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il retro dei sogni
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E-book334 pagine4 ore

il retro dei sogni

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Info su questo ebook

Fabio è un giovane ingegnere chimico che lavora nella fabbrica della sua città, alla ripresa dei lavoro, dopo il periodo estivo, decide di prendersi una macchina nuova e di disfarsi della vecchia che aveva da tempo immemorabile. Una mattina la macchina nuova arriva,  e lui decide di provarla facendo un giro più lungo mentre va a lavoro.  Una serie di pensieri e di stati d’animo inconsueti si infiltrano nel desiderio di familiarizzare con la nuova macchina, e, tappa dopo tappa, si ritrova  fuori regione, nella città in cui ha vissuto un amore di gioventù. Il luogo riesce a trattenerlo con ricordi, sensazioni e interrogativi, intanto stringe amicizia con Irina, una prostituta slava, con Marta ricercatrice precaria di psicologia che nei ritagli di tempo collabora con l’anziano genitore nella gestione di un bar, e Alfredo amico di gioventù del padre di Marta, un barbone non del tutto uscito dai ritmi della convivenza sociale.  Il desiderio di capire il motivo per cui è finito proprio in quel posto lo porta a incontrare Federica, la vecchia fidanzatina, vigile della città. Dai colloqui con gli amici e con Federica capisce che la sua vita ha preso una direzione distorta proprio a causa di quel luogo e di quella storia giovanile. Ritorna a casa con il proposito di rimettere la sua vita nel suo alveo naturale.
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2020
ISBN9788869632174
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    il retro dei sogni - Francesco Delle Femine

    Francesco Delle Femine

    IL RETRO DEI SOGNI

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2020 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    elisonpublishing@hotmail.com

    ISBN 9788869632174

    I

    Un fischio del telefonino richiamò la sua attenzione, mise una mano nella tasca della giacca, lo prese, lo accese, lesse il messaggio.

    Sono qui! rispose in fretta.

    Esco!

    Si portò nel vialetto, si fermò al centro della carreggiata, allungò un’occhiata in fondo, scorse un lato del carro attrezzi parcheggiato, alzò la mano per farsi riconoscere, l’autista si sporse dal finestrino. Gridò forte.

    È lì, poco più avanti.

    Cominciò ad avanzare. L’autista scese, fece pochi passi, riconobbe la macchina, si fermò.

    È aperta? chiese con un tono ironico.

    Sì. rispose deciso, senza raccogliere l’insinuazione, continuando ad avanzare.

    L’autista aprì lo sportello, infilò dentro la testa, la ritrasse in fretta.

    478.000 chilometri e più.

    Lo raggiunse, si affiancò.

    Puoi portarla via così, ho tolto tutto quello che mi interessava.

    Mai visto una macchina con tanti chilometri, quanti anni ha? Più di venti, sicuramente.

    Che t’importa, portala via e basta.

    No! disse l’autista con voce ferma.

    Prima devo vedere la nuova, non voglio correre rischi, saresti capace di venire al centro di demolizione per riprendertela.

    Allungo la mano per indicargliela. L’autista si voltò, fece qualche passetto di lato, la scorse.

    Ah beh, allora procedo.

    Si girò di nuovo dalla parte di lui, lo trovò con le chiavi in mano, le prese, guadagnò il carro attrezzi, salì, mise in moto, sfilò la macchina dalla fila, la pose al centro del vialetto, scese, raggiunse il carrello posteriore, afferrò l’argano, l’agganciò al paraurti. Si raddrizzò per prendere fiato, si aggiustò il berretto, guardò velocemente in successione il gancio, il filo e il carro attrezzi. Si girò verso Fabio, allargò le braccia.

    Procedo?

    Fece finta di niente. L’autista raggiunse la cabina, salì, lentamente tirò l’auto sul cassone. Terminata l’operazione si sporse platealmente dal finestrino.

    Vado?!

    Lo mandò via con un breve gesto della mano. La per la per la fece finta di niente, ma restò a fissare lo sbocco del vialetto anche dopo che il carro attrezzi aveva svoltato l’angolo.

    Una tortora dal collare gli passò davanti, la segui con lo sguardo, la vide che si andò a posare sul piccolo pino all’angolo dell’aiuola.

    Strano, è sola.

    Subito dopo ne arrivò un’altra, le si posò affianco.

