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Le Solite Sbronzate (Parte Prima)
Le Solite Sbronzate (Parte Prima)
Le Solite Sbronzate (Parte Prima)
E-book312 pagine4 ore

Le Solite Sbronzate (Parte Prima)

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Info su questo ebook

Le solite sbronzate è una raccolta di racconti che hanno per protagonista e voce narrante il personaggio di Frank Pollock. La sua vita trascorre tra turni massacranti al lavoro, sbornie colossali, uscite goliardiche con gli amici di sempre, nottate trascorse al tavolo da poker o in compagnia di prostitute. Con una prosa in cui si nota, nelle tematiche e nello stile piuttosto sboccato, l’influenza di Charles Bukowski. L’autore fa raccontare a Frank il suo disagio nei confronti di un mondo falso e ipocrita, il rifiuto delle cosiddette buone maniere e delle convenzioni sociali, l’inadeguatezza a vivere in una società interessata solo al denaro e ai beni materiali, e la conseguente fuga dalla realtà grazie all’alcool, che pur non risolvendo i problemi può essere in grado di farli dimenticare per un po’.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2015
ISBN9788893216111
Le Solite Sbronzate (Parte Prima)

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    Anteprima del libro

    Le Solite Sbronzate (Parte Prima) - Ermanno Polidoro

    Self-Publishing

    Ringraziamenti

    Ringrazio i familiari e tutti gli amici che hanno accettato d'essere coinvolti in questa mia prima opera. In particolar modo quelli che hanno dedicato tempo alla lettura della prima bozza di quest'opera che han fatto si che la stesura definitiva risultasse migliore; per questo una parte del merito è da ascrivere a loro.

    Ci tengo a precisare che tutti i personaggi citati a loro insaputa e coinvolti in vicende di fantasia la cui eventuale rispondenza ad accadimenti reali è da considerare totalmente casuale, così come i nomi dei protagonisti di questa storia.

    L'autore

    Il macellaio e l’indiana

    Odio i bar, soprattutto i baristi. Appartengono a una specie riprovevole che vive sulle debolezze altrui. Forse odiavo solo quel posto o quell’aria malsana o forse odiavo solo quel barista, fatto sta che io, ovviamente, ero fra loro: i deboli. Mi ritrovai lì, quasi per caso, vagando senza meta, seduto al tavolo, intento ad annegare la mia mente nell'alcool.

    Tornai al bancone per ordinare. Un tipo sulla quarantina, in giacca e cravatta, con una camicia azzurro stanco e stropicciata, alto, con pochi capelli brizzolati, un po’ di barba nel tentativo di sopperire alla calvizie, non faceva altro che parlare coi presenti e col barista del lavoro umiliante e sottopagato che doveva sopportare, delle tasse che non gli davano respiro e della sua vita di merda. Non potevo nemmeno sorseggiare delle birrette in santa pace, c’ero già io coi miei problemi, ci mancava solo che stessi lì a commiserare i suoi. Ecco un altro buon motivo per cui odio i bar: sono pieni di gente anormale pronta solo a lamentarsi, incapace di concludere qualcosa nella propria vita. E io ero uno di loro, o meglio, così mi sentivo.

    Che novità! dissi io.

    Amico credimi, nessuno è nella merda più di me rispose il quarantenne brizzolato.

    Ogni persona che soffre è portata a pensare che il proprio dolore sia il più grande. Non mi rispose. Io proseguii: Guardati un po’ intorno e dimmi se vedi gente che sta meglio di te. Continuò a fare scena muta, si limitò soltanto a fissarmi con aria da superiore, con gli occhi sfuggevoli per l’affronto subito. Mi fece venire voglia di cacare: quell’ammasso di nullità, con la sua bocca, con il suo naso e le sue orecchie fissi su di me, mi disgustò.

    Dopo qualche istante, di ritorno dal puzzo pungente e acre di urina del bagno, notai che il quarantenne brizzolato aveva ripreso a lamentarsi col barista. Non lo ressi più. Pagai e me ne andai. Lo lasciai lì, poveretto. Faceva tenerezza e disgusto allo stesso tempo. Era talmente impegnato a farsi compatire e a disperarsi, da non accorgersi del barista. Se ne stava lì ritto in piedi, intento a pulire e asciugare i bicchieri, prestando le sue orecchie al povero disgraziato senza dare vagamente ascolto a ciò che avesse da dirgli. L’unica cosa che gli consigliò fu: Bevici sopra, amico!. Quel parassita che spilla soldi dalle tasche della gente gonfie di debolezze fregandosene dei veri problemi. Lo pensai mentre uscivo dal locale spingendo la porta con la mano.

