delle farfalle che potevano comunque volare. E quel vecchio elefante aveva lasciato andare la sua gioia più grande, il sogno che fin da piccolo si portava dentro e che aveva sempre e da sempre rincorso con il cuore. E pianse tutte le lacrime trattenute, perché amava il cielo eppure lo temeva. Aveva cercato la libertà, vivendo rinchiuso in una prigione che qualcuno aveva costruito per lui, insegnandogli che quella era la vita.

    Prossimo alla morte, stava imparando che ogni sogno è raggiungibile con il cuore. Arrivato sulla sommità della cascata, nonostante l’enorme fatica, poté godere di un paesaggio senza eguali e il significato di molte cose gli fu chiaro. Intanto il piccolo elefante gli si era già piazzato davanti e senza indugiare si era nuovamente buttato di sotto. Ora era il suo momento, atteso da una vita intera, e poco importava quanto sarebbe durato o cosa avrebbero pensato gli altri. Fece un passo e fu libero, di essere un uccello e librarsi nel cielo, sentendosi pienamente felice per aver realizzato il motivo per cui era nato.

    Attraverso quel salto aveva dato un senso, una direzione, uno scopo, a tutti i suoi giorni, a tutte le lacrime, a tutti i tentativi, a tutte le promesse, ora che il suo cuore era in pace e lui era arrivato dove da sempre era appartenuto; l’elefante volante.

    Così come l’elefante anche gli uomini coltivano almeno un sogno nel cammino che sono chiamati a percorrere, lungo o breve che sia.

    In particolar modo da piccoli, quando credono che tutto sia possibile; come toccare le stelle, vivere per sempre, diventare una principessa, trasformarsi in un super eroe, inconsapevoli della meschinità della vita. E così crescendo, lentamente, la loro innata innocenza lascia il posto alla razionalità e tutti i sogni, quelli importanti, si trasformano in progetti che piano piano mutano in doveri e poi decadono nella rassegnazione di giorni pressappoco simili, in cui non si coglie più la scintilla che rende la vita pregna di desiderio.

    Tante persone, ogni mattina, si svegliano senza l’entusiasmo di vivere ciò per cui sono nati, non ricordandosi di rincorrere la vera ragione della loro esistenza. Trascinano i loro giorni come l’elefante aveva fatto con i suoi piedi, passo dopo passo, con un senso di smarrimento profondo, in quei gesti frettolosi, meccanici, studiati e imparati a memoria come attori immersi nella parte, nel copione che impone loro di adeguarsi e di ripetersi alla pari di marionette mosse dai fili invisibili della buona educazione.

    E come burattini ogni giorno dissimulano, continuano a rincorrere pezzi di storie, avanzi di felicità, residui di emozioni, granelli di gioia, ritagli di spensieratezza e brandelli di mediocrità. Ma la vera felicità è la libertà di realizzare la vita come ognuno se la immagina. È un fardello pesante essere destinati a qualcosa che non si è scelto, ma è capitato. I sogni vanno coltivati con la stessa cura con la quale assecondiamo i nostri bisogni. Devono essere le creature più felici al mondo quelle che hanno la possibilità, ogni giorno, di camminare con le proprie gambe e andare incontro al destino che hanno scelto per se stessi.

    «E tu che aspetti a rincorrere di nuovo i tuoi sogni, quelli che da sempre avresti voluto realizzare?

    Non lasciarti scappare la possibilità di intraprendere un’esperienza unica, se quello che fai non ti appassiona più. Se ogni minuto ti sembra buttato e hai bisogno di percorrere nuove strade, che aspetti a buttarti?

    La proposta è semplice: un viaggio in assoluta libertà con il solo scopo di poter riscoprire quei sogni che abbiamo dimenticato, quelli che fin da piccoli abbiamo custodito dentro di noi, quelli che non abbiamo mai osato realizzare, gli stessi che ci hanno fatto sentire forti, sicuri invincibili e soprattutto felici.

    Perché in fondo a ogni viaggio esistono sempre più rotte di quelle che possiamo immaginare.»

    N. S. O. E. era l’acronimo postato su un sito di viaggi correlato a un annuncio a cui avevano risposto in molti, con la voglia di partecipare a un’incredibile avventura che in tutta libertà li avrebbe condotti da New York, prima tappa del viaggio, alla destinazione finale a Los Angeles, passando per gli stati centrali del continente americano.

    Per poter partecipare alla selezione, ogni aspirante avventuriero aveva dovuto inviare un sogno irrealizzato, qualunque esso fosse, al Pastore, l’ideatore del progetto e l’unico a conoscenza dei sogni di ciascuno. Nessun altro infatti aveva potuto condividere questa informazione. Una volta ricevute tutte le richieste di adesione, Il Pastore aveva fatto una seconda selezione, basandosi sulle chat scambiate con vari pretendenti viaggiatori.

