Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il sogno avvelenato
Il sogno avvelenato
Il sogno avvelenato
E-book245 pagine3 ore

Il sogno avvelenato

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Negli anni di piombo si è combattuta una guerra, che un’intera generazione ha perso.
Luca, che ha vissuto senza limiti alimentato dal fuoco interiore della militanza, si ritrova schiacciato sotto le macerie degli ideali e dei miti crollati.
Una Libertà elevata a dogma, una volta svuotata dall’amore, dalla condivisione e dalla visione, apre le porte ai demoni del tormento, che si fanno strada cavalcando l’eroina, cannibalizzando entusiasmo e autostima. Resta solo un senso di fallimento troppo vasto per essere fronteggiato da soli. E Luca è solo.
Il sogno avvelenato è una finestra aperta su ciò che gli anni ‘70 italiani si sono lasciati dietro, il canto del cigno del grande movimento di lotta e di una generazione di guerrieri sognatori feriti e sconfitti che si racconta a noi con una nuda onestà che rasenta la crudezza e non si concede la minima indulgenza. La storia di Luca è un atto di memoria collettiva, il racconto di come il terreno sia franato sotto i piedi della generazione che portò l’assalto al cielo, sprofondandola in un inferno privato di angoscia, dolore e schiavitù.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2018
ISBN9788831938136
Il sogno avvelenato

Correlato a Il sogno avvelenato

Ebook correlati

Biografie politiche per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il sogno avvelenato

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il sogno avvelenato - Marco Reati

    INDEPENDENT, FREE and HUNGRY PUBLISHING

    Marco Reati

    IL SOGNO AVVELENATO

    Edizioni Jolly Roger

    Firenze

    © 2018 Fabio Gimignani

    Edizione elettronica luglio 2018

    ISBN 9788831938136

    La versione cartacea di questo volume è stata stampata per i tipi di Jolly Roger da Fotlito73Grafic – Borghetto Lodigiano (LO) - Stampato in Italia - Printed in Italy

    Questo libro è basato su una storia vera. I nomi dei protagonisti sono stati cambiati per rispettarne la privacy, ma ogni persona citata è reale, così come ogni fatto narrato è veramente accaduto.

    Progetto grafico: ©Fabio Gimignani

    www.edizionijollyroger.it

    info@edizionijollyroger.it

    IL SOGNO AVVELENATO

    Dedicato a tutti coloro che non smettono mai di sognare, portando così il peso della responsabilità di farlo anche per chi ha ormai rinunciato.

    … A me e alla mia generazione non è stato lasciato nessuno spazio per vivere quell'immaginario, che portavamo con noi al momento del nostro ingresso nella società. Non abbiamo potuto vivere nel modo in cui ci sarebbe piaciuto, perché la generazione precedente ha brutalmente bloccato il nostro cammino, chiedendoci di sacrificare la nostra differenza o morire. Così alcuni sono morti con le armi in pugno, molti con l'eroina nelle vene e la maggioranza è vissuta ammazzando dentro di sé il suo desiderio di cambiamento.

    Renato Curcio

    L'aereo toccando terra sobbalzò appena, poi scivolò morbido fino a fondo pista. Luca scese dalle scalette in un leggero stato confusionale, con la febbre che gli stava salendo. L'aria fredda lo avvolse, procurandogli lunghi brividi e tremiti in tutto il corpo.

    Uscito dal bus navetta, varcò la grande porta a vetri e si mise paziente ad aspettare la sua valigia davanti al nastro porta bagagli. Iniziava la parte più difficile: doveva passare la dogana e il controllo documenti. Nel corridoio alcuni finanzieri parlottavano tra loro, lanciando qualche sguardo distratto ai viaggiatori che passavano. I cani, al guinzaglio, erano accucciati e sembravano pisolare, pigramente disinteressati alle persone che scorrevano loro davanti. Alla vista degli animali, il suo cuore accelerò i battiti. Immaginò la scena di quelle bestiacce che gli si avvicinavano annusando e abbaiando, seguiti dalle guardie con le manette pronte. Non successe nulla e passò oltre, accompagnato dalle sue paranoie, davanti a cani e finanzieri che lo ignorarono completamente, quasi fosse invisibile. Arrivò allo sportello, dove un funzionario dall'accento siciliano dette una rapida occhiata al passaporto, vi appose il timbro di rientro, lo richiuse e glielo porse, senza mai alzare lo sguardo.