    All’esterno respirai aria sana dalle narici, mi rollai una sigaretta e me l'accesi. Misi in moto la macchina e partii. Magari la strada aveva qualcosa di più interessante in serbo per me. Nel tragitto verso casa stavo guidando sovrappensiero, con la sigaretta inforcata nella mano sinistra. Notai qualcosa che attirò il mio sguardo. Lo vidi! Era così bello. Ondeggiava, si muoveva sinuosamente, dondolava in modo tale che sembrava parlarmi. Sì! Mi parlava e richiamava la mia più totale attenzione.

    Che bel culo! dissi, confessandolo segretamente alla mia amica macchina. Quel bel culone mi fece distogliere lo sguardo troppo a lungo dalla strada. Scattò il rosso. Per fortuna me ne accorsi in tempo e dovetti inchiodare all’ultimo istante. La macchina sbandò appena, quel poco che bastava per sfiorarla.

    Ebbi solamente il tempo di vederla per un istante: si ritrasse portandosi la borsa al petto a mo’ di protezione e mi fissò con occhi marroni luccicanti e illuminati dai fari della mia auto. Erano colmi di terrore. La macchina sorpassò la ragazza lasciandola illesa. Un fischio stridulo di pneumatici accompagnò l’arrestarsi della mia vecchia carretta. 

    Cavolo, c'è mancato poco che la investissi! dissi. Tirai un sospiro di sollievo mentre appoggiavo la mia fronte sul volante usando le mani a mo’ di cuscino.

    Molto probabilmente quel bel culone sodo non si sarebbe fatto niente, ma avrebbe quasi certamente ammaccato il cofano! la mia mente eiaculò questo pensiero quasi spontaneamente. Non so il perché… venne fuori da solo, quasi come un getto inaspettato. Forse lo fece per sdrammatizzare, dato che avevo le mani sudate e intorpidite dallo spavento, per l’adrenalina che mi andò in circolo dopo la brusca frenata, mi diede le palpitazioni e mi fece sentire distaccato come se non fossi più padrone delle mie funzioni. Mi bussarono al finestrino e di colpo mi ritrovai nel mio corpo. La vidi in faccia, era lei. Sussultai. Portava capelli neri che si confondevano nella notte, occhi marroni tinti di un bianco lunare; era alquanto scossa e impaurita, c’era da crederlo. Portava un vestito aderente, nero come i capelli. L’aderenza del vestito mi svelava quanto fossero larghi i suoi fianchi. Ovviamente abbassai il finestrino e mi scusai.

    A momenti mi investiva! mi disse. Ma cosa le è preso!?

    Notai subito i lineamenti e il colore della carnagione tipicamente indiana. In quel momento lo sentivo, mi pulsava contro i jeans!

    Mi scusi, sono stato distratto dal... deglutii. Ma poi, scusi un attimo... iniziai una lunga pausa per trovare una risposta. Lei piuttosto, cosa ci faceva sola in mezzo alla strada!?

    Ah... beh ecco... giusta osservazione. Ebbe molto da pensare. Ma poi scusi, non sono affari suoi! sbottò.

    Un cazzo, non lo sono. A momenti la investivo, certo che sono affari miei. Riprese a pensare. Sembrava che stesse vagliando tutte le possibili risposte. Io non le misi fretta e la feci scegliere con cura, pensando che stesse optando per una menzogna. Se mi desse un passaggio verso casa le potrei spiegare meglio.

    Ed eccoci lì, io ed i suoi occhi colmi di tristezza, imploranti aiuto, tipici delle donne che, poi, ti fregano sempre. 

    Salga. Tirai un sospiro. Aprì la portiera e scattò il verde. In che direzione devo portarla?

    Si sedette sul sedile posando la borsa sul ventre e richiuse la portiera. Prosegua su questa strada mi rispose l’indiana. La gonna le salì su per le gambe, svelandomi cosce scure avvolte da collant. Mi eccitai. Riportai lo sguardo sulla strada e arrivato alla curva svoltai a destra. Imboccammo un rettilineo e nel silenzio che persisteva nell’abitacolo le domandai: Sempre dritto?.

    rispose, distogliendo lo sguardo - perso nel vuoto - dal finestrino. Sempre dritto.

