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I COPERCHI DEL DIAVOLO epub
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E-book301 pagine4 ore

I COPERCHI DEL DIAVOLO epub

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Info su questo ebook

Ingredienti: una coppia di serial killer, un vecchio boss della ‘ndrangheta con i suoi affiliati, un paio di sbirri corrotti, un misterioso uomo politico a capo di una loggia segreta, un’alta funzionaria di Polizia con una sua personalissima idea di giustizia.
Aggiungete una serie di coincidenze incredibili, un bel po di sangue e un osso di pollo.
Mescolate il tutto e portate a ebollizione. 
Ah, dimenticavo, questa volta il Diavolo porta anche i coperchi.
LinguaItaliano
EditoreMax Cromaz
Data di uscita25 giu 2019
ISBN9788834145111
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    I COPERCHI DEL DIAVOLO epub - Max Cromaz

    I COPERCHI

    DEL

    DIAVOLO

    Max Cromaz

    I COPERCHI

    DEL

    DIAVOLO

    Copyright © 2019 Massimiliano Foschi

    Tutti i diritti riservati.

    ISBN 978-10-75222-02-3

    A Elisa e Aurora

    Vendetta, il boccone più dolce che sia mai stato cucinato all’inferno.

    (Walter Scott)

    Il Diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

    (proverbio valenzano)

    Prologo. Il wishbone

    «Non fiatare stronza, non dire una cazzo di parola.»

    Le premo una mano sulla bocca mentre con l’altra le infilo rapidamente la siringa nel collo. Lei sgrana gli occhi, tenta di urlare nonostante il mio avvertimento. Cerca convulsamente di trovare la maniglia di apertura della portiera della macchina e in qualche modo riesce ad aprirla.

    Vuole scendere la troia, vuole scappare. La trattengo per un braccio, tanto ormai le ho iniettato tutto il liquido, ora devo solo aspettare che faccia effetto. É questione di pochi secondi, l’azione di questo tipo di narcotico è pressoché immediata. E infatti dopo pochi istanti finalmente la donna si affloscia sul sedile.

    Solo in quel momento mi accorgo che durante la brevissima colluttazione, in tutto quel mulinare frenetico di braccia e mani la stronza ha strappato il ciondolo portafortuna che tenevo attaccato allo specchietto retrovisore.

    Un osso di pollo. Per la precisione la forcella del petto di un pollo, quello che gli americani chiamano wishbone, regalo che mi fece mia zia Enrichetta, una settimana prima di morire schiacciata da un camion della nettezza urbana mentre faceva manovra in retromarcia. Povera zia Enrichetta.

    La zia mi aveva detto che secondo la tradizione etrusca, ripresa poi, centinaia di anni dopo dal mondo anglosassone, spezzare l’osso era di buon auspicio; portava fortuna insomma. E di fortuna in effetti me ne ha portata parecchia in tutti questi anni, anche se era rimasto intero.

    Fino ad oggi.

    Bestemmio a voce bassa quando lo vedo che giace, rotto a metà sul tappetino.

    «Ma brutta…» Maledico la responsabile del danno ormai priva di sensi e mentre mi chino per raccoglierne i pezzi mi accorgo che è riuscita ad aprire la porta e una gamba le penzola al di fuori della macchina.

    Merda, devo scendere. Faccio il giro e gliela rimetto dentro, poi la sistemo per bene seduta, come un passeggero che sta dormendo, le allaccio la cintura di sicurezza e richiudo la portiera.

    Prendo il tempo di guardarmi intorno, giusto un’ occhiata per vedere se dalle finestre delle case intorno c’è qualche vecchia insonne rompicoglioni che sta osservando la scena. Almeno una ficcanaso nella vita la trovi sempre, pronta un attimo dopo a chiamare la polizia. Invece, grazie a Dio, nessuno affacciato. Nemmeno dal negozio di massaggi cinesi aperto ventiquattro ore dall’altro lato della strada si vede uscire anima viva.

    Bene, adesso calma, dico a me stesso, va tutto bene.

    Risalgo in macchina e metto in moto. Una rapida occhiata alla mia nuova conquista: dorme profondamente, con la testa appoggiata allo schienale.

    Poi parto immediatamente, guidando piano e rispettando tutte le precedenze e i semafori. É sera tardi ed è già buio, ma, pur non essendo ancora notte fonda, è facile dare nell’occhio, magari a qualche pattuglia di passaggio, non si sa mai. Meglio non rischiare di essere fermati per una banalissima infrazione del codice stradale.