    Ah, ecco!

    Ritirò lo sguardo, iniziò a muoversi, avanzò lentamente, all’altezza del piccolo pino smorzò leggermente di lato, pochi passi e fu davanti alla sua nuova macchina, era parcheggiata all’inizio della fila, un po’ ad angolo con la strada principale che tagliava in due il parco. Mise le mani in tasca.

    Eccole.

    Tirò fuori la chiave, la portò vicino alla maniglia, cercò l’apertura.

    Ma dov’è?

    Provò di nuovo, e poi ancora di nuovo, non la trovò, si piegò, pose gli occhi all’altezza della maniglia, ispezionò con le dita lentamente il pomello.

    Ma dove l’hanno messa.

    Si rialzò, fu preso dallo sgomento, ma subito si riprese.

    Che sbadato, il buco è superato.

    Fece un passo indietro, distese il braccio in avanti, puntò la chiave verso la maniglia come se le stesse dando il colpo di grazia, schiacciò con decisione la parte larga della chiave, uscì un clic secco, forte, deciso.

    Ecco!

    Entrò, mise in moto, partì.

    Faccio un giro, così la provo.

    Prese il cellulare, fece partire una chiamata in automatico.

    Ciao, sono Fabio, senti, ho un problema, faccio un po’ di ritardo, una, due orette. si spazientì, rispose con la voce un po’ alterata.

    Che c’entra il carro attrezzi, si è venuto, se l’è presa, vuoi sapere altro? cercò di riprendere la calma.

    No, non vado a provare la macchina nuova.

    Ebbe un attimo di esitazione, cercò una scusa, disse la prima che le passò per la testa.

    Ho un problema con l’assicurazione, va bene?

    Si rimise il cellulare in tasca, usci dal parco, prese nazionale.

    Prima vado a fare colazione, ovvio, come sempre.

    Non fece la solita strada, quella più corta, svoltò a sinistra, in direzione del corso.

    Allungo un po’, così comincio subito a prendere dimestichezza.

    Diede un’occhiata panoramica al cruscotto, guardò attentamente tutte le spie, i loghi, i numeri del quadro di comando.

    C’è qualcosa in più, ma per il resto tutto come al solito.

    Inarcò impercettibilmente le spalle.

    Una macchina è una macchina.

    Fece tutto il corso, in fondo svoltò a destra, risalì per la parallela per tornare all’altezza del punto di partenza.

    Certo non potevo tenerla più, quando parte il motore non c’è più niente da fare, ho chiesto a tutti i meccanici che conoscevo.

    Si trovò sulla strada che portava alla fabbrica.

    Mi hanno detto tutti la stessa cosa, rifare il motore a una macchina di 20 anni è stupido.

    Si portò in avanti senza badarci, quasi arrivò all’imbocco della fabbrica.

    Lo so che è stupido, ma era la mia macchina.

    Passò davanti al bar dove faceva colazione tutte le mattine che andava al lavoro.

    Non mi dovevo lasciar convincere.

    All’ultima strada per rientrare svoltò.

    Vado al bar della domenica, se è festa è festa.

    Salì il cavalcavia, scese dall’altra parte. Il suo gommista aveva appena aperto, stava mettendo fuori i vari tipi di gomme usate che ornavano l’ingresso dell’officina.

    Si dispose a salutarlo, poi sorrise, scosse la testa.

    Non mi vedrà, sono nella macchina nuova.

    Il gommista si rizzò, lasciò cadere ai suoi piedi la gomma che aveva in mano, guardò fisso dentro la macchina, quando si accertò che era proprio lui, lo salutò agitando vistosamente la mano, accompagnando il gesto con un sorriso evidente.

    Mi ha riconosciuto?! Come ha fatto!

    Ci pensò un po’ su, poi si rispose.

    Ma no, non può essere, saluta tutti, è una sua abitudine.

    Non si sentì del tutto soddisfatto della risposta che si era dato, se ne propose un’altra che ritenne definitiva.

    Dalla macchina m’avrà preso per un altro che ha salutato, poi, dopo, riconoscendomi, mi ha sorriso.

    Arrivò al quadrivio, svoltò a sinistra, aveva davanti un rettilineo di qualche chilometro, si dispose a percorrerlo con serenità spensierata.

    Ma quanti anni sono che conosco il gommista?

    Ci pensò con impegno.

