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Il bersaglio: eLit
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E-book353 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Proprio mentre sto per morire, mi rendo conto che non è vero niente. Non c'è nessuna luce bianca alla fine del tunnel. La mia vita non mi sfreccia davanti agli occhi in un lampo. Tutto ciò a cui riesco a pensare è quanto voglio vivere. Mi sono trasferito a New York un mese fa, per diventare il miglior giornalista mai esistito. Per scovare le migliori storie mai scritte. E ora eccomi qui: Henry Parker, ventiquattro anni, stanco oltre misura, con un proiettile a tanto così dal togliermi la vita. Non riesco a correre. Correre è tutto quello che Amanda e io abbiamo fatto nelle ultime settantadue ore. E sono stanco. Stanco di sapere la verità e non poterla raccontare. Cinque minuti fa tutta la faccenda è diventata improvvisamente molto chiara. So che due uomini un agente dell'FBI e un assassino mi vogliono morto, anche se per motivi diversi. Ma se io muoio stanotte, molti altri moriranno domani...

LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2014
ISBN9788858927755
Il bersaglio: eLit
Autore

Jason Pinter

Promettente autore americano, vive a New York. Dopo aver lavorato per quasi nove anni nel mondo dell'editoria, ha finalmente deciso di tentare a proporre lui stesso un manoscritto, e il suo coraggio è stato premiato. Il bersaglio è infatti il primo titolo di una trilogia mozzafiato.

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    Anteprima del libro

    Il bersaglio - Jason Pinter

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Mark

    Mira Books

    © 2007 Jason Pinter

    Traduzione di Maria Barbara Piccioli

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2008 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5892-775-5

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Prologo

    Proprio mentre stavo per morire, mi resi conto che tutta la mitologia riguardo alla morte era un cumulo di falsità. Non c’era nessuna luce bianca in fondo al tunnel. La mia vita non mi passò davanti agli occhi. Non c’erano angeli cantori né migliaia di vergini, e la mia anima non si librò al sopra del corpo per contemplarlo. Ero consapevole di una cosa soltanto, ed era che volevo disperatamente vivere.

    Guardai la pistola, alla cui canna la luna strappava barbagli di luce. Il fetore della morte era denso. L’aria puzzava di cordite e l’odore del sangue soffocava la stanza mentre intorno a me tutto si faceva buio. I miei occhi sbarrati dal panico si abbassarono sul corpo ai miei piedi, e vidi i bossoli sparsi in una pozza di sangue rosso che si andava allargando.

    Il mio sangue.

    C’erano altri due uomini vivi nella stanza. Li avevo incontrati in precedenza una volta soltanto.

    Cinque minuti prima avevo creduto di avere capito ogni cosa. Sapevo che quei due uomini mi volevano morto, anche se per ragioni diverse.

    Sul viso di uno di loro ardeva un odio così personale che mi bastava guardarlo per capire che era arrivata la mia ora. L’altro aveva uno sguardo freddo, professionale, come se la mia vita fosse semplicemente un cartellino da perforare. E non potei fare a meno di pensare...

    Le emozioni umane erano state un’ossessione per me.

    Colpa.

    Passione.

    Amore.

    Coraggio.

    Desiderio.

    E paura. Nei miei ventiquattro anni di vita, le avevo sperimentate tutte più volte.

    Percorrere il bianco e il nero delle emozioni umane era la mia passione, trovare il grigio fra essi la mia vocazione. Sondare i limiti dell’uomo e trasmetterli alle masse era la mia insulina.

    Mi ero trasferito a New York perché la città mi dava la possibilità di sperimentare tali emozioni su una scala ben maggiore di quanto avessi mai immaginato. Qui avevo la possibilità di portare alla luce la storia più sensazionale che fosse mai stata raccontata.

    Il proiettile che mi aveva colpito al torace trasmetteva scintille gelide lungo la spina dorsale, il lato destro del corpo era intorpidito, e respirare era come risucchiare fango da una cannuccia. Quando la pallottola era entrata, mi aspettavo un dolore accecante, ondate di agonia; invece la sofferenza non era arrivata.

    C’era solo quella terrificante sensazione che sensazione non era affatto.