    Basandosi su quello che ognuno di loro aveva confessato, ne scelse una quindicina, poi dieci e infine gli ultimi sette che sarebbero partiti con lui.

    Otto avventurieri che alla vigilia della partenza avevano rinchiuso dentro la loro valigia il loro passato, che probabilmente avrebbero condiviso con i loro compagni lungo il percorso. Avevano buttato l’amarezza di chi non si riconosce più nella quotidianità, come se la felicità abitasse al di fuori di un buon lavoro e di una casa ben tenuta. Avevano impacchetto tutte le delusioni e tutti i rifiuti che la società aveva riservato loro, quasi un trattamento speciale riservato ai soli disperati. E nell’ammasso di oggetti materiali ed emozioni sopite c’era ancora spazio in quel bagaglio più o meno pesante per un sogno, il loro sogno; quello scritto ad uno sconosciuto, quello che celavano in fondo al cuore, la vera essenza, la destinazione finale del viaggio di tutta una vita all’interno di se stessi. E ad avvolgere il sogno c’era una sorta di foschia, una nebbia che non permetteva loro di capire quale fosse il modo, sempre se ce ne fosse stato almeno uno, di realizzare il sogno, la condanna di ogni uomo che avrebbe voluto essere libero in una prigione chiamata vita.

    Bramosi di nuove esperienze, lontani dagli sbagli commessi, avrebbero in quel viaggio dovuto recuperare la voce che ogni bambino sente dentro di sé, quella che abbiamo percepito tutti e che ci parla di cieli azzurri, di prati sconfinati, di risate a squarciagola, di danze sotto la pioggia, della follia nella quotidianità. Lo stupore che nasce in noi, ogni volta in cui ci sorprendiamo e comprendiamo che la vita è ricca di opportunità e che il cuore e l’universo ci possono condurre alla felicità, quando finalmente arriviamo a essere nel posto a cui da sempre avremmo voluto appartenere, magari non come l’avevamo progettato.

    Affidandoci alla magia dei sogni possiamo essere condotti per viaggi inimmaginabili all’interno di noi stessi, verso la ricerca di ciò che non crediamo possibile.

    E voi, come loro, siete pronti per partire?

    New York

    I grattacieli, mastodontici e imponenti, dominavano imperanti la metropoli, con le loro forme per lo più squadrate e geometriche, contendendosi gli sguardi all’insù di tanti uomini ai loro piedi, estasiati come servi in adorazione. I palazzi più moderni svettavano, scintillando al sole di giorno e brillando di luce propria di notte, lasciando in ombra i più antichi, risalenti ai primi del Novecento, sparsi come perle rare per la città, testimoni del passare degli anni che non ne aveva turbato, ma anzi esaltato, l’eleganza senza tempo. La vista veniva ancor più appagata dalla sommità dei grattacieli e da tutti i giochi di prospettive, opera dell’ingegno umano, che le costruzioni, le une attaccate alle altre, riuscivano a regalare. Un paesaggio reso ancora più mozzafiato dall’acqua che accerchiava Manhattan e dalla striscia verde di Central Park, nel suo centro, in cui la natura si dimostrava degna avversaria delle architetture create dall’uomo.

    Nei suoi punti nevralgici, i palazzi erano rivestiti di sfavillanti insegne, contornati da accattivanti cartelloni pubblicitari, pronti a vendere qualsiasi cosa, insigniti dei marchi più conosciuti al mondo, addobbati da stravaganti luminarie.

    La Statua della Libertà in lontananza, dono del popolo francese, sorvegliava la città, relegata nel suo isolotto, quasi una moderna Cenerentola, indipendente e fiera del suo status symbol.

    Ci si poteva fermare nei piccoli negozi agli angoli dei palazzi o perdersi in enormi boutique e nelle attività commerciali di ogni genere, che abbondavano di proposte e offerte. Lungo i marciapiedi, si alternavano operai addetti alla manutenzione delle strade, bancarelle che vendevano hot dog e caramelle, e ambulanti che profumavano l’aria con le loro pietanze provenienti da ogni parte del mondo.

    Il traffico infernale, unico padrone della città, imperava riempiendo le strade di auto, di mendicanti per la strada, di impiegati in giacca e cravatta, di manager sempre al telefono, vestiti di tutto punto e con la valigetta da lavoro, di sportivi accaniti che correvano per tenersi in forma, di gente di ogni genere che semplicemente passeggiava. Tutto si presentava come un enorme spettacolo, pronto ad affascinare qualsiasi turista, con migliaia di comparse ognuna con un suo piccolo ruolo, a rendere New York la variopinta città che tutti conoscono.