    Mah, sicuramente decenni.

    Scrollò le spalle.

    Che domanda ti vai a fare, da sempre, o perlomeno da quando hai la macchina.

    Arrivò ad un trivio, la strada di sinistra portava verso i paesi della zona collinare, era abbastanza frequentata, decelerò fino a quasi fermarsi.

    Eppure non so come si chiama, quanti anni ha, se è vedovo, sì, certo, lo chiamo signor Garoce, ma questo è il cognome che si legge sull’insegna dell’officina.

    Gli venne da ridere.

    Potrebbe essere il cognome di un altro, uno a cui è subentrato, addirittura la marca di un prodotto, di una camera d’aria, un lucidante. Si preoccupò.

    Devo vedere su internet se c’è una linea di prodotti per gomme con questo nome, non vorrei aver fatto il fesso fino ad adesso, magari mi ha preso per un tipo spiritoso, di quelli che si prendono certe confidenze. Riprese ad andare alla stessa andatura di prima, si ricordò di essere nella macchina nuova per quell’odore strano che hanno le cose nuove, un odore misto di imballaggio, plastica, vernice.

    Però come è fatta la vita, uno sta in un posto da sempre, da quanto non se ne ricorda neanche più, da tutta una vita.

    Si scosse come se un brivido di freddo gli stesse percorrendo la schiena.

    Ma quanti anni sono che sta lì? Tutte le mattine tira fuori le gomme, tutte le sere le rimette dentro, apre alle otto, chiude alle venti, praticamente è ai domiciliari.

    Fermò il pensiero, se lo figurò davanti agli occhi nell’atto di spostare le gomme.

    Avrà qualcosa più di sessant’anni, quindi sta lì da più o meno quarant’anni. si stupì di tanta longevità prolungata e continua.

    Chissà come succede che uno sceglie un posto e non un altro. Sarà casuale? C’avrà pensato il giorno che ha aperto che ci sarebbe restato tutta la vita?

    Arrivò all’altezza della vecchia fabbrica dismessa della Siemens, recitò a mente in fretta un’Ave Maria come faceva sempre quando ci passava davanti. Se non lo faceva veniva assalito dall’ansia. Questa fabbrica e la sua erano nate insieme negli anni’70, poi, chissà per quale scherzo del destino, la sua era sopravvissuta, e tuttora, all’orizzonte, non si intravedevano nuvole minacciose.

    Quando si fermò lì, la nazionale era ancora contornata dai platani su entrambi i lati, tra un paese e l’altro c’era solo campagna, la macchina successiva passava non prima di un minuto, si bucava poco, ma era una nazionale, la strada allora più trafficata, avrà pensato che era il posto migliore che ci potesse essere.

    Sorrise.

    Chissà, magari è lui che ha portato fortuna alla mia fabbrica, forse se apriva nei pressi della Siemens i destini si sarebbe ribaltati.

    Fu sotto il ponte della ferrovia Alifana, svoltò a sinistra.

    Basta col gommista, tanto anch’io sto nella stessa fabbrica da qualche decennio, entro alle sette e trenta de esco alle diciassette e trenta, sempre una prigione è.

    Rallentò frenando leggermente, poco più avanti avrebbe incrociato una stradina da dove spesso sbucavano macchine all’improvviso.

    Sì, però, così, solo per precisazione, io dovevo finire per forza lì, sono un ingegnere chimico, la mia è l’unica fabbrica chimica della zona, o lì o in un’altra fuori provincia, ma non in qualunque posto, non ho scelto, ha scelto qualcun altro per me.

    Si impose di non pensarci più. Rallentò, una macchina gli sfrecciò davanti, poi subito un’altra, e un’altra ancora, si avvicinò quasi fino a toccare quest’ultima, fu così che la successiva, che stava per immettersi sulla strada, decise di cedergli il passo. Diede un’occhiata d’insieme al quadro comandi.

    Ma sì, è sempre la solita roba, quel che c’è in più è quel che non serve.

    Fece il tratto che lo separava dal suo bar in ascolto attento del motore della macchina.

    È inutile, per quanto ti impegni non riesci a sentirlo.

    Si innervosì senza capire perché, dopo averci pensato un po’ intuì la ragione.

    Mi da un po’ fastidi, la mia si faceva sentire eccome, come faccio adesso a capire se è accesa o spenta?