    Era in uno stato d'ansia che faticava a contenere e gestire, gli sembrava che tutti lo guardassero con sospetto, poteva sentire i battiti accelerati del suo cuore rimbombargli nella testa.

    Non si erano accorti di niente e provò un pizzico di orgoglio per la falsificazione fatta a regola d'arte. Rimise in tasca il documento, con studiata lentezza, passò la grande porta a vetri che dava sulla strada; era fatta. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, tirò un lungo e intenso sospiro di sollievo.

    Il buio della sera lo avvolse con un velo di aria fresca, quasi pungente; in fondo era dicembre e quel clima, in Italia, era normale.

    Al bar ordinò un caffè, cambiò il biglietto da dieci dollari e prese anche un paio di gettoni per il telefono. Poi entrò in una delle cabine telefoniche, tirò fuori di tasca il biglietto stropicciato che gli aveva dato Sandro, inserì il gettone e compose il numero.

    «Pronto. Sei Gianni?»

    «Sì, so' io. Chi è?»

    «Sono Luca, arrivo ora dall'India, sono l'amico di Sandro, mi ha detto che ti avrebbe avvisato del mio arrivo.»

    «Ah, sì, m'ha chiamato la settimana scorsa. Non ti aspettavo così presto, dove sei?»

    «Per ora a Fiumicino, non so come muovermi.»

    «Nun te preoccupa'. Prendi er bus che va a Termini, ce vole n'oretta, se vedemo lì. A proposito, come te riconosco?»

    «Capelli lunghi scuri, barba, giacca di renna, borsone verde e sitar con custodia di stoffa rossa. Non ti puoi sbagliare.»

    «Bene, per stanotte resti a dormire da me, se vedemo più tardi.»

    «Bene, ti ringrazio, a dopo.»

    Riattaccò la cornetta, felice per la fortuna che aveva avuto: non doveva neanche cercarsi un posto per passare la notte.

    Salì su uno dei pullman che facevano la navetta tra Fiumicino e la stazione Termini.

    Si sentiva sempre più debole e febbricitante, continuava a sbuffare con quel fastidioso gusto di uovo sodo e zolfo che gli risaliva dallo stomaco. Fece tutto il viaggio con la nausea e i brividi che lo scuotevano da capo a piedi.

    Abituato al traffico caotico di Delhi, guardava, quasi stupito, dal finestrino le vie di Roma, che gli sembravano deserte.

    Appena sceso dal bus, gli si fece incontro, sorridendo, un ragazzo dai capelli castani lisci, con una frangetta un po' da tamarro.

    «Ciao, io sono Gianni.»

    «Luca. Ciao.»

    «Hai l'aria un po' sbattuta, che t'è successo? E' stato un viaggio faticoso?»

    «No, no, il viaggio è andato tutto bene, sono io che non sto un gran ché. Devo avere un po' di febbre, forse influenza o non so.»

    «Dai, vieni, ho la Vespa là dietro. A casa te prendi n'aspirina e dopo un bel sonno domattina starai de sicuro meglio.»

    Legato il borsone con un elastico al portapacchi, mise il sitar a tracolla e salì sulla Vespa grigia, dietro a Gianni.

    Durante il percorso Luca continuò a guardarsi intorno con aria stranita; l'aria fredda e le strade deserte gli infondevano una profonda tristezza. Sentiva freddo dentro; la luce giallastra dei lampioni gli faceva apparire tutto vecchio e morente. Stava riprendendo contatto con un mondo che sembrava non appartenergli più.