    Mentre giacevo lì, morente, cercai di immaginare i momenti preziosi che avrei perso se la pistola avesse sparato di nuovo, la fiamma arancio che rischiarava l’oscurità, la morte che viaggiava così veloce che il mio mondo sarebbe finito prima che potessi rendermene conto.

    Ero stato destinato ad avere una famiglia? Un appartamento più grande del buco carissimo in cui vivevo, la cui porta ora era sigillata dal nastro giallo? Avrei avuto figli? Un maschio, una femmina, o magari entrambi? Li avrei cresciuti nella città dove ero approdato con tanto entusiasmo solo pochi mesi prima?

    Forse sarei invecchiato e morto nel mio letto. Forse sarei sceso in strada uscendo da Radio City e sarei stato travolto da un autobus a due piani gremito di turisti che avrebbero fotografato il mio corpo straziato mentre un agente in bicicletta avrebbe dirottato il traffico, affinché non calpestasse la mia sagoma tracciata col gesso sul manto stradale.

    Ma no. Eccomi lì. Henry Parker, ventiquattro anni, stanco oltre misura, una pallottola a pochi centimetri dal mettere fine a una vita che sembrava essere appena cominciata.

    E se la verità morirà con me questa notte, molti altri moriranno, vite che avrebbero potuto essere salvate, se solo...

    Non posso fuggire. Fuggire è tutto quello che ho fatto nelle ultime settantadue ore. E tutto finisce stasera.

    Sto tremando. L’uomo vestito di nero, il viso scolpito nel granito, stringe con più forza la pistola e pronuncia due parole.

    «Per Anne.»

    Non so chi sia Anne. Ma morirò per lei. E per la prima volta da quando tutto è cominciato, tre giorni fa, non ho un posto in cui fuggire.

    Rivoglio la mia vita. Voglio trovare Amanda. Per favore, fa’ che finisca. Sono stanco di scappare. Stanco di conoscere la verità senza poterla rivelare. Datemi la possibilità di raccontare la mia storia. Vi assicuro che ne varrà la pena.

    1

    Un mese fa

    Guardavo la mia immagine riflessa nelle porte mentre l’ascensore saliva al dodicesimo piano. Il vestito che indossavo era stirato in modo impeccabile, e cravatta, cintura e scarpe si intonavano alla perfezione. Occhieggiavo nervosamente Wallace Langston, che mi stava accanto. Mi ero pettinato con cura e mi ergevo in tutto il mio metro e ottantatré. Avevo comprato un libro su come prepararsi al primo giorno di lavoro. Sulla copertina, campeggiava un attraente ventenne a cui il dentista era probabilmente costato più della mia iscrizione annuale al college.

    A piano terra, l’addetto alla sicurezza mi aveva fornito un pass provvisorio. Non ancora un membro della fratellanza, ma un candidato che doveva ancora dare prova del proprio valore.

    «Si accerti di farsi fare la foto prima della fine della settimana» mi aveva detto. «In caso contrario, dovrò far partire l’intero sistema tutti i giorni, e ho cose più importanti da fare, ci siamo capiti?»

    Avevo annuito, assicurandogli che mi sarei fatto fotografare non appena fossi stato di sopra. E dicevo sul serio. Volevo la mia faccia sulla tessera del Gazette non appena il laboratorio avesse potuto svilupparla.

    Quando le porte si aprirono, Wallace mi fece strada in un atrio con il pavimento di moquette beige e oltre la scrivania di una segretaria dietro cui campeggiava la scritta New York Gazette a lettere cubitali. Le mostrai il pass provvisorio e lei sorrise a bocca aperta, senza smettere di masticare il suo chewing-gum.

    Wallace accostò la tessera magnetica a un lettore e le porte a vetri si aprirono. Non appena il silenzio si infranse, pensai a come fosse strano che tutte le mie speranze e i miei sogni fossero simboleggiati da quel rumore unico, meraviglioso.

    Un estraneo lo avrebbe giudicato ossessionante, cacofonico, ma alle mie orecchie suonava naturale come una risata spontanea. Centinaia di dita volavano sulle tastiere, e il ticchettio sommesso dei tasti e il suono graffiante delle matite sulla carta mi portarono un sorriso sulle labbra. Dozzine di occhi, fissi sui monitor illuminati, leggevano fax ed e-mail provenienti da tutto il mondo, e ai telefoni c’era chi sbraitava e chi sussurrava

    «La redazione» annunciò Wallace. «La tua scrivania è laggiù.» Indicò l’unica sedia girevole non occupata in mezzo all’oceano di feltro malconcio, mostrandomi come ogni giorno avrei dovuto aprirmi un varco verso la grandezza. Presto sarei stato seduto a quella scrivania, con il PC acceso, il telefono in mano, digitando rapidissimo sulla tastiera.

