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L'unica cosa che voglio
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E-book330 pagine4 ore

L'unica cosa che voglio

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Info su questo ebook

Emma Addison tiene gli occhi sul traguardo. Ormai è vicina ad avere la vita che ha sempre desiderato. Ha quasi finito il suo master universitario, il che significa che presto potrà lasciare il suo lavoro al Cameo Hotel, dove fa la receptionist per mantenersi. Dopo tanti sacrifici, finalmente tutto sta andando per il verso giusto ed Emma è pronta a godersi il successo. Finché il signor Gavin Grayson non arriva al Cameo Hotel pronto a sconvolgere tutti i suoi piani. Assecondare un cliente così esigente non sarà per niente semplice... 

K.I. Lynn
è un'autrice bestseller di USA Today che ha trascorso la sua vita dedicandosi a ogni forma di arte: dalla musica alla pittura, passando per la ceramica e la scrittura. Ha sempre la testa piena di intrecci e personaggi e si ritiene molto fortunata a potersi dedicare alla sua vera passione. 
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2019
ISBN9788822734365
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    Anteprima del libro

    L'unica cosa che voglio - K.I. Lynn

    Hall

    Ero stanca. Stanca morta.

    Mentre entravo incespicando nel mio appartamento, presi il gradino con il piede e per poco non finii con la faccia contro il muro.

    «Merda!», esclamai saltellando sul posto. Lo spavento mi diede una botta di adrenalina, che mi attraversò il corpo.

    Grazie a Dio, riuscii a riprendere l’equilibrio prima di rompere qualcosa.

    Dopo due sfiancanti presentazioni di metà semestre, tutto ciò che volevo era sprofondare nel letto e svegliarmi la mattina dopo. Purtroppo, il lavoro non me lo permetteva, ma almeno sapere che i progetti erano completati e di aver fatto un lavoro piuttosto buono mi dava un senso di pace.

    «Merda», sibilai guardando l’orologio. Mi tolsi i vestiti andando verso il bagno per fare una doccia. Avevo fatto bene a prendere da mangiare sulla via di casa, ma mi aveva portato via un quarto d’ora che adesso mi serviva disperatamente.

    Una volta uscita dalla doccia, mi strofinai i capelli con l’asciugamano per poi avvolgerli in uno chignon stretto. Da bagnati, i miei capelli sembravano neri invece che del solito color castano-bronzo. Il riflesso allo specchio mostrava quanto fossi stanca, con occhiaie scure sotto agli occhi chiari, un misto fra color miele e verde, e l’oscurità non faceva che esaltarli, soprattutto quando erano truccati con mascara e eyeliner.

    Quando ebbi fatto tutto, mi restava solo mezz’ora per arrivare al lavoro. Un po’ poco per essere tranquilla, ma fattibile.

    A volte pensavo che la decisione di lavorare a tempo pieno e nel mentre conseguire il master in Gestione d’impresa non fosse la più sensata. Ero passata direttamente dalla triennale al master senza rallentare, ma l’affitto doveva comunque essere pagato. Fortunatamente, casa mia era vicino al Boston College.

    Quella decisione non mi aveva quasi fatto dormire per due giorni. Il solo spostarmi era per me un compito spaventoso. Avrei potuto prendere la metro, ma ci avrei impiegato di più e non mi piaceva riprenderla di notte, per tornare a casa a fine turno.

    Perché avevo detto di poter fare i turni proprio dopo gli esami? Perché, ricordai a me stessa, ero una masochista con un disperato bisogno di soldi, e avrei potuto dormire il giorno dopo. Gli affitti a Boston erano astronomici, e un solo giorno in meno di paga equivaleva a una bolletta non pagata. Avevo sempre qualche giorno libero, ma me lo tenevo per quando sarebbero arrivati gli esami finali. Avevo già chiesto quasi una settimana intera per maggio.

    Andando verso la porta, presi delle bibite energetiche, ne aprii una e la tracannai mentre scendevo le scale. Qualsiasi botta di energia era la benvenuta. Magari, una volta al lavoro avrei preso un tazzone di latte macchiato.

    Tutti gli dèi del traffico sembravano sorridermi, e riuscii ad arrivare al lavoro senza problemi. Dopo aver trovato un parcheggio, misi un’altra bibita energetica nella borsa, presi le scarpe col tacco ed entrai.