    Parcheggiò nel tratto non a pagamento, scese, il parcheggiatore abusivo africano gli piombò addosso, chiuse lo sportello accompagnandolo piano con la mano.

    Oggi non è domenica.

    Fece ruotare nell’aria la mano per indicare il futuro prossimo, s’incamminò verso il bar, dopo pochi passo si fermò, si voltò, rimase qualche attimo a guardare la macchina.

    Non l’ho chiusa, non è mica la vecchia macchina.

    Tornò rapidamente indietro, cercò di infilare le chiavi nella maniglia della portiera.

    Aridagli, è elettronica, niente buco.

    Fece un passo indietro, punto la chiave in direzione dello sportello, come se volesse sigillarlo, premette decisamente il bottone, le quattro frecce lanciarono al contempo un raggio laser, si videro anche contro il pilastro del porticato.

    E che è, piedigrotta?

    Quattro passi e fu davanti all’ingresso del bar, il giovane africano gli sbarrò la strada piazzandogli davanti il berretto disteso.

    Non è domenica.

    Passò oltre senza neanche guardarlo. Passò alla cassa, quindi al bancone, ordinò caffè e cornetto, si spostò al lato del banco dei dolci. La barista gli porse il cornetto a crema pasticcera senza aspettare che lo chiedesse. Lo prese, ritornò al bancone, adagiò lo scontrino sul pianale, cominciò a mangiarlo. Di solito, la ragazza bionda, alta, sorridente, di cui sapeva il nome perché era scritto sul cartellino appuntato alla camicia, gli metteva davanti immediatamente il piattino e il bicchiere d’acqua gassata. Stavolta non fu così, indugiava sorridente davanti a un cliente che le parlava animosamente. Si incuriosì, facendo finta di sistemarsi meglio, si avvicinò un po’ per origliare. Il cliente le stava dicendo delle carinerie garbate, velate, sotto forma di apprezzamento per il servizio ricevuto. La ragazza bionda, con la testa bassa sul lavandino, ascoltava compiaciuta e divertita, mentre indugiava a sciacquare le tazzine. Ritirò lo sguardo temendo di essere visto.

    Se li sta prendendo tutti i complimenti.

    Si girò dalla parte opposta per non farsi disturbare il pensiero dalla curiosità che attiravano i loro comportamenti.

    Strano, pensavo fosse sposata, si insomma, che avesse un uomo.

    Istintivamente andò a guardarle la mano sinistra.

    Non ha anelli a nessun dito.

    Inarcò le spalle, distese il collo, corrugò le sopracciglia.

    Beh, non significa granché, molti non la portano.

    Tornò a guardarla, ma il pensiero continuando il suo percorso lo distrasse.

    Però non averne nessuno, potrebbe essere anch’esso un segnale, una manifesta dichiarazione di disponibilità.

    Si spazientì.

    Vallo a sapere! In genere ogni fatto si può guardare in due modi diametralmente opposti, e spesso paritetici in valore e potenzialità, fanno bene quelli che quando vogliono sapere una cosa la chiedono e basta.

    Tornò a guardare dalla loro parte, la scena non era cambiata, solo che l’uomo parlava più lentamente e a voce più bassa.

    Starà pensando di aver fatto colpo, sarà passato dalle facezie alle romanticherie, eppure ne ero convinto che avesse un uomo, pacata, ordinata, paziente.

    Tornò ad interessarsi esclusivamente del cornetto, lo schiacciò per bene per far aderire la crema pasticcera ai due lati.

    Come è subdola la consuetudine, chissà quante cose credo di sapere di lei e non c’ho mai scambiato una parola, sì, si chiama Irina, ma questo si legge sulla targhetta.

    Il cornetto era collassato piegandosi su un lato, lo girò per poterne prendere un lembo.

    È così che lavora la consuetudine, uno si fa delle domande, si dà risposte, costruisce un’architettura di congetture basate sull’aria.

    Diede uno sguardo rapito all’avventore che conversava con Arina, lo ritirò in fretta per posarlo sui resti del cornetto.

    Fa bene lui, se ha una curiosità chiede, ma io sono troppo arrogante per correre il rischio di sembrare invadente.

    Scosse velocemente la testa per smorzare il pensiero.

    Magari un uomo ce l’ha, sta al gioco per ingannare il tempo, e basta.