    Si domandò quanto potesse fidarsi di Gianni. Sandro gli aveva detto che era un tipo a posto e non un sola; aveva bisogno di fidarsi e preferì mantenere il suo ottimismo relazionale, che fino ad allora gli aveva portato fortuna.

    Gianni fermò la Vespa sotto a uno dei tanti palazzoni lungo la strada.

    «Che posto è questo?»

    «Siamo sulla Tiburtina.»

    «Ah, sì è vero» esclamò, come se fosse riuscito a orientarsi; in realtà non conosceva bene Roma e quel palazzo poteva essere in qualunque posto.

    Salirono in ascensore fino al quinto piano. Gianni aprì la porta.

    «Ciao ma'!»

    «Sei già tornato?»

    Apparve una donna piccola e paffuta, capelli corti, neri e una vestaglia celeste.

    «Sì, questo è Luca, un amico mio de passaggio; se fermerà da noi un par de giorni.»

    «Buonasera signora.»

    «Ciao, Luca. Dovrete un po' arrangiarvi: la camera de Gianni nun è molto grande.»

    «Non si preoccupi, andrà benissimo.»

    «Vieni, annamo» e Gianni lo tirò per un braccio in camera sua.

    La stanza era piccola, ma accogliente, con i mobili in legno chiaro e i letti a castello in ferro rosso.

    «Tu dormi de sopra.»

    Luca si tolse scarpe e pantaloni, salì la scaletta e si sedette sul letto.

    «Raccontame 'n po'. Sandro m'ha accennato che potevo aiutatte pe'n certo affare.»

    «Certo, ho un chilo di Manali e trenta grammi di morfina di Peshawar da vendere.»

    «Ah, niente male! Per il fumo me ce vorrà quarche giorno, ma per la morfa, domattina devo vede' er tipo. Comunque più de trenta sacchi al grammo nun te li sogna', nun c'è troppa richiesta, la gente preferisce l'eroina.»

    «Va bene, non mi interessa, ho bisogno di soldi, quindi è ok.»

    «Per il fumo me ce vorrà 'na settimana, dieci giorni, come minimo.»

    «Ok, va bene, non c'è fretta, tranquillo.»

    Così dicendo, Luca scese dal letto e dette a Gianni il sacchettino della morfina, poi tolse dalla borsa la base della lampada, la aprì e ne estrasse le pallette di charas, ributtandone una in borsa.

    «Questa la tengo da fumare, se no resto senza.»

    «Me pare giusto, anzi, nun sarebbe male se ce facessimo 'n'assaggino. Che dici, prima de dormì ce sta, no?»

    «Certo, ma rolla te, io sono davvero stanco.»

    Gianni scaldò un po' di charas, lo mescolò col tabacco di una Colombo e rollò una canna lunga e sottile. La accese, aspirò lunghe boccate di fumo, che soffiò fuori cercando inutilmente di fare degli anelli, poi la passò a Luca, che fece solo qualche piccolo tiro, tossicchiando un po'.

    «Bene, ora vedemo di dormì un pochetto; domattina sveglia alle nove.»

    «Giusto, buona notte.»

    «'Notte.»

    Si addormentò velocemente, la stanchezza e la debolezza presero subito il sopravvento sui pensieri.

    Al mattino si svegliò tutto indolenzito, tremava dal freddo, non riusciva a fermare i brividi che lo scuotevano, la testa gli faceva un gran male e le tempie gli pulsavano fortissimo, in più era un continuo correre in bagno per la potente dissenteria; era sempre più debole. Chiese alla madre di Gianni un termometro, per misurare la febbre. Trentanove e sette. La donna, preoccupata, chiamò il medico di famiglia, che arrivò in una quarantina di minuti e, dopo averlo visitato, suggerì un ricovero precauzionale, soprattutto per la febbre che, nonostante gli antipiretici, non accennava a scendere. Fu una scelta provvidenziale, perché, appena arrivata l'ambulanza, tutto gli sembrò avvolto dalla nebbia; anche i suoni si fecero ovattati, poi il buio.