    Sì, proprio come il mio cazzo, dritto! Pensai.

    Molto probabilmente il mio cazzo era contento, avendo tutte le ragioni di ‘sto mondo; la mia testa però mi diceva che mi sarei infilato nei casini; non so perché, ma quel tipo di donna si porta sempre appresso dei guai appiccicati come insetti sulla carta moschicida.

    Tirò fuori il cellulare e parlò una lingua a me sconosciuta. Buttò giù, abbastanza adirata. La ignorai, in attesa della sua spiegazione. Mi guardò come se cercasse di capire qualcosa in me e disse: È il mio ragazzo, abbiamo litigato… lui è molto geloso… ha un carattere rude, temprato dal lavoro duro che fa. Non vuole che esca con le amiche a bere e che mi vesta in modo così provocante disse mentre si delineava il corpo con le mani.

    E perché mai?

    Perché dice che da ubriaca… divento molto… come si può dire… mi lascio andare!

    Che lavoro fa?

    Chi?

    Il suo fidanzato.

    Il macellaio.

    Mmm, buono a sapersi. Comunque a me non darebbe noia. Ognuno è libero di esprimersi a proprio piacimento. Comunque piacere, mi chiamo Franco, per gli amici Frank. Eh, a proposito, le sue amiche dove sono finite?!

    Se lo sapessi non sarei qui con lei… comunque piacere, mi chiamo Asia.

    Ci stringemmo la mano. Mostrò il suo primo sorriso della nostra piccola e momentanea serata insieme e questo mi rilassò. Grosso errore! Mai abbassare la guardia, perché ti potresti ritrovare con una mano sul cazzo!

    Cosa stai facendo!? dissi con la voce strozzata nella gola.

    Lei si avvicinò con il viso e continuando a strusciare la sua mano sopra i pantaloni mi sussurrò all’orecchio: Te l’ho detto, divento disinvolta quando bevo!

    Aveva ragione il tuo ragazzo, allora!. Sorrise e i suoi occhi, se poco prima erano colmi di tristezza, ora erano trepidanti dal desiderio. Mi piacete voi italiani, è sempre stato un mio desiderio fin dal mio arrivo qui in Italia; ma sono sempre stata segregata in casa dal mio ragazzo. Mise su un sorriso imbarazzato, poi concluse il discorso dicendo: Beh, fino ad ora!

    Pensai a quel poveraccio del suo uomo. Si era scelto proprio una bella bagascia! Sentivo puzza di fregatura, non sapendo ancora a chi credere.  Al mio cazzo pulsante? Alla storia che mi ha raccontato? O al pericolo che aveva fiutato il mio cervello? Ma poi ebbi la risposta: quando il sangue defluì dal cervello al pene non ragionai più, non pensai alle conseguenze, lasciandomi trasportare dal momento.

    Ma perché, scusa, il tuo uomo di che nazionalità è?

    Turco.

    Andiamo bene, pensai. Farmi la donna di un macellaio turco col caratteraccio proprio non m’inspirava. Però era troppo bella per resistere. E poi ogni lasciata è persa, chi non risica non rosica.

    Se tu non hai scrupoli di coscienza, figurati io! dissi. Dove vuoi andare con la macchina?

    Ma per chi mi hai preso, scusa?! disse stizzita, togliendo la mano dal cazzo che, docilmente, stava massaggiando.

    Anche se non lo vuoi dar a vedere lo sai bene cosa sei! mi scappò detto preso dell’enfasi.

    Cosa?

    Niente. Niente, lascia perdere!

    Stupido!. Mi fissò come se non sapesse quanto potesse fidarsi di me. Andiamo a casa mia se ti va.

    Ovvio che mi va un letto comodo e caldo piuttosto che la macchina! Non sono mica matto.

    In quel momento pensai a due cose: o la vita mi sorrideva, o stavo per prendere un’inculata. Subito dopo mi ricordai che la vita non mi ha mai sorriso e quindi presi in considerazione la seconda idea. Ma ormai... L’ultima goccia di sangue lasciò la stanza della ragione per depositarsi in altri luoghi. Iniziò a strusciarsi come una gatta in calore. Che puttanazza!

    Sarà meglio che mi indichi la strada prima che rischi di passare di nuovo col rosso, investendo qualche altra vogliosa fanciulla!