    Il Cameo Hotel era un grande hotel a cinque stelle proprio sul mare, nel North End di Boston. La stanza meno cara costava centinaia di dollari a notte. Non era insolito per noi vedere celebrità e dirigenti di grandi aziende.

    La sala relax degli impiegati era stranamente silenziosa, non si vedeva nessuno, il che non era un buon segnale. Tutte le preghiere che avevo fatto di poter passare una notte tranquilla furono vanificate non appena uscii dall’ufficio, diretta alla reception.

    Era lampante che avrei dovuto rinunciare alle mie speranze.

    Mentre i clienti stavano lì in fila, tutti i direttori e i supervisori erano al banco. Non riuscivo neanche a sentire i miei pensieri a causa dei decibel a cui venivano urlate le lamentele.

    La montagna di merda che mi attendeva non era quello di cui avevo bisogno; la tentazione di girarmi e scappare era fortissima: ero stanca e non pensavo di avere la forza per affrontare la notte, dopo la giornata che avevo avuto. Mentre me ne stavo lì come un cervo di fronte ai fari di una macchina, un paio di occhi si bloccò su di me.

    Cazzo.

    Osservai gli occhi blu del mio capo, James, spalancarsi per il sollievo, e capii di aver perso la possibilità di sgusciare via da dove ero entrata. Mi aveva vista.

    Stavo muovendo i piedi, ero sul punto di mettermi a correre, quando lui mi corse incontro.

    «Grazie a Dio sei qui», disse tirando un grosso sospiro di sollievo. Dall’abbigliamento e da come si presentava, nessuno avrebbe pensato che qualcosa non andasse. Ogni cosa in lui era in ordine, dai capelli biondi, perfettamente pettinati, all’amido sul vestito. Perfino il suo sorriso era intatto, nonostante tutto.

    Era una bugia bella e buona. Conoscevo bene James, e dietro a quella calma esteriore stava andando fuori di testa. Il suo superpotere era il non darlo mai a vedere, mentre affrontava serafico qualsiasi situazione l’hotel gli gettasse addosso.

    «Che succede? E come ne esco?», sussurrai.

    Lui si lasciò scappare una risatina cupa. «Mi dispiace Emma, ma per te l’unico modo è entrarci».

    Lo fissai con gli occhi socchiusi. «In questo momento non sono sicura che tu mi piaccia».

    «Non fare così, lo so che mi ami».

    Accidenti a lui, aveva ragione. In tre anni avevo fatto carriera al Cameo, fino a prendere il posto da supervisore che era stato di James quando lui fu nominato manager. Era brillante e pieno di fascino, eravamo anche usciti insieme per un breve periodo, ma il tempismo era sbagliato.

    «Credici», gli risposi, prendendolo in giro.

    Le sue labbra si contrassero in un sorriso, mentre mi accarezzava il braccio con le dita. «Ogni giorno».

    Mi morsi il labbro inferiore guardandolo. «Va bene, forza».

    Il sorriso sul suo volto si spense, e James parlò con un tono di voce che tuonava sopra alle altre. «Hanno dimenticato di pulire un intero piano».

    «Cosa?». Forse sarebbe potuto capitare in qualche albergo di bassa categoria, ma il Cameo aveva una clientela alta, che aveva aspettative alte.

    Annuì. «Non è stato fatto niente, né nelle stanze occupate, né in quelle lasciate libere».

    «Merda», sibilai sottovoce. «E in questo momento cosa stanno facendo?»

    «Stanno sistemando il piano, e le lamentele minori vengono risarcite con pasti omaggio e sconti. Stiamo cambiando stanze e facendo upgrade per i clienti in arrivo e facciamo degli omaggi ad altri, a seconda dei casi».

    Annuii. «Accontentateli. Che piano era?»

    «Se ne sta occupando Valeria, cerca di rimediare al disastro un caso alla volta».

    Si mosse verso la porta, ma feci un passo di lato e lo bloccai. «Dove vai?»

    «Scusa, Emma», disse James prendendomi la mani e premendomi le chiavi sul palmo, per poi farsi strada verso la porta dell’ufficio.

    Diedi uno strattone, fermando il braccio prima di colpirlo. «Vigliacco», gli sibilai.

    Lui si girò e sorrise. «Beviamoci qualcosa domani. Ne avrai bisogno».

    Scossi il capo e alzai gli occhi al cielo. «Paghi tu».