    Intanto prendo il telefono e chiamo il mio socio. Mi risponde al secondo squillo: «Tutto bene?»

    «Direi di si,» rispondo,«abbiamo un’ospite per cena. Apparecchia la tavola.»

    «Benissimo, provvedo subito.» Riaggancia.

    Ho messo su un cd di Louis Armstrong, perfetto per rilassarmi durante il viaggio. A quest’ora non troverò molto traffico, dovrei essere da lui in meno di un ora.

    É stata una bella serata dopotutto, ripenso. L’incontro inaspettato, le chiacchiere, un paio di drink in un locale tranquillo e riservato. L’intesa che nasce quasi subito, fra ammiccamenti e sguardi che non possono essere fraintesi. Poi si è fatta l’ora di andare e allora da perfetto galantuomo quale sono le ho offerto un passaggio per accompagnarla a casa.

    «Questa è una città pericolosa dopo una certa ora.» Le ho detto. «Non si sa mai chi puoi incontrare.»

    Appunto, certe occasioni vanno colte al volo.

    Adesso, mentre guido tranquillo verso casa del mio socio e accompagno canticchiando le note di ‘What a wonderful world’ pregusto il momento in cui le taglierò la gola e la vedrò soffocare nel sangue.

    Ma proprio mentre sto cullando i miei sogni di morte, fermo davanti a un semaforo rosso, si accosta alla mia macchina una pattuglia dei Carabinieri. Per un istante il mio cuore si ferma quando vedo il capopattuglia che guarda insistentemente verso di noi. Poi quello abbassa il finestrino della macchina e mi indica di fare altrettanto. Obbedisco.

    «Tutto bene?» mi chiede con un pesante accento partenopeo, mentre guarda un po' me un po' la donna sul sedile del passeggero al mio fianco che dorme profondamente.

    «Si brigadiere, niente di grave, mia moglie ha solo bevuto un po' troppo. Lei non è abituata.» Cerco di essere il più calmo e credibile che posso anche se le gambe mi stanno tremando.

    Quello si concede ancora un istante ad osservarci. « Pure lei ha bevuto?»

    «No no, io sono astemio.» Scuoto vigorosamente la testa.

    Il brigadiere, un tipo sulla trentina con il pizzetto sembra poco convinto, sta valutando se credermi o meno, quando proprio in quel momento sente la radio della centrale operativa gracchiare e richiedere il loro intervento in un piazza poco lontano da lì per una rissa fra nordafricani. Risponde alla radio, poi, senza nemmeno salutare, attacca la bitonale mentre l’autista brucia il rosso con una sgommata.

    Resto ancora un istante fermo, cercando di regolarizzare il battito cardiaco per lo scampato pericolo.

    Ragazzi che paura...lancio un’ ultima occhiata alla stronza e all’osso di pollo spezzato a metà sul tappetino della macchina e mi viene da sorridere.

    Decisamente a lei il wishbone di zia Enrichetta non ha portato fortuna.

    1

    Cento ottanta all’ora, quasi tutti in corsia di sorpasso.

    Hanno fretta di arrivare i ragazzi.

    Il subwoofer e le altre casse acustiche pompano musica ad alto volume nell’abitacolo della BMW M3 da 190 cavalli. Hip Hop. Non cazzate tipo neomelodici napoletani. E chi se ne frega se è una musica da negri. I neomelodici vanno bene per i guaglioni di Scampia o fra i vicoli dei Quartieri Spagnoli.

    Loro sono di Milano, cazzo. »

    Si sentono sicuri, spavaldi. Non cercano nemmeno di salvare le apparenze.

    È Mirko che guida, e se suo fratello Gennaro lo vedesse in questo momento si incazzerebbe parecchio.

    Gennaro non è soltanto suo fratello maggiore, è anche il capo; quello che pensa e che comanda. Ma adesso lui non c’è, e poi è filato tutto liscio, quindi chi se ne frega, pensa Mirko. E poi Gennaro è paranoico, sta sempre in ansia con sta storia della prudenza, del non farsi notare, bla bla bla. Vede sbirri ovunque.

    In culo agli sbirri, pensa mentre assieme agli altri due canta l’ultimo pezzo dei 50 Cent.

    Gli altri due sono Filippo detto Fil e Alessandro, detto Scheggia, che scheggia proprio non è vista la lentezza in tutto quello che fa. O forse è proprio per quello che lo chiamano così. Comunque sono i suoi amici e compari di banda, anche se un gradino sotto di lui. Dopotutto è lui il fratello del boss, giusto.