    Lei mi sorrise divertita e mi spiegò la strada da fare. Seguii le sue indicazioni e poi mi fece parcheggiare lontano da casa sua e mi disse: Vai avanti tu per primo. Pensai che lo avesse detto per paura d’essere vista in mia compagnia. E perché? domandai lo stesso, sentendo il ditino della fregatura sporco di sabbia avvicinarsi al mio buco del culo.

    Perché bisogna passare vicino a casa dei miei genitori e, come ben capirai, se mi vedono in compagnia di un altro uomo mi tagliano la gola!

    E a me il cazzo!

    Eh già, mi sa proprio di sì.

    Rimasi indeciso sul da farsi dopo quell’affermazione, ma ormai non volevo tirarmi indietro. Mi incamminai. Lei mi stette a dieci metri di distanza, facendo finta di fare la stessa strada per puro caso. All’improvviso mi bloccai perché il telefono di Asia prese a squillare.

    Mi voltai e vidi la sua espressione. I suoi occhi stavolta erano colmi di terrore. Guai in vista, pensai, e lo pensai ancora di più quando vidi un portone aprirsi e una sagoma simile a un armadio uscire col telefono stretto in mano! Intuii subito che era il ragazzo di Asia. In quel momento la mia mente s’immaginò il mio cazzo stretto nella morsa di quelle mani da macellaio, in attesa di essere tagliato dalla mannaia.

    Merda! dissi.

    Il sangue tornò al cervello in un istante. I bollenti spiriti e la piccola sbornia lasciarono il posto alla paura e all’adrenalina. Sarà stata, forse, l’immagine del mio pene sanguinante a terra. Resta il fatto che ebbi un lampo di genio. Notai un portone che lasciava trasparire la luce accesa al suo interno. Mi incamminai da quella parte.

    Mentre mi accostavo alla soglia della porta, vidi Asia e il turco-macellaio andarsi incontro e battibeccare animatamente. Speravo che si levassero di torno, visto che la strada che avevo intrapreso portava a un punto morto. L’unico modo che avevo per arrivare alla mia macchina parcheggiata era passare dove ora loro stavano litigando. Ma niente da fare, erano immobili nelle loro posizioni. Io camminavo piano. Il turco-macellaio, fra una pausa e l’altra della discussione, mi gettava occhiate terrificanti. Se ne stava lì ritto in piedi, in attesa di osservare le mie future mosse. Nel frattempo prese a urlare sempre più forte, intimando ad Asia di dargli spiegazioni e indicandomi sempre più animatamente. Dovevo inventarmi qualcosa, non potevo star lì in piedi a non fare un cazzo come un ebete, mi feci coraggio e... suonai il campanello. Guardai l’ora. L’1:45 del mattino! La porta si aprì. Davanti a me una bestia enorme con le orecchie a punta e di colore nero, più nero dei capelli di Asia, con un alito insopportabile. Digrignò i denti. Era il cane del padrone di casa! Ecco fatto, pensai, ora il mio pene passerà da essere tagliato da un macellaio turco a essere sbranato da un cane…

    La sagoma che si parò davanti al cane, a mo’ di scudo, mi fece sorridere. Al posto delle braccia e delle gambe sembrava avesse quattro manici di scopa. Troppo magro per essere voluto. Il tic che aveva al naso e il timbro di voce nasale me lo confermarono. Indossava un cappello da baseball del NY, una maglietta bianca enorme a mo’ di gonna e pantaloncini corti e larghi di jeans.

    Buono, Rufus! Ha bisogno? mi chiese, visto che io non avevo ancora spiccicato parola.

    ...eh.

    Sì, mi dica.

    ...eh.

    Senti bello, non ho voglia di scherzare!. Inspirò passandosi il dorso della mano sotto il naso, non credo fosse per il raffreddore, almeno non era il periodo.

    Mi scusi...

    Di cosa?

    Potrebbe mica far finta di conoscermi!?

    Sì, lei ha voglia di scherzare, ma è scemo o sbronzo?

    Entrambe le cose, direi.

    Ecco, perfetto, o se ne va o chiamo la polizia! e dicendolo si spinse all’indietro chiudendo parzialmente la porta.

    No, la prego, aspetti!. Fermai con entrambe le mani la chiusura del portone.

    Ascolti bene, o mi dice cosa cazzo vuole o si levi di culo prima che Rufus si spazientisca!. Spalancò il portone mostrandomi con la mano destra il cane alle sue spalle che mi fissava.