    Era in questo crogiolo di etnie che il gruppo selezionato per il viaggio si era dato appuntamento.

    Il Pastore stava in piedi in trepidante attesa, nella terrazza interna al primo piano, a scrutare verso il basso cercando i prescelti che aveva fatto radunare, per quella mattina, nella lussuosa hall di sotto in quell’albergo in un quartiere centrale di New York. Si era nascosto dietro una pianta in modo da non essere notato, pur essendo consapevole che loro non avrebbero potuto riconoscerlo, non essendosi mai mostrato fisicamente nel sito, con la promessa che l’avrebbero conosciuto il primo giorno.

    Mentre di sotto un flusso ininterrotto di persone entrava e usciva, lui si voleva godere lo spettacolo dalla terrazza interna ancora per un po’, fingendo di aspettare qualcuno, coperto da un arbusto alto diversi metri, le cui foglie sbordavano verso il vuoto. Al piano terra, in mezzo a tanta gente, spiccava un ragazzo in forma, ben vestito, con un taglio moderno. Aveva il cellulare in mano ed era decisamente a proprio agio in mezzo ai pomposi vasi di cristallo, le statue in marmo, le comode poltrone e gli arredi di valore che lo circondavano.

    Aberdeen, che si deliziava a prendere in giro chiunque per sentirsi superiore agli altri, fin da piccolo era stato abituato al lusso più sfrenato e non aveva mai fatto mancare i propri commenti, spesso pesanti e privi di compassione, per chi non aveva avuto lo stesso trattamento. I soldi non erano mai stati un problema e la bella vita era il suo marchio di fabbrica, per portarsi a letto le più provocanti donne che poteva raccattare a New York, città dov’era nato. Il suo invidiabile conto in banca era un lasciapassare per ottenere trattamenti speciali e personalizzati nei posti più esclusivi di Manhattan. E trovava sempre la ragazza inesperta, attratta dal profumo irresistibile dei soldi e del fascino del potere, che finiva nel suo eccentrico e milionario appartamento con vista sull’Upper East Side della Grande Mela. Ci cascavano tutte, ogni volta che passavano per quella vista mozzafiato, tra fiumi di champagne e cannabis che li accompagnavano nelle serate da sballo che lui si divertiva a organizzare per dare uno scopo alle sue giornate altrimenti tutte uguali.

    In fondo non si era mai sudato niente nella vita, tutto era garantito dalle carte di credito, frutto di una catena di alberghi di cui il padre era proprietario e che ora erano gestiti dal fratello più grande e dal genitore. Aveva un unico obbligo quello di prendere la laurea; più per il buon nome della famiglia, che per necessità. Dava il minimo che poteva, ossia due esami l’anno, tanto per non essere estromesso dalla facoltosa università di management a cui era stato iscritto dal padre, senza chiedere il suo permesso. Era uno scambio equo, il suo vecchio pagava tutti i suoi vizi e lui in cambio arrancava con lo studio. In effetti, era più comodo strisciare carte di credito e riprodursi, piuttosto che aprire i libri per imparare teorie microeconomiche e bilanci aziendali o tabelle di costi e ricavi. Non aveva grossi pensieri, se non pensare a come spendere i soldi del suo stratosferico conto, appagando in ogni istante la sua voglia di essere un eterno Peter Pan.

    Poco più in là, appoggiato al bancone del bar, emergevano due spalle larghe e un fisico ben definito, quello di Jacob. Nonostante non fosse più un giovincello era ancora un uomo affascinante e in parte irrequieto. Aveva già un bicchiere pieno di alcol da svuotare davanti a sé, nonostante la colazione fosse finita da poco. Era biondo con gli occhi verdi, contornati da qualche ruga, una pelle liscia e con l’aria di chi ne aveva passate tante per i suoi giorni. Uno sguardo sfuggente e magnetico allo stesso tempo, uno dalle poche parole, di silenzi impenetrabili sigillati dal suo sorriso lucente e misterioso, che aveva abbagliato e intimorito la barista sudamericana, dopo il terzo giro di whisky.

    Non distante dal bar, Logan, vestito di nero, seduto composto su una poltrona con la testa abbassata, sembrava stesse pregando. Una sorta di guru, decisamente poco moderno e molto cerebrale. Era sulla quarantina, estremamente educato, sempre cortese nell’approcciarsi al prossimo e piuttosto colto. Il Pastore se lo ricordava per le lunghe chiacchierate nel forum che si erano fatti nei mesi passati. Non c’era argomento sul quale non si potesse disquisire con lui, aveva un’opinione su ogni tema e molte cose da raccontare.

