Sorrisi di gatto
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Info su questo ebook
In ogni racconto compare un gatto, o un bambino affetto dalla sindrome “Cri du Chat”, grido del gatto: i bambini che nascono con questa rara anomalia genetica si affacciano alla vita emettendo un suono simile a un miagolio.
I proventi della vendita di questo eBook saranno affidati all’Associazione Bambini Cri du Chat, una Onlus che da vent’anni aiuta le famiglie di questi ragazzi. La solidarietà, l’impegno e il desiderio di dare una mano a chi è in difficoltà hanno permesso che, almeno nei nostri cuori, il grido del gatto si trasformasse in un sorriso.
La raccolta è curata da Maria Cristina Capanni e dall'Associazione Culturale Pa.Gi.Ne.
Grazie per il vostro sostegno!
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Anteprima del libro
Sorrisi di gatto - Annamaria Fassio
Capanni
1
Pioggia di carta
di Paola Barbato
Camminava nella notte per quelle strade note, quella città che gli aveva dato i natali e che pure gli sembrava estranea e sconosciuta. In lontananza un gatto miagolava, forse smarrito quanto lui. La pioggia cambia sempre tutto, gli odori, i colori, le sensazioni. Bisognerebbe vietarla, la pioggia. Lui camminava, un passo dopo l’altro, inzuppato, intirizzito. Non aveva meta e non la cercava. Una parte della sua mente insisteva nel volergli ricordare che aveva fatto qualcosa, qualcosa di molto brutto. Lui ricacciava indietro il pensiero e prendeva nuove strade, allontanandosi ancora di più da quello che aveva fatto e da dove l’aveva fatto. Era sempre stato un uomo pacifico, poco incline alle discussioni, all’asprezza di toni, del tutto privo di sarcasmo e di livore. Aveva ottenuto quanto riteneva gli spettasse, aveva realizzato uno solo dei suoi tanti sogni, ma si riteneva fortunato, perché quella realizzazione valeva mille fallimenti. Un giorno si era guardato allo specchio e si era scoperto felice. Da allora la sua vita era stata in discesa. Non ricordava di avere mai vagato sotto la pioggia, nella notte, prima di allora. E dire che la pioggia gli aveva sempre messo allegria. Tutto quel rumore, quel ticchettio come il becco di migliaia di uccelli che bussano gentilmente a un vetro o sulle tegole del tetto. Perché ora, invece, ogni goccia era una sassata, un moto di disprezzo che il cielo aveva verso di lui?
Il gatto miagolò ancora, stavolta un suono meno distante, più definito. Si guardò le mani. Rosee e lisce, mani innocenti, delicate, come delicato era lui, come delicati erano i suoi sogni. Si concesse un ricordo, uno solo: la sua ultima creazione. Qualche profano avrebbe pronunciato la detestabile parola: origami
, ma lui sapeva che le sue sculture erano solo lontanamente imparentate con l’arte orientale. Sempre di carta si trattava, era vero, e di magnifiche e sontuose opere, una volta terminato il lavoro, eppure la via per raggiungere quelle forme dall’equilibrio delicatissimo non era fatta solo di pieghe meticolose e millimetricamente misurate. A volte restava chiuso per giorni nel suo studio, sotto la luce accecante del sole che attraversava a picco la vetrata che aveva preso il posto del soffitto. Aspettava che la carta gli parlasse, che la prossima piega si sollevasse da sé, forse solo in un’allucinazione. Era un uomo solo, e il suo lavoro si era preso la quasi totalità della sua vita sociale. Gli aveva fruttato tantissimi soldi, aveva avuto modo di sistemare la famiglia, gli amici caduti in disgrazia e anche l’esistenza di molti estranei. Dopo la prima ondata di ringraziamenti le voci si erano spente. Erano rimaste quelle del pubblico e dei critici, ma il calore dell’umanità lo aveva presto abbandonato. Di fronte allo specchio si era chiesto se il suo mondo di carta valesse una tale perdita, e si era risposto di sì. Ma ora, in quella notte, non ne era più sicuro. Il ricordo arrivò feroce, come un colpo di spada: quella sera c’era stata l’inaugurazione. Una nuova galleria, tutta sua, in pieno centro. E critici, e giornalisti, e pubblico, e lui aveva indossato un dolcevita a collo alto che si stava infeltrendo sotto la pioggia. Tutte le sue opere principali erano esposte lì, e in mezzo a esse troneggiava il lavoro degli ultimi sei mesi, la sua opera più importante. Le lodi si erano sprecate, ma lui a malapena le aveva ascoltate, concedendo un sorriso di circostanza a tutti. Sapeva quanto gli fosse costato quel lavoro, e quanto valesse, non in termini di denaro, ma in attimi di vita, istanti irripetibili in cui il fuoco della creatività lo aveva arso fino in fondo. Il fuoco, ecco. Si guardò i polsini del dolcevita sotto la luce incerta dei lampioni. Il nero aveva preso delle striature marroni, là dove il fuoco lo aveva lambito.