    Va bene, va bene, me ne vado. Peggio per lei!

    Guardi... si interruppe, pensai che mi avrebbe scagliato contro la bestia. Invece si ravvide e disse: Lo so chi ti manda. Ho capito!

    E io: Bravo strizzandogli l’occhio e indicandolo con l’indice della mia mano.

    Ah ah! È quel figlio di una cagna di Carlos.

    Grande, proprio lui, hai indovinato e scoppiai in una risata nervosa.

    Come sta quel gran bastardo?

    Ah, molto bene, sai com’è, no? e di nuovo strizzai l’occhio e diedi una pacca sulla spalla per compiacermelo.

    Bene, fratello, adesso dimmi, dov’è la roba?

    Che roba?

    Scusa, non hai detto che ti manda Carlos? domandò ritornando sospettoso.

    Sì, ma certo, la roba, ahahah, ci sei cascato. Di nuovo diedi una pacca sulla spalla al tipo.

    Ascolta, dammi un’altra pacca e ti faccio pentire. Ora tira fuori la roba e vattene prima che perda di nuovo la pazienza.

    Ce l’ho in macchina, sono salito per vedere se eri ancora sveglio.

    Dai amico, datti una mossa.

    Ok. Girai il busto di colpo come fossi un soldato e mi avviai. Poi sentii la sua voce.

    Ma tutti i matti capitano a me? E poi alle due di notte?! Dovrò avvisare Carlos.

    Chissà perché tutti i matti corrono da te alle due di notte! dissi sarcastico fra me e me.

    Ehi, amico disse da dietro le mie spalle. Feci finta di non sentirlo e aumentai il passo in direzione dei due litiganti.

    Ehi amico, ce l’ho con te. Ascoltami un secondo.

    Mi voltai. Lui si avvicinò e a bassa voce mi disse: Non ti ho mai visto, sei nuovo?

    Ho appena iniziato cercai di dire nella maniera più secca, decisa e convincente che potei.

    Sei un poliziotto?

    Ma che cazzo dici?

    Ti ho fatto una domanda! disse sgranando gli occhi, tirando su dal naso.

    No. Ma che poliziotto dissi sogghignando sarcasticamente a quella assurda affermazione.

    Perché se lo sei hai l’obbligo di mostrarmi il distintivo.

    Ma che distintivo, non sono un poliziotto. Lui, convintosi, si girò e richiuse la porta sbattendola. Io con fare disinvolto mi allontanai da lì, in direzione della macchina. Sorpassai i due litiganti non degnandoli di uno sguardo e, sempre attento a non essere seguito o notato, ingranai la prima e partii a razzo fino a casa. Ero eccitato e pervaso dall’adrenalina. Ero scampato dall’incudine e dal martello, o meglio, dal cocainomane e dalla mannaia del macellaio. Gridai al parabrezza e suonai all’impazzata. Seeee!!! urlai come un pazzo fuori di senno.

    Il giorno dopo, passando accanto a una macelleria, notai delle bellissime salcicce in vendita. Feci un sospiro di sollievo, pensando che poteva esserci il mio salsicciotto nella macelleria del turco, e mi ritenni fortunato.

    Buon Natale

    Vigilia di Natale. Rientrai a casa: un piccolo appartamento in affitto, niente di speciale, proprio come la mia vita. Dopo una estenuante giornata di lavoro mi diressi al frigo e mi aprii una birra ghiacciata; diedi una bella sorsata, ero finalmente felice perché mi aspettavano due giornate di bevute con gli amici a casa mia. Mi buttai sul divano e iniziai, svogliatamente, a leggere la posta:

    Sig. Franco Pollock

    Mi dispiace informarla che il termine per il pagamento del suo affitto è scaduto da ormai tre settimane e se non salderà il suo debito entro due giorni, mi vedrò costretta a farle liberare l’appartamento; inoltre, la prego di non causare disturbi e disagi, perché i vicini si lamentano delle continue urla e schiamazzi in orari consoni al riposo. Le auguro un buon Natale e un felice anno nuovo.

    Distinti saluti

    Sig.ra Vittoria Raglia

    Merda! Grazie degli auguri, signora Raglia del cazzo!