    Capelli a spazzola, orecchini, tatuaggi tribali. In tre non arrivano a ottant’anni.

    E poi loro se ne fottono degli sbirri. E fa niente se nel bagagliaio del loro mostro da 190 cavalli ci sono quasi quattro kg di cocaina pura all’ottanta per cento.

    I ragazzi hanno caricato questa mattina alle prime luci dell’alba nel retro di una grande pescheria di Gioia Tauro. Gli accordi erano già stati presi da Gennaro. Loro dovevano solo ritirare la merce e pagare. Punto. Liscio e pulito, un lavoro facile facile. E così è stato infatti, non c’è stato alcun problema di sorta, niente intoppi. Ma si sa, i calabresi sono gente seria, fare affari con loro è una garanzia.

    Solo che il viaggio da laggiù fino a Milano è bello lungo: sono 1200 chilometri, e loro hanno fretta di tornare. Ma ormai ci siamo, manca poco.

    Il cartello dice ‘area di servizio di San Zenone’ fra cinque chilometri, poco prima del casello di Melegnano.

    «Mirko esci qua che ci beviamo una cosa.» Dice Scheggia mentre si scaccola accuratamente il naso.

    «Oh mò che siamo arrivati devi bere.»

    «Eh appunto, che fa, ormai siamo quasi arrivati. E poi devo pisciare. È da quattro ore che non ci fermiamo compà.»

    «Pure io devo pisciare.» Gli fa eco Filippo, Fil.

    «Scassacazzi che siete.» Risponde Mirko mentre a novanta all’ora si sposta a destra e si infila nella corsia di entrata della stazione di servizio.

    Cinque minuti dopo sono tutti e tre al bar. Aperol e patatine per tutti. Mirko però tiene sempre d’occhio la macchina attraverso la vetrata del bar. Di fianco a loro ha appena parcheggiato un Mercedes rosso, mezzo scassato. Ne è scesa una famiglia di rom con tanto di donne in gonna lunga e un nugolo di bambini lerci al seguito.

    Zingari di merda, pensa Mirko mentre si riempie la bocca di patatine. Poi guarda l’orologio.

    «Andiamo raga.» Dice agli altri due.

    «Prendo le sigarette e arrivo.» Risponde Scheggia.

    Escono e risalgono in macchina, non prima di aver lanciato un’occhiata di disprezzo verso gli zingari che stanno bivaccando su una delle aiuole fra le auto in sosta.

    Mirko fa retromarcia per uscire dal parcheggio quando una Seat Leon bianca si inchioda dietro di lui, bloccandolo.

    «Ma vedi sto strunz…» Impreca mentre già sta per attaccarsi al clacson.

    Poi vede esattamente quello che non si aspettava di vedere.

    Succede tutto in un attimo. Dalla Seat saltano giù in tre. Altri cinque arrivano dai lati, spuntati da chissà dove, di corsa. Tutti con le armi spianate. Pistole e mitragliette, e giubbotti antiproiettile. E sopra i giubbotti le placche con il distintivo Polizia di Stato. E facce dure, decise.

    «Polizia! Scendete tutti. Mani bene in vista e niente cazzate.» Grida uno degli otto agenti, quello che verosimilmente sembra essere il capo.

    Facce dure quelle degli sbirri. Più dure delle loro.

    Gennaro Pastore per la rabbia sferra un violento calcio al tavolino di fronte al divano.

    Sta guardando in televisione le ultime notizie di cronaca locale sul telegiornale regionale. Stanno intervistando il Primo Dirigente della Squadra Mobile di Milano. Sono in conferenza stampa. Gli sbirri sono tutti in alta uniforme, si sono messi in tiro per i giornalisti e le telecamere, quei porci.

    Il dirigente cede la parola all’uomo alla sua destra, il commissario Valerio Colasanti, ovvero colui che ha coordinato e partecipato in prima persona alla ‘brillante operazione che nella giornata di ieri ha portato all’arresto di tre giovani esponenti della malavita locale e al sequestro di un ingente quantitativo di stupefacenti’.

    Il guaio è che uno degli arrestati è proprio suo fratello Mirko Pastore.

    Gennaro aveva capito subito che qualcosa era andato storto quando, non vedendolo arrivare in serata, aveva provato a chiamarlo, ma sia il suo telefono sia quello degli altri due compari risultava spento o irraggiungibile.

    E adesso ne aveva avuta la conferma definitiva. Direttamente dalla televisione, in prima serata.