    Sopraggiunse la collega di Arina, posò il piattino e il bicchiere d’acqua gassata.

    Però, confessalo, di questa non lo sai il nome, eppure la targhetta c’è l’ha lo stesso, quindi la bionda ti piace.

    Bevve subito l’acqua, doveva lavarsi la bocca per gustare meglio il caffè, ma doveva farlo prima che questo arrivasse, altrimenti il gusto si sarebbe diluito nell’acqua e il contrasto di calore l’avrebbe stemperato.

    Sì, mi piace, ma non significa niente, è straniera, quindi è normale che uno ci presta più attenzione.

    Arrivò il caffè, lo portò personalmente il barista che lo aveva fatto, ci teneva ad dedurre l’apprezzamento leggendo tra le pieghe della bocca del cliente. Porse con delicatezza la tazzina sul piattino.

    Ingegnere … ecco.

    La girò in modo da presentare il manico alla sua mano destra. Appena voltò le spalle, Fabio riportò lentamente il manico verso sinistra, abbassò lo sguardo nella tazza, aspettò che calasse un po’ di livello per non scottarsi la punta della lingua. Prese la tazza, la portò lentamente alla bocca, gli occhi liberi di vagare per sbirciare i due.

    Sono ancora lì, è proprio contenta, sorride di continuo, sta ripassando le tazzine già lavate pur di continuare a restare.

    Bevve il caffè a piccoli sorsi, fino all’ultima goccia, sfruttando il vantaggio di chi lo prende completamente amaro.

    Ottimo!

    Involontariamente diede un’occhiata al barista.

    Ma se gli dico solo mezza parola, me lo dovrò sorbire per il resto dell’eternità.

    Adagiò la tazzina sul piattino, rimase qualche secondo fermo, per lasciare al naso il tempo di assorbire tutto l’aroma intrappolato al suo interno, si girò per andare via.

    Non c’è più.

    L’uomo si era dileguato, Irina aveva raggiunto il banco dei dolci per aiutare la collega. Uscì con lo sguardo puntato dritto sulla porta, sotto i portici irruppe nella mente una curiosità incontrollabile.

    Ma una persona può rinunciare, forse per sempre, alle strade che ha percorso mano nella mano con il grande amore della gioventù?

    Si fermò, si girò intorno, quasi a vedere se qualcuno avesse sentito il suo pensiero.

    Dico meglio, può una persona vivere in un posto, dove ha la certezza assoluta che non incontrerà mai più la persona che gli ha strapazzato il cuore, fino a fargli superare lo stress test più importante e impegnativo della vita? Quella persona che ha amato perdutamente fino a perderla interamente?

    Aveva ripreso a camminare senza accorgersene.

    Non dico che sia fondamentale, ma così, fosse anche solo per rinfrescare di tanto in tanto il rancore.

    Uscì dai portici, pochi passi fu davanti alla macchina, si fermò ancora un attimo per consumare interamente il pensiero.

    La cultura, le consuetudini, la famiglia, i vicini, gli amici.

    Fece un gesto con la mano come se stesse parlando a qualcuno.

    Ma questo vivere a mezz’aria, sempre, con il cuore confinato nel presente, non creerà dei problemi seri?

    Salì in fretta, come se volesse lasciar fuori la domanda.

    Basta così, lasciamola stagionare questa domanda, la riprenderò alla prossima impressione.

    Usci dal parcheggio, la strada era libera, ne approfittò per dare un’occhiata all’orologio sul cruscotto.

    Eh?! Le otto e trenta?

    Storse le labbra.

    Però, va bene che ho speso 20.000,00 euro, ma vuoi mettere? Sapere l’ora senza muovere il braccio?

    Alla rotonda prese la strada per la fabbrica.

    Me ne vado piano, tanto.

    Si mise comodo sul sedile che cedette in fretta, avvolgendolo delicatamente.

    Così aggiungo un’altra mezzora alla mezzora che mi sono già preso.

    Riportò distrattamente gli occhi sul cruscotto, notò i simboli della temperatura e della pressione atmosferica, i pensiero di prima approfittò della distrazione per ripresentarsi.

    E non è solo questione di strada, palazzi, piazze, alberi, le cose che vedo tutti i giorni, da una vita, a cui non bado, mi ci sono abituato, so che ci sono, anche se non me ne interesso.