    E un’altra dei sette che aveva postato una foto sfuocata e in bianco e nero nel suo profilo era Emily, un po’ per inesperienza e un po’ per insicurezza. Era in un angolo, appoggiata a una colonna, come a cercare un sostegno o un nascondiglio. Biondina e grassottella, una davanti alla quale non ci si ferma di certo a guardarla, se non per qualche battutina acida, era visibilmente spaesata e fuori posto, in quella hall che trasudava lusso e ostentazione. Eppure ce l’aveva fatta a essere lì, con una grande voglia di riscattarsi da una vita in cui non era stata nient’altro che una casalinga frustrata dentro quatto mura, che le avevano sempre fatto credere che non ci fosse niente di emozionate nella giungla della società, che aveva sempre visto solo attraverso internet o il televisore perennemente acceso.

    Da un tavolino si ergeva chiaramente una pila di libri e fogli sparsi qua e là, segno che Brenda era nei paraggi. Il Pastore la cercava con lo sguardo.

    Ed eccola, a pochi passi più a destra, la donna dai lunghi capelli neri già con lo stradario aperto e una calcolatrice in mano per fare i conti. Avrebbero affidato a lei la cassa e la tenuta del denaro comune. Sembrava la scelta più ovvia, essendo una delle astronome più rinomate e promettenti della nazione, una di quelle che passava le notti e i week-end a imparare a memoria formule. Brenda e il lavoro erano un’unica entità, visto che trascorreva gran parte delle sue giornate nel laboratorio di astronomia. Anche con lei non era stato facile instaurare un rapporto di confidenza, nelle conversazioni si mostrava molto formale e usava un linguaggio poco consono a una chat, decisamente inusuale o meglio, per usare le sue parole, era come trovare una «Nana bruna», un tipo di stella molto rara. Si era laureata diversi anni prima col massimo dei voti in fisica e aveva portato avanti un dottorato di specializzazione volto alla ricerca di nuove forme di vita. Un po’ strano per una che una vita sociale non ce l’aveva o si limitava a produrre teorie sulla fine dell’universo o a risolvere complicate equazioni a più incognite. La cosa più affascinate, del suo intenso lavoro, era l’osservazione del cielo che spaziava dalle stelle più conosciute a quelle appena nate, passando per gli incantati arcobaleni che le galassie sapevano regalare. Una moltitudine di colori da togliere il fiato, come le foto che ogni tanto aveva mostrato al Pastore.

    In quella confusione di persone che entravano e uscivano dalla hall, quei sette a vederli così non erano speciali, erano volti qualunque in mezzo ad altri, smarriti e frastornati. Li avresti potuti trovare alla fermata del bus, al supermercato, in fila alla posta, ad allenarsi in palestra, in qualche locale la sera a divertirsi e non li avresti notati, ad eccezione di Kiki.

    Era la perla della sua ricerca; il suo pezzo di follia in mezzo alla normalità: l’artista. Il pittore che sognava di diventare famoso in tutto il mondo. Aveva toccato diversi continenti e città, alla ricerca di paesaggi, di persone, di ambienti da poter intrappolare in un istante, per restituirlo poi a tutti quelli che si sarebbero fermati, catturati da tanta bellezza, davanti ai suoi dipinti. Tuttavia il suo tocco magico, come lui spesso l’aveva definito in chat, non gli aveva mai regalato tale notorietà, ma solo tante illusioni, che si erano trasformate in altrettante bocciature o lettere che iniziavano con «Ci rammarica informarla».

    Poco a poco la sua calda vitalità si era spenta come un fuoco le cui fiamme, vinte dal vento, si riducono lentamente, fino a diventare impercettibili, trasformandosi in un cumulo di ceneri.

    Il Pastore sapeva che ne mancava solo uno all’appello, anzi una; ma conoscendola bene era consapevole che si sarebbe presentata per ultima. Amava farsi aspettare e soprattutto desiderare. Sapendo ciò, le aveva affidato una busta, che le aveva fatto recapitare in camera e con cui avrebbe dato inizio ai giochi. Era certo che avrebbe fatto un buon lavoro perché era affascinato dal suo sogno, era quello che più l’aveva colpito. Era certo di non poter sbagliare, almeno su di lei. Li fissò ancora per qualche minuto, per ricordare il perché aveva scelto ognuno di loro, pensando che tra tre mesi tutto sarebbe finito, perché così era stato scritto.