    Se non mi fosse piaciuto così tanto, gli avrei potuto dare un pugno per il casino in cui mi stava per lasciare, anche se in realtà non ero da sola. Miguel, il vicedirettore, era lì con Jaqueline, una delle impiegate. Speravo che non mi abbandonasse anche lui, ma c’era da dire che spesso rimaneva oltre la fine del turno.

    Sospirai profondamente, mi sistemai la giacca e andai verso Shannon, che stava aiutando un uomo paonazzo. Pareva agitata, le tremavano le mani e sembrava avere difficoltà a mettere insieme due parole. In più, l’uomo si rifiutava di lasciarla parlare.

    Le misi una mano sulla spalla. Quando si girò per guardarmi, sul volto le spuntò un’espressione sollevata.

    «Fai una pausa», le sussurrai.

    Grazie, disse con il labiale prima di scomparire.

    «Buonasera, signore. Sono desolata per ciò che è successo oggi nel nostro hotel».

    «E fa bene! Quella stanza non era agibile! Bottiglie di birra, preservativi, specchi rotti e spazzatura ovunque. Ci voleva l’antitetanica per metterci piede. Non è accettabile!».

    «Assolutamente no. Oggi abbiamo avuto delle difficoltà tecniche».

    «Non è un mio problema!».

    «No, signore, assolutamente no». Scorsi il computer per vedere se ci fosse una stanza libera. «A titolo di risarcimento, sarei lieta di spostarla in una delle nostre junior suite per il resto del suo soggiorno senza costi aggiuntivi. La proposta è di suo gradimento?».

    Indietreggiò, non si sporgeva più sul banco della reception come se volesse strangolarmi. In un certo qual modo, sembrava sconfitto. Quasi come se avesse voluto litigare, e la mia risposta non fosse ciò che si aspettava.

    Annuì. «Va bene».

    Uno dei trucchi più preziosi che avevo imparato negli anni lì all’hotel era di non farsi mai vedere irritata dai clienti.

    Gli regalai il mio miglior sorriso, assicurandomi che mi arrivasse fino alle orecchie, che in realtà mi sanguinavano per le urla di una specie di Barbie dell’alta società, all’altro lato del banco. Ciò di cui si lamentava era meno grave di quanto accaduto al signore davanti a me. Non che quanto successo fosse perdonabile, ma il non aver cambiato due asciugamani e il non aver svuotato il cestino difficilmente potevano essere cose per cui urlare. Lamentarsi? Per i nostri clienti, sì. Urlare? No.

    «Ecco a lei, signore», dissi consegnandogli le sue nuove chiavi. «Deve arrivare fino al sedicesimo piano, poi giri a sinistra. Troverà la sua stanza sulla destra». Gli sorrisi e lo osservai mentre si allontanava sbuffando.

    Cliente arrabbiato dopo cliente arrabbiato, calmammo tutti nel giro di un’ora. Una volta finito, le urla e le minacce ancora mi riecheggiavano nelle orecchie, ma la notte era giovane.

    Non appena avemmo qualche minuto di calma, Miguel tornò nell’ufficio, e io lo seguii dopo aver detto a Caleb di tornare a casa.

    «Che è successo?», chiesi sedendomi sulla sedia di fronte alla sua.

    Scosse il capo e si passò le mani sul viso. «Ho chiesto a Valeria, e per qualche ragione la squadra delle pulizie assegnata al piano ha comunicato per sbaglio di aver finito prima ancora di metterci mano».

    Mi feci scura in volto. «Ma com’è potuto succedere? Spero che li abbia licenziati dopo quel che ci hanno fatto passare e i soldi che ha perso l’hotel».

    Miguel annuì. «È stato dato loro un ultimo avviso».

    Io sbuffai. «Così avranno la possibilità di farlo di nuovo».

    «Sei stata bravissima», disse lui, ignorando il mio commento. Sapevo che era d’accordo con me. Se qualcuno alla reception avesse fatto una cosa del genere, sarebbe stato buttato fuori.

    «Grazie. Vai via adesso?», chiesi guardando l’orologio. Erano passate le cinque.

    «Sì», rispose alzandosi. «Spero sia stato risolto tutto, che non salti fuori nient’altro e che tu abbia una notte tranquilla».

    «Una notte tranquilla? Non siamo nemmeno al picco di arrivi di metà settimana e già ho bisogno di un margarita enorme».

    Mi fece un sorriso mesto. «Ma a mezzanotte stacchi».

    «Sono troppe ore, specie dopo la giornata che ho già avuto».

    Mi sorrise a labbra strette. «Mi dispiace».