    Solo che ora era veramente nella merda. Non solo suo fratello si sarebbe fatto un bel po' di gabbio nei prossimi anni, ma soprattutto il danno economico che ha subito con la perdita del carico è ingente. Nelle casse della banda non restava molto, e questo lo mette in serie difficoltà nel riuscire a mantenere il controllo della sua piazza di spaccio. Se non avesse coperto subito il buco trovando un altro carico di coca da mettere sul mercato i suoi clienti abituali si sarebbero rivolti altrove per rifornirsi. Magari da quei marocchini di merda che si stanno facendo sempre più aggressivi.

    No, deve assolutamente trovare una soluzione, e anche in fretta.

    Gennaro ci pensa mentre si prepara un cuba libre. Pensa che ormai l’unica possibilità che gli resta è chiamare i Savastano.

    E che l’unico modo per salvare suo fratello dalla galera è fotterseli.

    2

    «Ed è per questo motivo che vi ringrazio tutti per essere qui questa sera, e perché so che la nostra associazione potrà contare sempre su di voi e sul vostro sostegno.»

    Roberto Pagani fa una pausa.Si prende il tempo per gustare il lungo applauso e guardare i volti delle persone presenti in sala che lo stanno ascoltando.

    Un centinaio fra uomini e donne, tutti vestiti elegantemente, tutti interessati a lui; di più, tutti affascinati da lui. E non è poco visto che queste persone rappresentano il meglio della società italiana. Professionisti affermati nei più disparati settori, industriali, uomini delle istituzioni. Ci sono magistrati, finanzieri, alti papaveri delle forze armate, qualche politico; ci sono anche un dirigente sindacalista e un paio di alti prelati. E sono tanti, davvero tanti. Non si aspettavano, lui e gli altri veteris magister della congregazione, una partecipazione così massiccia. Invece quasi tutti coloro che sono stati invitati sono presenti. L’unica assenza di rilievo è il ministro delle politiche agricole, ma è un assente giustificato essendo al momento impegnato a Bruxelles per un incontro al vertice con i suoi omologhi europei.

    La stanza dove si trovano è una elegante sala per ricevimenti all’ultimo piano dell’Hotel Imperial, un lussuoso albergo il cui proprietario è seduto a un tavolo poco distante dal piccolo palco da cui Roberto sta parlando.

    Luci soffuse, tavoli apparecchiati con tovaglie lunghe, ognuno con un bouquet di fiori freschi al centro come omaggio alle signore, come si conviene in un raffinato banchetto. I posti sono rigorosamente assegnati con piccole ampolle di vetro di Murano che contengono una etichetta sulla quale è stampato il nome di ciascun ospite. Dalle ampie vetrate della sala si ha una stupenda veduta di tutta la città, illuminata da migliaia di luci che brillano intense. É una serata dal cielo limpido e si vedono chiaramente in lontananza i grattacieli del nuovo centro direzionale. Alcuni degli uomini presenti hanno i loro uffici in quel centro.

    «Ma ora non voglio abusare ulteriormente della vostra pazienza e poi ci aspetta la magnifica cena offerta dal nostro munifico ospite» Pagani indica con la mano un uomo brizzolato sulla cinquantina che indossa un elegante doppiopetto blu. Al tavolo con lui una piacente signora bionda in abito lungo «il signor Michele Desantis.» Il signor Desantis, abbronzato ed elegante, si alza e fa un piccolo inchino ai presenti mentre questi lo omaggiano di un caloroso quanto discreto applauso.

    Roberto Pagani approfitta di questo momento per scendere dal palco dove ha tenuto il discorso. Alle sue spalle è stato teso un piccolo arazzo ricamato a mano che rappresenta una fenice nera che si erge fra fiamme rosseggianti. Al di sotto delle fiamme una scritta dorata: Ex Flammis resurgo. Dalle fiamme risorgo.

    É il nome della congregazione della quale Pagani, assieme ad altri sette uomini, chiamati gli otto veteris magister, ne è il capo e fondatore. Proprio uno di costoro, vestito con un elegante tweed grigio fumo di Londra, gli si avvicina.

    «Un discorso ispirato e sontuoso, bravo Roberto.Li hai ammaliati.»

    Roberto annuisce e indica con il mento il pubblico che inizia ad accedere ai tavoli assegnati per la cena imminente.

    «La nostra idea di giustizia e ordine morale si diffonde sempre di più caro Giosuè, e a loro piace. Tutte queste persone contano qualcosa, e sono pronte a finanziare i nostri progetti e a garantirci gli appoggi che ci servono per portare avanti il nostro progetto. Era importante farli sentire partecipi e coinvolti.»