    Diede un’occhiata al contachilometri.

    C’è anche il cinque chilometri, come è buffo vedere un numero così piccolo, chi ci sa andare a cinque chilometri all’ora?

    Scosse la testa.

    Ma poi, chi ci assicura che la macchina li fa anche se uno ci sa andare e ci vuole andare?

    Fu di nuovo sull’Appia, prese la direzione per Capua, non c’era molto traffico, decise di approfittarne per simpatizzare con la macchina, finora non l’aveva sentita ostile, ma neanche familiare. Accese il computer di bordo, pigiò tutti i tasti, mosse tutte le manopole, cercava almeno di far andare la radio.

    Eh, sì, ci vorranno mesi di tentativi.

    Allungò la mano verso un portellino del cruscotto.

    Ci sarà il libretto di istruzioni.

    La ritirò in fretta, come se avesse preso una scossa.

    A quest’ora? Il linguaggio tecnico?

    Si scrollò, come se avesse avuto un brivido di freddo.

    Mi verrebbe l’orticaria.

    Come mi piacerebbe avere la sfrontatezza di fare come lui.

    Il pensiero corse di nuovo alla scena vista poco prima nel bar.

    Aspettare che Arina posi la tazza di caffè e costringerla a rispondere a tutto, le strade, le piazze, le panchine, le passeggiate mano nella mano, e magari anche chiederle con chi sta adesso.

    Sorrise, scosse la testa.

    Credo che questa non sia sfrontatezza, è stalking.

    Gli passò per la mente la vecchia macchina, quasi senti l’odore di sporco tenue e delicato che aleggiava stabilmente all’interno del suo abitacolo. Tirò su col naso.

    Niente, solo odore di nuovo.

    Ci provò ancora.

    Ho dovuto disfarmene per forza, troppo vecchia, troppo pericolosa, continuamente guasta.

    Imitò con la mano la forma della pistola, la puntò in avanti quasi a toccare il parabrezza.

    Ho dovuto finirla, darle il colpo di grazia, soffriva troppo.

    Ritirò in fretta la mano, come a riporre la pistola nella fondina.

    Mi sento in colpa, sto su una macchina nuova, comoda, invece dovrei stare a piedi, nella prateria, con la sella sulle spalle e il fucile in mano.

    Cercò la sua penna Bic nel taschino della camicia, la tastò per bene per essere sicuro che ci fosse.

    La sella no, ma il fucile è sempre qui, inseparabile.

    Guardò fuori, aveva appena passato il carcere militare, fissò l’orologio sul cruscotto, segnava le nove e cinque.

    Manco dalla fabbrica da quasi un’ora, me la faranno recuperare di sicuro.

    Il computer si mise a dare indicazioni sulla strada, cercò in fretta di spegnerlo, ci riuscì.

    Come ti permetti? Ci sono nato qui, tu chissà da dove vieni, faccio queste strade tutti i giorni.

    Fu nei pressi dello svincolo per la zona collinare, decelerò, pensò a quello che lo aspettava da lì a poco.

    Sicuramente quel rompicoglioni verrà nell’ufficio sventolando il modello della richiesta delle ore di permesso, me lo lascerà davanti solo quando si sarà assicurato che la segretaria ha visto e capito.

    Oltrepassò lo svincolo.

    E sì, perché tutti lo devono sapere che ho preso un permesso, così qualcuno lo potrà sussurrare, o ribadire, a sua piacimento, quando gli tornerà utile.

    Arrivò nei pressi dello spartitraffico con il quale si accede al centro storico della città di Capua, una volta svoltato a sinistra c’era il cavalcavia e subito dopo, dallo stesso lato, l’ingresso della fabbrica.

    Tanto, sicuramente a quest’ora, chi aveva interessi a saperlo della mia assenza, l’ha saputo.

    Rallentò, si fermò, alla sua sinistra fluiva un cordone ininterrotto di macchine, tutte andavano per l’altra strada, quella che passa per il ponte sul fiume e lascia la città.

    Ah è così, lo sanno tutti che mi sono preso un permesso di tipo voluttuario, come dice quel coglioni di De Rosa?

    Sterzò bruscamente a destra, si introdusse nel flusso di macchine.

    E allora voluttiamo!

    Accelerò, come se volesse essere sicuro di non ripensarci.

    "Non avverto neanche, ci

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