    Io scossi il capo. «Non è vero».

    Lui sghignazzò. «Hai ragione, perché penso che andrò a farmene uno. Ti penserò. Va bene lo stesso?»

    «No».

    «Buonanotte Emma».

    «A dopo». Mi alzai e tornai al banco della reception, da Shannon e Jaqueline.

    «Grazie mille, Emma», disse Shannon venendomi incontro.

    «Stava esagerando».

    Giunse le mani davanti a sé. «Sì, e non smetteva di urlare, non riuscivo a pensare».

    «Hai agito bene», le dissi, cercando di calmarla. «Perché non mi aggiornate su ciò che mi sono persa?».

    Dopo aver parlato con entrambe, capii che la maggior parte delle stanze avevano, di base, letti sporchi, asciugamani da cambiare, e spazzatura: le solite cose. Dopo la prima ondata, facemmo l’upgrade per diciassette stanze e demmo delle compensazioni per altre quattro. Per non parlare di tutti gli extra che dovemmo regalare, come i pasti gratis al ristorante dell’hotel.

    Con gli upgrade avevamo occupato la maggior parte delle stanze disponibili, quando l’hotel era già pieno all’ottanta per cento.

    Tutto sommato, era una di quelle notti in cui odiavo essere supervisore. Sicuramente ce l’avevamo fatta con quella mole di clienti, ma fu solo una breve tregua. Un’altra piccola ondata di persone chiamò o scese per far notare che la loro stanza non era stata riordinata e pulita. In quella settimana c’erano molte persone in viaggio per affari. Per fortuna, erano già tutti nostri ospiti al momento, e si lamentavano per lo più di piccole cose, quindi alcune colazioni gratis sembrarono calmarli.

    L’hotel era quasi al completo già prima che succedesse il tutto, e con i cambi di stanza fatti non c’era più posto per farne altri o per nuovi clienti.

    Era forte il richiamo del Margarita, o di uno shot di tequila, qualsiasi cosa che allentasse la tensione. Mi aspettavo che una mannaia si abbattesse sul mio turno, perché con la lentezza con cui la squadra delle pulizie lavorava al piano, era certo che sarebbe successo.

    Durante una breve pausa, riuscii a guardare il telefono e a leggere alcuni messaggi di James. Uno era una foto del Margarita accanto a una bottiglia piena di tequila.

    james: Domani sera?

    Sorrisi prima di digitare velocemente: Tentatore

    james: Sì, ma allora domani sera?

    Era così difficile respingerlo, ma finché non mi fossi laureata e non fossi andata via dall’hotel eravamo bloccati.

    emma: Mi spiace, ma il mio manager mi ha messo il turno.

    james: Accidenti a quello stronzo. Dovrò parlare con lui.

    Mentre leggevo mi scappò una risatina, e risposi:

    emma: Digliene quattro a quel biondo bastardo allo specchio.

    james: Lo farò. Rimandiamo?

    emma: Uhm, io, te e una bottiglia a casa tua? Guai in vista.

    Guai molto invitanti, ma sempre guai. Nelle poche volte in cui eravamo usciti, due anni prima, la chimica c’era stata. C’erano state delle belle pomiciate, ma niente di più.

    james: I guai possono essere molto divertenti.

    emma: Vero, ma i guai possono anche costarmi il lavoro.

    james: Farò in modo che il tuo capo non lo sappia ;)

    emma: Sì, sono sicura che lo farai.

    Per anni eravamo stati in bilico tra amicizia e relazione, solo per ricordarmi costantemente che era il mio capo, e quindi off limits. Poi c’erano i miei mille impegni. Non avevo tempo per una relazione. Tuttavia, il flirt non era mai cessato.

    james: Posso mantenere un segreto. Ma non per molto.

    emma: Non voglio che tu sia un segreto.

    Il cuore mi fluttuò nel petto, e mi morsi un labbro mentre sorridevo al telefono. Non vedevo l’ora di andare via dal Cameo una volta per tutte. Non solo per avere orari più normali, ma per poter finalmente uscire con James senza conflitti di interessi e senza andare contro la politica aziendale. Fin da Capodanno, il nostro flirt sembrava preannunciare qualcosa di più nel giro di qualche mese.

    Chiusi il mio armadietto e tornai alla reception per vedere come andavano le cose. Erano quasi le sette e la folla al check-in era diminuita. Stavo per andare allo Starbucks della hall quando guardai verso la porta d’ingresso e fui colpita dall’uomo che stava entrando.