    Ero a casa.

    Se lavori nel campo dei media o dell’intrattenimento, New York è la tua Mecca. Gli atleti contano i giorni che mancano al loro debutto al Madison Square Garden. Per i pianisti classici, Carnegie Hall è la terra promessa. Anche per le spogliarelliste di professione... pardon... le danzatrici esotiche, New York è Gerusalemme.

    Non era quindi una coincidenza, e quella era la mia terra promessa. La redazione del New York Gazette. Rockfeller Plaza, New York City. Era stato un lungo viaggio quello che mi aveva portato fin qui.

    Mi chiesi per un momento cosa ci facesse lì un ventiquattrenne con un curriculum risicato, ma era tutto quello per cui avevo lavorato. Wallace mi aveva tenuto d’occhio fin dal primo articolo pubblicato in prima pagina dal Bend Bulletin, quello acquistato da cinquanta testate di tutto il mondo, e quando aveva saputo che ero stato accettato nel prestigioso corso di giornalismo della Cornell, si era fatto tre ore e mezzo di macchina per portarmi fuori a colazione. E l’ultimo anno, prima ancora che mi mettessi a cercare lavoro, mi aveva offerto un incarico full-time al Gazette.

    La redazione ha bisogno di sangue nuovo, aveva detto. Ragazzi giovani e ambiziosi come te, per dimostrare agli scettici che sono là fuori che la nuova generazione sa come muoversi. In questa città ci sono altri quotidiani, ma se vuoi dare la caccia a storie vere e non a celebrità in vacanza, questa sarà per te la scelta giusta. Lascia il segno, Henry, e fallo con noi. Inoltre, da noi lo stipendio per il primo anno è di cinque bigliettoni in più.

    Quella sera mi scolai tre bottiglie di champagne e persi conoscenza nel box doccia dove fingevo di essere il commentatore John Derringer con baffi e basette disegnati con la Bic.

    Sentivo la mano di Wallace sulla schiena. Sperai che non premesse troppo forte... probabilmente la mia giacca costava meno del suo taglio di capelli. Nondimeno Wallace era il mio benefattore, collocato in via permanente sullo scaffale più alto degli eroi da idolatrare. Dopo mia madre, che mi aveva messo al mondo, era lui la persona con cui ero maggiormente in debito.

    Riconobbi alcuni dei giornalisti. Ne avevo letto i lavori, ne conoscevo la firma. Faceva paura pensare a loro come ai miei nuovi colleghi. Per non menzionare la scarsa frequenza con cui sembravano lavarsi e radersi.

    Volevo che imparassero a rispettarmi, avevo bisogno che mi rispettassero. Ma per il momento ero solo un novellino, quello su cui si sarebbero puntati gli occhi di tutti.

    Poi lo vidi. Jack O’Donnell. Wallace mi spinse avanti e io mi ricordai di respirare.

    Passando, sfiorai la manica della camicia oxford azzurra di O’Donnell. Un tocco fugace con la grandezza. Parlagli più tardi, mi dissi. Seguilo in bagno. A pranzo. Offriti di lucidargli le scarpe, di crescere i suoi figli. Qualunque cosa.

    Ragazzi. Jack O’Donnell.

    Se cinque anni prima qualcuno mi avesse detto che avrei lavorato a un metro e mezzo da Jack, lo avrei preso a calci in culo accusandolo di prendermi in giro. Solo pochi anni prima, di Jack O’Donnell aveva parlato il New Yorker. A casa avevo una copia dell’articolo. L’avevo affisso sopra la scrivania, dopo averne sottolineato una frase, che era il faro che guidava qualunque pezzo scrivessi.

    La notizia è il DNA della nostra società. Da’ forma a quello che pensiamo, a come agiamo, a quello che proviamo. Decide chi siamo e chi diventeremo. Siamo tutti beneficiari - e sottoprodotti - dell’informazione.