    Si svegliò quasi di scatto e rimase un attimo a fissare il soffitto. Si accorse di essere in una camera di ospedale, con il tubicino di una flebo attaccato al braccio e la maschera dell'ossigeno che gli copriva naso e bocca. Voltò la testa verso la porta, ma dovette chiudere subito gli occhi, perché la stanza prese a girargli intorno vorticosamente.

    Fu la voce squillante di un'infermiera a farglieli riaprire.

    «Dottore, dottore! Venga, si è svegliato!»

    Un giovane medico entrò con passo deciso e si avvicinò al letto. Gli aprì le palpebre puntandogli la luce di una piccola torcia direttamente sulle pupille, poi gli mosse la testa a destra e a sinistra per osservare i movimenti dei bulbi oculari.

    «Come va, come ti senti?»

    «Non lo so, me lo dica lei dottore; mi sembra di essere ubriaco e mi gira continuamente la testa.»

    «È presto detto: sei arrivato qui tre giorni fa in stato di coma, disidratato dalla diarrea e dalla febbre. Ieri abbiamo avuto dal laboratorio la conferma che si tratta di una forma di tifo abbastanza diffusa in oriente. È molto aggressivo e sei stato fortunato; la febbre, debilitato come sei, avrebbe potuto ucciderti, ma ti sei svegliato da solo e questo è un buon segno. Comunque preparati, perché il decorso sarà abbastanza lungo e potrai uscire da qui solo quando saremo sicuri che tu non sia più infettivo. Abbiamo già fatto la profilassi preventiva alle persone con cui sei venuto in contatto. Ora riposa che sei ancora molto debole.»

    Detto questo, il medico appuntò qualcosa sulla cartella ai piedi del letto e se ne andò, seguito dall'infermiera.

    Era lì da tre giorni, si sentiva abbattuto e sconfitto: era la seconda volta che si risvegliava in un ospedale e si maledì per non aver fatto i vaccini.

    Poco dopo l'infermiera rientrò e si sedette sulla sedia di alluminio accanto al letto, con in mano un foglio e una penna.

    «Ho bisogno dei tuoi dati per la cartella clinica.»

    Luca rispose docilmente a tutte le domande riguardo alle sue generalità. Subito dopo si pentì di aver dato il suo vero nome, ma ormai era troppo tardi.

    «Se vuoi avvisare la tua famiglia ti porto il telefono.»

    «Ah, grazie, a questo punto posso anche dir loro dove sono… A proposito, dove sono?»

    «Allo Spallanzani. È una clinica specializzata in malattie infettive. Ti hanno mandato qui dal pronto soccorso del Gemelli appena hanno avuto il dubbio che si trattasse di qualcosa di contagioso.»

    L'infermiera uscì, per rientrare poco dopo con un telefono a gettoni montato su di una specie di carrellino. Inserì la spina nella presa a tre buchi accanto agli armadietti, Luca dettò il numero e lei gli passò la cornetta.

    «Pronto. Ciao, mamma, sono io.»

    «Oh Signore, che tu sia ringraziato! Luca, dove sei?»

    «Sono a Roma, stai tranquilla, non ti preoccupare, sto abbastanza bene.»

    «Perché abbastanza? Cos'è successo?»

    «Ma niente, mi sono beccato il tifo. Sono in ospedale, mi stanno curando, è tutto sotto controllo.»

    «Ma sei sicuro che va tutto bene ? Hai bisogno di qualcosa? Ti porto un paio di pigiami e le ciabatte. In che ospedale sei?»

    Appena ebbe la certezza che sarebbero sicuramente venuti a trovarlo, volle esagerare con le richieste.

    «Ah, grazie. Se puoi, portami anche un po' di parmigiano e del miele, e anche due o tre paia di mutande e di calzini. Sono allo Spallanzani. È una clinica per le malattie infettive, poi l'infermiera ti spiega come arrivarci. Quando pensate di venire?»

    «Di sicuro domenica, che il papà non lavora. Dai, ora ti saluto, che sennò spendi troppo di telefono.»