    Poi si voltò e si avviò verso ciò che aveva concepito, verso un viaggio indimenticabile per tutti quelli che avevano ancora il coraggio di credere che i sogni andavano realizzati, ad ogni età, ad ogni costo, in ogni situazione e con ogni mezzo, lasciando che il destino facesse il suo corso.

    Amber scese le scale verso la hall, con tutta la calma che possono avere le donne, lasciando che gli occhi di tutti si posassero sui capelli cotonati e appena mossi, a scendere fino alle spalle. La gonna alle ginocchia stretta in vita e una camicetta di seta visibilmente scollata mettevano in risalto le curve; con un’eleganza d’altri tempi, come una diva i cui occhi erano tutti per lei, si passò le mani tra i capelli e poi con la punta del dito, dal quale risaltava il rosso dell’unghia, si sfiorò lentamente le labbra.

    Arrivata in fondo, estrasse un foglio dalla borsa, su cui si vedeva chiaramente la scritta «N.O.E.S.».

    Pian piano gli altri si avvicinarono, fino a che furono tutti e sette assieme per la prima volta, formando una sorta di cerchio. Emergeva la cresta rossa di Kiki, l’abito scuro di Logan, la timidezza e l’imbarazzo di Emily con lo sguardo verso il pavimento, il profumo di Amber che si sentiva a metri di distanza, la compostezza di Brenda racchiusa nel tailleur sobrio in contrasto con l’abito firmato che esaltava lo status symbol di Aberdeen, che già vendendoli meglio dal vivo si era pentito di aver accettato di farne parte. E infine l’imponenza del cinquantenne Jacob, mascherata da una sorta di riservatezza che a prima vista non ci si poteva spiegare.

    A turno si presentarono di persona e si salutarono.

    Ora mancava solo il Pastore, l’artefice del progetto, che tutti aspettavano si palesasse, per conoscerlo e poter dunque iniziare il viaggio.

    Erano tutti curiosi di sapere chi fosse, innanzitutto se una donna o un uomo, quale fosse il suo lavoro e come mai avesse deciso di organizzare quel viaggio coinvolgendo tutti loro. Le domande abbondavano nelle loro teste, visto che nelle chat di mesi precedenti era stato piuttosto misterioso, promettendo loro tutte le risposte una volta che si sarebbero incontrati.

    Osservavano attentamente chiunque si avvicinasse al gruppo scrutandolo a fondo, in modo da capire se fosse lui oppure no. Erano a conoscenza che doveva essere piuttosto giovane e che aveva deciso di intraprendere quel viaggio a seguito di una notizia che gli aveva cambiato la vita.

    I minuti passavano lenti, interrotti solo da nuovi volti di passaggio, che di volta in volta sembravano essere il Pastore.

    «Ah, scusate, quasi dimenticavo» - disse Amber, interrompendo l’inutile ricerca - «ho ricevuto istruzioni dal Pastore e credo riguardino tutti noi» spiegò inebriando il gruppo col suo fascino, che andava oltre la bellezza che traspariva dalle sue curve ben in vista.

    «Almeno credo siano delle istruzioni» si corresse subito sorridendo. E i maschi del gruppo l’avevano già perdonata per l’attesa.

    Estrasse una busta. La strappò con uno charme innato, suscitando un pizzico d’invidia da parte delle donne lì presenti. Lentamente aprì il foglio ripiegato in essa e lesse a voce alta in modo che tutti sentissero.

    «Cari amici,

    Oggi non posso essere con voi e non potrò esserlo per il resto del viaggio, perché ho scoperto di avere una malattia grave e non mi posso spostare.

    Il mio spirito è con voi e resterò in contatto con voi tramite Amber, la quale potrà chattare con me attraverso il numero che troverà in questa busta.

    Vi prometto che ci vedremo a destinazione a Los Angeles al Beverly Hotel. Quando sarete in città mi farò vivo io.

    Siete qui per ricercare e ritrovare la fiducia nei sogni, ricordatevelo sempre durante questo viaggio. Divertitevi e abbiate cura di voi stessi e dei vostri compagni.

    Ci vediamo presto.

    Il Pastore.»

    Philadelphia

    La primavera era nell’aria, mentre dopo aver lasciato «La Grande Mela» con le istruzioni del Pastore, si dirigevano verso la prima meta del viaggio. Nelle settimane a venire avrebbero attraversato diversi Stati dello sconfinato continente americano fino a giungere a Los Angeles, la loro ultima destinazione, dove finalmente avrebbero conosciuto di persona l’ideatore di quell’indimenticabile avventura.

    Si erano organizzati in questo modo: avevano noleggiato un pick-up a due

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