    Era troppo tardi ormai. I soldi dell’affitto erano già stati tutti investiti in qualcosa di molto più utile, come ottime bocce di whisky, otto casse da sei di birra e cibarie varie. Avevo tutti gli intenti e i buoni presupposti per festeggiare, come Dio comanda, l’arrivo del suo figliolo. Il restante denaro fu speso per il mio regalo di Natale, ovvero, la mia puttanazza preferita. Un ottimo programma, direi, per celebrare il Natale. Tutto rovinato dalla strega Raglia. Avevo bisogno di tempo per sfuggire alle sue grinfie. Non dovevo farmi trovare in casa, meglio andarmene da qualche parte a schiarirmi le idee e pensare a una soluzione per rimediare il denaro che le dovevo.

    Il telefono squillò.

    -Seee pronto.

    -Ciao mamma come va?

    -Sì sì, io tutto bene.

    -Ah sì?!

    -Certo che mi farebbe piacere trascorrere le feste a casa vostra.

    -Sì sì, anzi sai cosa, il letto c’è ancora?

    -Allora mi trasferisco da te per due giorni.

    -D’accordo, perfetto, allora ci vediamo domani mattina a pranzo con i parenti.

    -Sì sì, tranquilla, puntuale, lo so che papà rompe.

    Riagganciai. Avevo guadagnato due giorni di tempo; ora mancava solo il modo per ricavare i soldi per l’affitto. Bussarono alla porta. Guardai dallo spioncino: era la signora Raglia! Mi catapultai in cucina facendo meno rumore possibile affinché non mi sentisse. Stetti in silenzio.

    So che è in casa, signor Pollock. Silenzio. Le sue parole rimbombarono nella tromba delle scale. Ha due giorni di tempo per pagare, altrimenti la farò sloggiare... ha capito bene!?

    Merda! Come avrà fatto quella megera a sentirmi? esclamai a me stesso.

    È inutile che tenti questi giochetti con me! disse con quella voce stridula che mi fece sbuffare scazzato. Mi avvicinai alla porta, con la catenella inserita, e aprii la porta. Mi si parò davanti una visione grottesca: una donna sulla sessantina con un maglione fatto a mano su cui le renne di babbo Natale ricamate segnavano in modo perfetto le tette molli e decadenti. Come la sua vita. Il viso segnato dal tempo come una vecchia roccia solcata da spaccature, e gli occhiali da vecchia babbiona mi ricordavano quelli della mia insegnante delle elementari, con il suo profumo di naftalina impregnato nei vestiti. Dio, che orrore!

    Trattenni il respiro per non vomitarle in faccia e dissi: Non si preoccupi, signora Raglia. Fra due giorni avrà i soldi. Grazie per avermi fatto visita e per il pensiero che ha avuto nei miei riguardi, le sono molto grato!

    Signor Pollock, non faccia lo spiritoso. Ha due giorni. Non uno di più. Si dileguò, molto incazzata, nel suo appartamento. Se volevo continuare a vivere lì avrei dovuto trovare il denaro. Ma dove? Come?

    Fu lì che ebbi il lampo di genio mentre osservavo la valigetta del poker. Abbandonai l’idea di organizzare festeggiamenti a casa mia e decisi di trasferire i festeggiamenti da un’altra parte. Da buon giocatore d’azzardo quale ero, non mi ci volle molto a intavolare il torneo clandestino nel garage del mio amico Cesare. Ovviamente, prima del torneo andai a far visita al mio auto-regalo natalizio: la mia puttanazza preferita, Mina. Mina era di origini siciliane e il suo carattere di fuoco sotto le coperte lo confermava. Bella scopata, non c’è che dire, poi però pensai ai soldi che dovevo alla signora Raglia e mi rabbuiai. Pensieroso e molto preoccupato, con questo peso sullo stomaco che nemmeno Mina riuscì a levarmi, mi feci coraggio e mi diressi con la macchina arrivando puntuale al garage di Cesare.

    Cesare lavorava come addetto alla selezione del personale in un’azienda meccanica e nel frattempo studiava psicologia. Era un tipo che si vantava delle sue scopate e del suo fisico scultoreo, ma al di sotto di quella barriera muscolare si nascondeva un cuore d’oro. Lo consideravo più di un amico. Un amico fraterno. Scesi dalla macchina. Portavo in dono qualche cassa da sei di birra e una boccia di ottimo whisky. Con Cesare, invece, c’era la solita combriccola di esauriti: c’era Carlo, un tipo che ha sempre voglia di ridere e sballarsi con delle ottime paglie condite dai drink. Vicino a lui Mario, il più esaurito di tutti: presta servizio per

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