    «Va bene, allora vi aspetto. Ah, se ce la fate, portatemi anche qualcosa da leggere, l'astuccio con le matite e un paio di blocchi da disegno. Ciao, un bacio a tutti.»

    «Ciao, ci vediamo domenica.»

    Passò la cornetta all'infermiera, che dette a sua madre l'indirizzo e gli orari delle visite, oltre alle indicazioni su come arrivarci. Rimase pensieroso a osservare l'infermiera che spingeva il carrellino fuori dalla stanza. Non sapeva se essere contento o meno di rivedere i suoi; risentire la voce della madre lo aveva al tempo stesso commosso e avvilito. Si sentiva amareggiato, non era ciò che si era prefissato, gli eventi avevano preso anche stavolta una piega inaspettata, alla quale doveva suo malgrado adattarsi. Quando l'infermiera rientrò, le chiese che giorno fosse.

    «È giovedì sedici dicembre, piove e tira un ventaccio freddo.

    Mentre gli rispondeva, sistemò il letto, poi cambiò il boccione della flebo e abbassò la luce.»

    «Ora riposati, hai sentito il dottore: non ti devi affaticare, sei troppo debole.»

    Incapace di una vera reazione, chiuse gli occhi e si addormentò.

    Nel pomeriggio, due infermieri lo misero in piedi e lo fecero salire su una bilancia: quarantanove chili e settecento grammi.

    «Siamo un po' magrini! Guarda di mangiare, altrimenti con uno spiffero vai a terra! Da domani potrai di nuovo assumere cibi solidi, vedi di approfittarne.»

    Accennò un sorriso compiacente all'ironia dell'infermiere. In realtà si vergognava del suo stato; il fatto di non essere stato in grado di badare a se stesso, riducendosi così, lo faceva sentire un perdente; il suo mito autarchico si era sbriciolato miseramente. Questo round con la vita l'aveva perso.

    I giorni successivi passarono lenti, tra flebo e sonnellini, in uno stato di ovattato torpore quasi costante. Durante gli interminabili pomeriggi di solitudine e silenzio cercò più volte di fare il punto della situazione, ma risultò una fatica inutile; era come se il suo cervello si rifiutasse di elaborare ciò che gli era successo negli ultimi anni, una difesa contro la sofferenza che gli si era stratificata nell'anima.

    L'arrivo dei genitori e del fratello, la domenica all'ora del passo, non lo scompose più di tanto. Affacciata alla stanza, sua madre all'inizio non l'aveva neanche riconosciuto; la pelle scurita dal sole, la barba, i capelli lunghi e l'estrema magrezza lo rendevano molto diverso da quando era partito. Loro erano visibilmente emozionati, lui non più di tanto. Si sentiva triste e depresso; dopo tanti mesi, li aveva trovati pressoché uguali, solo il fratello era un po' cresciuto.

    Parmigiano, miele, biscotti, cioccolata fondente e una stecca di Camel senza filtro, fu ciò che rimase come ricordo della visita.

    Lunedì mattina l'anziano cirrotico del letto accanto morì in silenzio; il posto rimase libero fino a sera, quando fu occupato da Gabriele, un ragazzo milanese, biondino, con gli occhiali tondi e un viso non nuovo.

    «Ciao, io sono Luca.»

    «Gabriele.»

    «Aiutami a ricordare, dove ci siamo visti?»

    «A Manali, di sfuggita, un paio di volte. Io ero sempre a fumare sul palco di legno in piazza. Ma hai anche tu il tifo?»

    «Già, una vera palla. Mi sa che ci ha fregato l'acqua delle sorgenti di Manali; era limpida e fresca, ma sicuramente inquinata dallo scarico di qualche fogna.»

    «Ti è rimasto un po' di charas? Io non ho più nulla e magari una cannetta ogni tanto non mi dispiacerebbe.»

    «Sì, ho ancora un po' di Manali, ma devo riprendermi, ora non ho neanche il fiato per un tiro.»