    Giosuè Decarli, 58 anni, imprenditore nel ramo dell’acciaio, prende Pagani sotto il braccio mentre con due calici di spumante italiano della migliore qualità si incamminano verso una delle grandi vetrate.

    Non è un semplice vezzo che ci sia spumante invece di champagne. É stato proprio Pagani a insistere su questo punto: come principio bisogna privilegiare i prodotti italiani rispetto a quelli esteri. Sopratutto se sono prodotti francesi, dato che la Francia secondo lui è diventata negli ultimi anni la nostra principale antagonista sia a livello economico che in politica estera.

    «Dobbiamo dare un segnale però Roberto. Tu hai perfettamente ragione nel volerli coinvolgere, ma questa gente non è il popolino che gli puoi vendere solo fumo e propaganda. I discorsi vanno bene, ma poi devono seguire i fatti. Fatti concreti, capisci. Dobbiamo dimostrare di saper raggiungere i nostri obiettivi, portare risultati.»

    Pagani sottrae il braccio dalla presa dell’uomo, quasi infastidito. «Mi stai dicendo che non sto ottenendo abbastanza risultati Giosuè? Perché se è così puoi sempre esporre la questione di un cambio di reggenza al consiglio degli altri magister.»

    L’uomo in tweed sorride. É reduce da un recente intervento di lifting facciale e il suo è un sorriso strano; parziale in un certo senso. Le sopracciglia sono immobili, non può fare a meno di notare Pagani, il che crea un effetto nel complesso bizzarro nell’espressione del volto dell’uomo davanti a lui.

    «No no, Roberto, la tua reggenza non è assolutamente in discussione. Dico solo che dobbiamo forzare la mano con alcune delle iniziative di cui abbiamo parlato in consiglio.»

    Un uomo in abito scuro, accompagnato da una signora, fresca di parrucchiere, che indossa un elegante e costoso vestito lungo, si avvicina a loro sollevando un calice di spumante.

    «I miei complimenti Roberto, davvero un gran bel discorso. Anche mia moglie, di solito molto critica, ha apprezzato.» Alfredo Bibiano e signora, ovvero l’assessore alla sanità, di fresca nomina grazie all’appoggio e alle conoscenze di Pagani in Regione.

    Pagani ricambia i complimenti con un sorriso e un leggero inchino verso la matrona coperta di gioielli.

    «Grazie Alfredo, siete voi con il vostro sostegno a darmi la forza di proseguire nel progetto in cui credo fermamente.»

    «Tu sai che puoi contare su di noi Roberto» ammicca l’assessore. «Avrai il nostro appoggio incondizionato alla tua candidatura alle prossime europee. Vedrai, la tua lista Più Italia otterrà un grande successo.»

    Pagani alza il suo calice per un brindisi di buon auspicio mentre osserva la coppia dirigersi verso il proprio tavolo.

    Poi si rivolge novamente a Decarli.

    «Se ti riferisci a quel progetto di bonifica in Calabria della cosca Lanzino-Morabito sappi che ci sto lavorando e siamo a buon punto. Ho affidato l’operazione a una delle mie migliori agenti sul campo e le ho messo a disposizione tutte le risorse necessarie. Entro lunedì dovrei anzi incontrarla per essere aggiornato sullo stato della situazione. Vedrai che quanto prima i risultati arriveranno Giosuè. Fidati di me, so quello che faccio.»

    Giosuè Decarli stira le labbra mentre annuisce compiaciuto. Anche quelle sono rifatte.

    «Molto bene Roberto, molto bene. Certo che mi fido di te, io come tutti gli altri. Tutti noi sappiamo bene quanto impegno profondi e quanto ti stia a cuore il nostro progetto. Questo paese ha davvero bisogno di noi. La corruzione morale e materiale, il malaffare, la perdita dei valori fondanti della nostra stessa civiltà cristiana sono a rischio, lo sappiamo bene entrambi. Dobbiamo prendere in mano la situazione e iniziare a colpire il sistema dall'interno, come killer silenziosi e invisibili ma spietati. Come quei cinesi tutti vestiti di nero…come si chiamavano…»

    «Ninja.» risponde Pagani. «Ed erano giapponesi, non cinesi.»