    Sembrava uscito direttamente da una scena di un film, quella in cui il tempo rallenta quando entra il magnifico straniero, soffia il vento, c’è una ballata in sottofondo, e lui si pavoneggia, trasudando sesso e facendo bagnare le mutandine a tutte le donne.

    Sì, fu uno di quei momenti.

    Almeno fino a quando non inciampò sul tappeto e quasi cadde a terra. Si raddrizzò il più velocemente possibile, fissando il pavimento come se niente fosse, ma ormai era troppo tardi. Al banco, avevamo visto tutto e ora eravamo tutte innamorate, anche dopo quell’ingresso poco aggraziato.

    Un po’ di goffaggine lo rendeva tenero, perché considerata la sua aura ero abbastanza sicura che avrebbe potuto dimostrarmi la sua virilità in molti modi.

    Jaqueline e Shannon sghignazzarono per quella mossa goffa, e lui lo notò subito.

    Si avvicinò al banco. I suoi occhi si spostarono fra noi tre, per poi fissarsi nei miei. Tutti puntavano sempre lo sguardo su di me. Dopotutto, avevo la divisa più formale e il titolo di supervisore stampato sul cartellino.

    E poi le ragazze stavano ancora ridacchiando.

    Di nuovo, sfoderai il mio sorriso migliore e più amichevole. Benché l’ilarità stesse calando, non ero sicura di poterlo guardare senza sorridere: lineamenti marcati, capelli castani, spalle larghe e labbra carnose e da baciare.

    Non era in vacanza, considerato il modo in cui era vestito: completo blu scuro con gilet gessato, Rolex al polso, borsa porta-abiti in spalla e iPhone incollato alla mano insieme alle chiavi della macchina presa a noleggio. Tutto in lui urlava: sono qui per affari.

    «Il rischio di inciampare è una cosa frequente in questo hotel?», chiese.

    Mi aveva colto alla sprovvista e mi limitai a fissarlo. «Come, signore?».

    Fece un cenno verso il pavimento. «Il tappeto mi ha fatto inciampare», disse. Nessun sorriso di rimando mentre mi fissava. Era brusco e sembrava una specie di gigante delle sale riunioni. «Qualcuno non si è assicurato che fosse posato correttamente».

    Aveva ragione: il tappeto era tutto ondulato e con il bordo alzato. «Mi dispiace davvero, signore. Lo faccio togliere subito». Lanciai un’occhiata a Shannon, che immediatamente prese un telefono per chiamare la manutenzione e farlo sostituire. Quel bordo avrebbe continuato a far inciampare la gente se non l’avessimo tolto di mezzo.

    Il cliente sbuffò, chiaramente infastidito. «Devo fare il check-in».

    «Nome sulla prenotazione?», chiesi, senza perdere tempo. Entrai immediatamente in modalità operativa.

    «Grayson», rispose, tirando fuori la carta d’identità e quella di credito. Diedi un’occhiata al documento e annotai il suo nome completo e l’età: Gavin Grayson, trentacinque anni.

    Maledizione, non dimostrava trentacinque anni. Non c’era una ruga sul suo volto.

    Guardai il computer e scoprii che aveva prenotato per due settimane. «Grazie, signor Grayson. Ho trovato la sua prenotazione Per lei c’è una delle nostre bellissime suite executive. Servirebbe una firma qui. È tutto pronto, mi lasci prendere le sue chiavi», dissi con un sorriso, notando che mi fissava.

    Presi la ricevuta dalla stampante e programmai la tessera della camera. «Firmi qui. La sua stanza è la numero 1208. Gli ascensori sono dall’altra parte del corridoio. Arrivato al dodicesimo piano, giri a destra. Troverà la sua stanza sulla destra. C’è qualcos’altro in cui posso esserle utile, signor Grayson?».

    Lanciò un’occhiata a Jaqueline e Shannon, che stavano ancora sorridendo per il suo inciampo. Osservai la sua mascella contrarsi, e lui mi fissò per un momento e scosse la testa. «No», rispose seccamente, e ogni accenno di cortesia svanì.

    Io rimasi estremamente gentile; il suo umore non mi avrebbe abbattuto, soprattutto perché non era niente in confronto a quello che avevo passato in quella giornata. «Grazie per aver scelto il Cameo Hotel. Se ha bisogno di qualcosa, non esiti a chiamare».

    «Grazie», rispose con un cenno del capo, e si diresse verso gli ascensori con al seguito il suo grande e costoso trolley.