    Gabriele era intelligente e piacevole, il tempo gli passava meglio, a parlare con qualcuno con cui era abbastanza in sintonia; si sentì fortunato ad averlo come compagno di camera.

    Ricevette anche la visita di Gianni che gli portò i soldi della morfina; l'affare era andato in porto e i soldi in tasca gli sollevarono il morale. Per il fumo, invece, era ancora in attesa, ma lo rassicurò che si sarebbe fatto sentire al più presto e sicuramente con buone notizie.

    I giorni successivi passarono veloci; fisicamente si stava riprendendo, aveva recuperato qualche chilo, girellava per i corridoi, scherzava con le infermiere; a una particolarmente carina fece un ritratto a carboncino, che lei apprezzò molto.

    Tutto sommato, non stava male e non si annoiava più di tanto; un infermiere gli aveva portato anche qualche libro e delle riviste. Passava molto tempo a leggere e disegnare e ogni tanto usciva sul balcone a farsi una canna con Gabriele.

    Poi, un giovedì mattina, verso le undici, mentre era affacciato al ballatoio delle scale a fumarsi una sigaretta con l'amico, vide cinque carabinieri salire di corsa; davanti a loro un graduato con dei fogli in mano, gli altri dietro imbracciando il mitra. Arrivati al loro piano, si fermarono davanti all'ufficio della caposala. Il maresciallo chiese a voce alta: «Dove possiamo trovare Luca Sarti?»

    Luca sentì il sangue farsi ghiaccio, guardò Gabriele che sgranò gli occhi con aria incredula.

    «Sono fottuto.»

    Rientrò nella sua stanza e si sedette sul suo letto, dove, sconsolato e incapace di mettere insieme due pensieri, attese in silenzio, col capo chino.

    «È finita, Stavolta qualche anno di galera non me lo leva nessuno. Sono stato un vero coglione a dare il mio nome.»

    Il maresciallo entrò poco dopo, seguito dalla caposala; gli consegnò la notifica dello stato di arresto con l'accusa di mancata presenza alla chiamata militare. Le indagini precedenti per politica, droga e armi non c'entravano nulla. Si sentì sollevato, anche se ora aveva un nuovo problema da risolvere.

    «Continuerà la sua degenza, fino a guarigione accertata, in stato di arresto; rimarrà piantonato in camera e accompagnato da un militare al bagno e negli spostamenti per le cure.»

    Luca ascoltò in silenzio annuendo col capo, poi firmò la notifica.

    «Il provvedimento ha decorrenza immediata, fate sgomberare l'altro letto, per favore.»

    «Ma come, maresciallo, mi perdoni, non ho potuto presentarmi perché ho avuto dei problemi, non sono un criminale, non merito l'isolamento, almeno mi lasci qualcuno con cui fare due chiacchiere, la prego!»

    Il maresciallo guardò la caposala, poi uscendo si girò verso Luca, abbozzando un sorriso.

    «Vedrò quello che posso fare. Arrivederci.»

    Trascorse una mezz'ora lunghissima, poi la caposala si affacciò con un sorriso.

    «Buone notizie, ho dovuto insistere, ma alla fine il maresciallo ha acconsentito a lasciarvi in camera insieme. Ha detto che è un'eccezione. Mi raccomando, non createmi casini.»

    «Tranquilla, saremo due angeli.»

    Nei giorni seguenti conobbero molti carabinieri, che si davano il cambio nei turni di piantonamento della stanza, la maggior parte senza nessuna intenzione di continuare la carriera militare. Erano quasi tutti del sud e avevano scelto l'arma per l'obbligo di leva solo perché offriva una buona paga, molto più alta dei comuni militari.

    Le settimane passarono veloci, una dopo l'altra. La condizione di detenuto in clinica non parve a Luca poi così terribile, ormai si stava abituando; non potendo restare in sala TV con gli altri degenti, aveva avuto una televisione in camera, un vero privilegio.

    Passò così le vacanze natalizie, durante le quali ebbe un altro paio di visite dei suoi, che accolse senza troppo entusiasmo. Era contento che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1