    «Ninja! Ma certo, e bravo Roberto, ninja giusto. Proprio loro. Cinesi, giapponesi, è uguale.» Dice divertito Giosuè Decarli, «Ma adesso basta parlare, andiamo a mangiare che poi il nostro amico Cesare ha detto che ci ha organizzato un bel dopocena con delle modelle croate arrivate settimana scorsa da Zagabria per la settimana della moda.»

    Roberto Pagani non è andato al dopocena con le modelle croate organizzato da Giosuè Decarli. Non giudica il collega, non è un intransigente bigotto; semplicemente questo non è il suo genere di divertimento. Pur non essendo insensibile alla bellezza femminile, ai piaceri della carne predilige quelli della mente, dello spirito. Un appagamento dato, magari, da una buona lettura, o dallo studio di qualche opera d’arte antica, di cui è un appassionato collezionista.

    É seduto sul grande e lussuoso divano di casa sua, palazzo Sciarra-Colonna, un edificio del ‘500 nel centro di Roma che si affaccia direttamente su piazza del Popolo. Sullo schermo ultrapiatto del televisore da 65 pollici scorrono le notizie Ansa. Uno sguardo ai principali fatti del mondo prima di andare a dormire. É già tardi, la cena si è protratta più del previsto, ma Pagani è abituato a dormire poco, non più di quattro o cinque ore per notte, ma la serata è andata meglio del previsto. Sono stati raccolti nuovi finanziamenti per il suo progetto e stabiliti nuovi contatti.

    Adesso può finalmente rilassarsi un po'.

    Le solite notizie: governo diviso sul nuovo decreto per lo stanziamento di fondi per salvare l’ennesima banca in difficoltà, la crisi libica, nuove tensioni fra Stati Uniti e Corea del Nord. Poi la cronaca italiana, ed ecco passare una notizia che lo riguarda personalmente: la sparizione, verosimilmente il rapimento, di Valentina Colombi, figlia di Filippo Colombi, uno degli iscritti alla sua loggia.

    Una delle regole fondamentali dell’appartenenza ad essa è il mutuo soccorso, la reciproca assistenza dei suoi membri in caso di necessità. E questo è sicuramente uno di quei casi.

    Roberto Pagani prende il telefono e chiama immediatamente Filippo Colombi. «Sono Pagani. Perché non mi hai avvertito subito, Filippo.»

    La voce dell’uomo dall’altra parte è un mix di angoscia e stanchezza.

    «Ti avrei chiamato domani, Roberto. La prima cosa che ho fatto è stato allertare il nostro amico, Petralia. Si è dato subito da fare per far pressioni su Onofri, il questore, lo conosci no, e far partire subito le indagini. Mi ha garantito che daranno la massima priorità alla ricerca di mia figlia.»

    Pagani sbuffa. «Onofri è un brav’uomo ma non ha ne i mezzi ne le competenze sufficienti per risolvere in tempi brevi una cosa come questa Filippo. Me ne occuperò personalmente. Io, a differenza di lui, ho la persona giusta a cui affidare il caso. Stai tranquillo Filippo, vedrai che tutto si risolverà per il meglio.»

    Filippo Colombi fa un profondo sospiro, quasi di rassegnazione. Sa bene che nel mondo reale il lieto fine è sempre un’opzione aleatoria, nonostante le rassicurazioni di Pagani.

    «Ti ringrazio Roberto, apprezzo molto, davvero. Spero che tutto si risolva presto e la ritrovino sana e salva. Valentina è sempre stata una donna molto indipendente e purtroppo abbiamo perso parecchio tempo prima che qualcuno si accorgesse della sua scomparsa. Si sono messi in allarme al lavoro dopo che non si era presentata per più di una settimana. Ci hanno avvertiti solo allora. Io e mia moglie non dormiamo più da quando è successo. Stiamo per crollare.»

    «Comprendo benissimo Filippo, credimi, ma non è questo il momento di crollare, non ancora. Lasciami lavorare. Ti farò avere notizie al più presto.»

    Riaggancia Roberto Pagani, poi si alza e si versa due dita di scotch. Resta ancora per un attimo a guardare lo schermo della televisione con le altre notizie che continuano a scorrere prima di comporre un altro numero sul telefono.

    Una voce femminile stavolta risponde alla sua chiamata. Era sveglia nonostante l’ora pensa Pagani, nessuna traccia di sonno nel suo tono.

    «Si?»

    «Marina, sono Roberto. Ho un caso da affidarti, da seguire con estrema urgenza.»

    «Ti ascolto.» Risponde decisa la donna, nessuna esitazione nella sua voce.

    «Valentina Colombi, la figlia di uno dei nostri è stata rapita. La

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