    Molti, me compreso, attribuivano la prima iniezione di questo filamento di DNA a William Randolph Hearst. Hearst subentrò alla guida del San Francisco Examiner alla tenera età di ventitré anni. Era l’unico in grado di farmi sentire pigro. Hearst fu anche il primo a dare vita alla stampa sensazionalista, riempiendo il suo giornale di titoli a grandi caratteri e illustrazioni vistose. Gli appassionati di cospirazioni lo accusarono di aver fomentato la guerra anglo-ispanica con i suoi continui riferimenti alle violazioni dei diritti civili del governo spagnolo. Come pare ebbe a dire all’illustratore Frederic Remington: «Tu fornisci i disegni e io fornirò la guerra».

    Sembra che da allora il giornalismo sia regredito. Lo scandalo del New York Times lo ha dimostrato. Alcuni lo hanno liquidato come un incidente isolato. Altri, consapevoli che i loro pezzi non avrebbero resistito a un esame attento, hanno discretamente aggiornato i loro curricula. E io seguivo l’intera vicenda scuotendo la testa e tremando di rabbia, con la voglia di dare la sveglia al sistema.

    Se la frase di Jack diceva il vero, come io credevo, quando il sangue si infettava, la malattia si diffondeva in tutti i capillari della società. Bugiardi e falsari, con un ego più smisurato di quello di Donald Trump, sbucavano qua e là come ratti, uomini e donne che avrebbero dovuto raccontare le storie, non essere le storie.

    Solo la settimana prima, un giovane cronista del Washington Post si era presentato in redazione strafatto di anfetamine e caffè, con sei ore di tempo per scrivere un pezzo di mille parole che non aveva neppure iniziato. Ha scritto l’articolo, è tornato a casa, ha preso a pugni la sua ragazza e quindi ha fatto un tuffo a testa in giù dal loro appartamento al quinto piano. Altro combustibile per il fuoco.

    Io volevo essere l’antidoto, raccogliere il mantello di Jack O’Donnell e portarlo con fierezza. Volevo estrarre il veleno che si era diffuso nel giornalismo, restituire credibilità alla redazione sulla scia di quelle menzogne. O’Donnell mi aveva regalato una fede incrollabile in quello che un buon reporter poteva realizzare. Ed eccomi, a pochi passi di distanza dalla leggenda in carne e ossa. Ora di mettersi in luce o di chiudere il becco, Henry.

    Arrivammo alla mia scrivania e io sorridevo come il giorno della prima partita di campionato degli Yankees. Era vicina alla finestra e si affacciava sulla veranda che in inverno diventava una pista di pattinaggio su ghiaccio. Il sole la illuminava la mia postazione di lavoro, strappando barbagli alle pareti candide, e io non potei fare a meno di sentirmi incredibilmente fortunato.

    «Benvenuto nella tua nuova casa» disse Wallace. «Perfettamente equipaggiata di, be’, di tutto quello che vedi.»

    Si chinò ad allungare un colpetto sulla spalla della donna che occupava la scrivania adiacente alla mia. Lei fece ruotare la sedia scrutandomi torva. Era snella, bionda e decisamente attraente. Sulla quarantina, con un’aria da cosa diavolo vuoi? così perfetta che non potei fare a meno di pensare che si esercitasse davanti allo specchio. Indossava un top rosa e pinocchietti neri, e aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo. Niente fede e, a una seconda occhiata, niente reggiseno. Se Mya mi avesse chiesto com’era la mia vicina di scrivania, avrei dovuto mentire.

    «Paulina» disse Wallace, facendosi da parte perché potesse vedermi bene. «Ti presento Henry Parker. Questo è il suo primo giorno in redazione.»

    Lei arricciò il naso. «Si prende la vecchia scrivania di Phil?»

    Wallace tossì, vagamente imbarazzato. «Sì, prende la vecchia scrivania di Phil.»

    Paulina mi scrutò come se fossi un tabulato di stampante, poi tese la mano. La accettai: aveva una stretta moscia, apatica.

    «Benvenuto in questa gabbia di matti, ragazzo nuovo» disse.

    «Grazie. Sono eccitatissimo...»

    «Una bella sfortuna, beccarsi la scrivania di Phil. Gli hai detto cos’è successo a Phil, Wally?»

    Wallace sospirò. «Non ne ho ancora avuto la possibilità.»