Ricordò gli occhi di quella ragazza, forse non più tanto giovane, ferma da più di mezz’ora davanti al suo capolavoro.
Ricordò come l’aveva notata distrattamente, e poi seguita con sempre maggiore attenzione, mentre girava intorno alla forma indistinta, si accucciava, si sollevava sulla punta dei piedi e infine si fermava, improvvisamente, da un lato. QUEL lato. Il lato che nascondeva l’imbroglio, la frode. Un punto segreto e misterioso che conosceva solo lui, un punto nel quale la sua ispirazione lo aveva abbandonato come uno stormo di passeri abbandona un albero secco. Così vicino alla fine, si era trovato sguarnito, non più geniale di un qualsiasi bambino che appallottola un foglio. Non sapeva come concludere, e anche se era consapevole che si trattava di una sciocchezza, che nessuno ci avrebbe badato mai, nemmeno il critico più esperto, il rimorso di aver scelto una via facile per sfuggire al tormento della perdita lo aveva perseguitato. Ma poi l’esposizione al pubblico lo aveva rassicurato, nessuno aveva notato nulla, e come sarebbe stato possibile? Finché non era arrivata quella ragazza, quella sconosciuta in mezzo a centinaia di persone, che fissava un punto. IL punto. Resse la sua fissità per un’altra mezz’ora, poi la raggiunse.
«Le piace?»
Lei gli rivolse un sorriso.
«Che cosa?»
E lui capì che lei sapeva. E capì che tutto era finito. Bastava una persona sola a smascherarlo, a dichiarare al mondo che non era un grande artista, non più, ma un mestierante come tanti.
L’inaugurazione era finita, erano rimasti soli lui e un accendino. Aveva disattivato l’allarme e fatto quello che doveva fare.
Ora vagava sotto la pioggia, le sirene che aveva udito da principio si erano fatte lontane sino a sparire. Restava solo il miagolio del gatto da tacitare, e forse allora avrebbe avuto pace. Non ebbe bisogno di cercarlo, lo trovò sotto la tettoia di un portone, erroneamente chiuso fuori dai padroni di casa. Era un gattino giovane, di colore indefinito, e miagolava per protesta.
L’uomo gli si sedette accanto.
Lo accarezzò.
E il gattino tacque.
2
Zagaziq
di Francesca Carlucci
Zagaziq era una gatta. Nera. E Bastetti, si disse, un cognome d’origine piemontese. Iside però, secondo l’avviso di mio nonno, bolognese, era un di quei strambi nomi romagnoli.
Zagaziq viveva con il medico veterinario Iside Bastetti, una donna d’indefinibile età dagli occhi un po’ obliqui e color dell’ambra come quelli della sua gatta, che contrastavano insolitamente con la chioma d’un nero metallico, lunga, liscia e divisa da una riga sottile sulla cute argentea.
Erano arrivate un pomeriggio primaverile, dopo una gran pioggia, mentre l’arcobaleno cavalcava i cieli e lo scirocco odorava d’erbe e mare.
C’era un grande cancello. A sinistra l’edificio basso dell’ambulatorio. In fondo una dipendenza tutta finestre e tegole muschiose.
Tutti pensavamo che la dottoressa abitasse nelle stanzette del primo piano, sullo studio. Tutti tranne Gianguido, che invece indicava la dipendenza col suo ditino grassoccio di bimbo.
Come a segnare un confine, tra l’edificio a sinistra e la costruzione vetrata si innalzava un cipresso secolare. La sua cima possente si vedeva da lontano, come la testa conica d’un gigante si affacciava sui tetti delle case.
D’inverno era una cuspide di ghiaccio, d’estate la babele canora dei passeri.
«È come un obelisco». Avrebbe detto Iside, un giorno, a Gianguido che, come al solito a bocca aperta, doveva stare osservandola di sotto in su.
«O uno gnomone, se preferisci.» Alla parola gnomone, Gianguido era scoppiato in una di quelle sue risate interminabili, singhiozzanti, strane.
Perché sì, in effetti, Gianguido era un bambino un po’ diverso.
Era il più piccolo tra tutti noi bambini di allora.
Ci accomunavano pochissime cose, e non soltanto per via della differenza d’età.
E poi, lui nemmeno aveva un gatto.