    Era fuori dalla mia portata, ma guardare non era proibito. Avevamo molti clienti di bell’aspetto, oltre a delle celebrità, ma lui era fra i primi dieci per bellezza. Almeno secondo me.

    «Wow», disse Jaqueline accanto a me. «Ragazza, non so come fai a volte».

    «Faccio cosa?», domandai.

    «A essere sempre così professionale».

    Risi leggermente. «Anni di pratica».

    Registrammo un altro ospite, dopodiché comparve di nuovo il signor Grayson. La sua espressione era assolutamente furiosa, da far rizzare i capelli.

    «Mi state prendendo per il culo con quella stanza?», urlò quando fu a pochi passi.

    «Come dice, signore?»

    «È un casino! Non potreste almeno disturbarvi a pulire tra un cliente e l’altro?».

    Il sangue mi si gelò nelle vene. ’Fanculo. Ero così incantata da lui che non mi ero nemmeno accorta che la sua prenotazione era stata assegnata a quel piano maledetto.

    «Mi dispiace molto, signore».

    «Ne dubito fortemente. È così incompetente da non riuscire nemmeno a leggere lo schermo per vedere se una stanza è stata pulita?», ribatté.

    «Mi scuso, c’è stato un problema prima…».

    «Non mi interessa quello che avete avuto… come si chiama…?». Si interruppe e guardò il mio nome. «Emma. Emma, c’è un posto pulito in questo edificio?»

    «Le assicuro che tutte le nostre stanze sono molto pulite».

    «Non da quello che ho appena visto».

    «È stato uno spiacevole incidente», dissi mentre mi precipitavo ad aggiornare la sua prenotazione. Con una disponibilità di stanze così limitata, non potevo fare molto. «Mi scuso sinceramente. Avrei dovuto notare il numero della stanza».

    Mi guardò ancora più in cagnesco. «Sì, avrebbe dovuto». Il mio sangue freddo e il mio sorriso si stavano incrinando, ma mi costrinsi a rimanere impassibile mentre lo trasferivo di corsa a una stanza leggermente migliore, una delle poche rimaste. Dentro di me, volevo prenderlo a schiaffi per quanto era stronzo, poi buttargli fra le braccia la ragazza responsabile del casino e lasciarla alla sue grinfie.

    «L’ho spostata in una delle nostre suite executive con vista sul mare», dissi mentre programmavo le chiavi nuove.

    «Si prende lei la responsabilità della pulizia di questa stanza?».

    Feci scivolare le chiavi sul banco. «Posso assicurarle, signor Grayson, che è una stanza ben tenuta».

    «Questo lo vedremo», disse stizzito, e se ne andò furioso.

    2° piano

    Gavin

    Boston non era mai stato il posto in cui mi vedevo a vivere. Avevo passato l’adolescenza in Ohio, con il desiderio di andarmene dai sobborghi. Per tutta la vita mi era stato insegnato che sei tu che vai dal lavoro e non devi aspettarti che il lavoro venga da te. Fu così che finii a Chicago, poi a New York, e infine alla sede della Cates Corporation a Boston. Per dodici anni avevo lavorato come un mulo scalando la gerarchia aziendale.

    In trentacinque anni avevo seguito piani attenti e preparati in modo strategico. Fino a Boston. Fino a lei.

    Per più di una settimana mi adattai a un nuovo ufficio, un nuovo assistente e una nuova città. In quel momento, passavo le mie notti al Cameo Hotel. Avrei dovuto passare le serate a cercare una nuova casa. Avevo persino un agente immobiliare, ma, oltre a dovermi ambientare, una cosa mi bloccava: Emma.

    Dal primo momento che l’avevo vista, c’era stata un’attrazione che non riuscivo a comprendere. Sentimenti che respingevo mi consumavano per una donna che non conoscevo nemmeno.

    Quasi ogni sera, quando rientravo, era lì. Discreta. Bellissima. Fottutamente attraente. Era un conflitto di interessi e una distrazione di cui non avevo bisogno.

    Mentre avanzavo lungo il pavimento di marmo del Cameo Hotel, il mio corpo la cercava, ma gli occhi cercavano di ignorare quel richiamo. Alzavo e abbassavo lo sguardo a scatti e, quasi sicuramente, mi guardava attraversare la hall, con le labbra leggermente socchiuse.

    Cazzo, le sue labbra. Anzi, il cazzo avrei

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