Nel quartiere, quasi ogni famiglia lo possedeva. Trovatello o cercato, acquistato perfino come Felix, il sinuoso siamese; o Morgana, lo sdegnoso persiano color crema.
«Mieu. Mieu». Diceva Iside, sommessamente. E non c’era felino che non accorresse a contendersi la sua attenzione e qualche prelibato bocconcino.
«Mieu vuol dire gatto.» Ci illuminò un giorno Gianguido, che una frase compiuta arrivava a dirla sì e no tre, quattro volte in un anno.
«E chi te lo ha detto?» chiedemmo noi tutti, praticamente in coro.
Gianguido fece la faccia compunta, sporse il labbro, si concentrò. La fronte gli luccicò di sudore.
«La signora delle bende.» Spiccicò infine.
Beh, un veterinario le garze le usa, ci dicemmo. E la dottoressa Bastetti diventò da allora la ‘Signora delle Bende’ anche per noi.
Molti erano quelli che, a sera, mettevano il gatto fuori dalla soglia. Ma alcune persone no, lo tenevano in casa. E furono loro a notare che le bestiole sparivano col buio per farsi poi ritrovare al mattino al solito posto, poltrona o cestino che fosse.
Poi venne la notte che persino Gianguido non fu trovato nel suo lettino. Spaventati, i suoi genitori chiamarono i Carabinieri.
Gente uscì dalle case, in pigiama, in camicia da notte. Si formarono spontaneamente piccoli gruppi che si sparsero in giro cercando, chiamando.
Ma Gianguido tonto e rotondo, rotonto come dicevamo con un po’ di cattiveria, era come svanito.
All’alba, sua madre entrò nella cameretta a prendere un indumento da far fiutare ai cani poliziotto che stavano per arrivare e Gianguido era là, nel suo lettino, che ronfava spiegando beatamente le sue ancora intonse adenoidi.
E tanto fu il sollievo, che a sua madre passare per rinciciuita parve il male minore!
Andavamo spesso dalla veterinaria. Chi portando un uccellino caduto dal nido, chi la tartarughina cui aveva involontariamente pestato una zampetta.
In fondo, ci piaceva il giardino profumato sorvegliato dalla mole svettante del cipresso.
Zagaziq saltava nell’erba inseguendo uno scarabeo simile a un fuoco verde. L’insetto si librava sulla micia poi scendeva in picchiata ed urtava contro il velluto delle zampette protese. Sembrava che assecondasse il gioco della gatta.
Incantati, seguivamo la loro danza finché non scomparivano dove la vegetazione era più fitta e la dottoressa si affacciava magicamente sulla porta dell’ambulatorio, e sorrideva.
Non era mai accaduto che la vedessimo insieme a Zagaziq.
Iside aveva un’automobile nera, una Volkswagen decapottabile. Le targhe di allora avevano le lettere della provincia scritte in arancione. Sulla sua, la sigla RA sembrava più luminosa di quelle delle altre automobili.
«Raa. Raa. Raa.» Canterellava Gianguido protendendo una manina davanti a sé. Obbediente, lo scarabeo giungeva da chissà dove a posarsi sul suo palmo appiccicoso di caramella.
La dottoressa era brava, lo dicevano tutti. E soprattutto la lodava la vecchia Palmira proprietaria della decrepita Matilde, una cagnetta bastarda, sorda e ringhiosa. Perché Iside non le chiedeva mai l’onorario e le passava gratis anche le medicine. Diversamente, Palmira non avrebbe potuto permettersi di curare la sua bestiola.
Eravamo andati a scuola a cinque anni, volonterosi o recalcitranti che fossimo.
Per Gianguido, invece, i suoi genitori preferivano aspettare che ne compisse almeno sei.
Perciò quando inopinatamente lo vedemmo scrivere, gli occhi ci saltarono fuori dalla testa.
Seduto su un gradino, Gianguido faceva volteggiare la penna con mezza lingua sporgente dalla bocca serrata.
Ci avvicinammo. La sorpresa quasi cedeva il passo a una specie di reverenziale rispetto.
Cautamente, andammo a sbirciare il quaderno che teneva aperto sulle ginocchia.
Non c’erano lettere ma disegnini. Infinitesimali uccelli e pesciolini. Occhi obliqui, semicerchi, piume, serpentelli… Vele senza scafo, scafi senza vela…
Ci involammo, spaventati. Di noi in fuga Gianguido non dovette percepire che il rapido spostarsi dell’aria, ma nemmeno sollevò la testa.
Quando ci voltammo, a distanza, vedemmo Zagaziq seduta accanto a lui, fiera e immobile come una statua di basalto. Sembrava quasi osservarlo compiaciuta.
Il gatto di