    Paulina alzò le spalle. «Pessimo karma, Henry.» Mi guar-dò con aria inquisitrice. «Henry... Strano nome per un ragazzo così giovane. Com’è che te lo sei ritrovato sul gobbo?»

    «Ritrovato...?»

    «Cos’è, ai tuoi genitori non piacevi?» Dovette accorgersi che il mio sguardo si era indurito, perché di colpo fu tutta un sorriso. «Sto solo scherzando, Henry. Il tuo è un bellissimo nome. Mi piacciono le cose che si distinguono.» Apparentemente soddisfatta, si rivolse a Wallace. «È il ragazzo dell’Oregon, vero?» Tornò a guardarmi. «Wally mi ha detto che sei un acquisto coi fiocchi. È così?»

    Cercai di alleviare la tensione. «Già, pare che abbiano organizzato una svendita di giovani reporter. Wallace mi ha preso con un sconto del venticinque per cento.» Vidi Paulina scuotere la testa e Wallace distogliere lo sguardo e mi assestai mentalmente un calcio.

    «Non è divertente, Henry» disse Paulina. «Non sei qui da un tempo sufficiente a farti perdonare battute cretine.»

    «Spiacente. D’ora in poi, solo battute divertenti.»

    «O nessuna battuta.»

    «O nessuna battuta.»

    Sorrise, e io notai parecchie paia di scarpe sotto la sua scrivania. Scarpe rosse con i tacchi, scarpe da tennis logore, Birkenstock sformate dall’uso.

    «Se sei in gamba, terrai qualche paia di scarpe in ufficio» riprese lei. «Non si può mai sapere di quale storia dovrai occuparti senza preavviso. Bisogna essere sempre pronti.» Wallace annuì. Presi mentalmente nota di portare le mie vecchie Reebok.

    «Buona fortuna, Henry» aggiunse Paulina. «Wally è un brav’uomo. Dagli ascolto.»

    «Assolutamente.»

    Lei tornò a girarsi verso il PC e riprese a digitare.

    «È un’ottima giornalista» commentò piano Wallace. «Solo questo mese, ha beccato l’eroe del giorno sei volte.»

    «Sette» lo corresse Paulina. «Se incasini le mie prestazioni professionali, chiamo il mio avvocato.»

    «Eroe del giorno?» domandai.

    «Ogni giorno ha un eroe» spiegò Wallace. «È il nostro pezzo in prima pagina, l’attrazione principale, la storia che fa vendere. Un giorno è la guerra, quello dopo le elezioni, e il terzo il tizio che tiene in casa una tigre del Bengala o la celebrità beccata a farsi la babysitter.»

    «Ogni giorno ha bisogno di un eroe diverso» aggiunse Paulina. «In termini semplici, è la notizia del giorno. Senza, non c’è la notizia. I giornali non si vendono, la Gazette non incassa, noi veniamo tutti licenziati, e prima della fine del mese sei di nuovo nell’Oregon. Non solo; il reporter che nel corso dell’anno tira fuori più eroi, si becca un bel bonus. Quindi dacci dentro. Ci sono un sacco di sassi da rivoltare.»

    «Non preoccuparti» intervenne Wallace. «Avrai la tua chance. Ma per il momento, cerca di osservare come lavorano i tuoi nuovi colleghi. Non ti sarà facile trovare una voce e un equilibrio tuoi, ma ricorda, qui tutti hanno cominciato esattamente dove cominci tu. Mickey Mantle era un ragazzotto dell’Oklahoma prima di approdare negli Yankees. Presto, anche tu troverai per noi i tuoi eroi.» Si fece serio. «Contiamo su di te per individuare quelli che contano.»

    «Diversamente da quanto faceva Phil» interloquì Paulina.

    Wallace assentì, rassegnato. «Diversamente da Phil.»

    Decisi di non indagare. Quelli erano pettegolezzi da addetti ai lavori e io non mi ero ancora guadagnato il diritto di prendervi parte.

    «Bene, siediti» riprese Wallace. «Vediamo se quella vecchia scrivania ti si addice.»

    Consapevole di essere osservato, mi calai sulla sedia. Non era fatta per essere comoda, quanto per tenere un corpo in costante movimento. Concepita più per mantenerti sveglio che rilassato, ed ebbi la certezza che la mia schiena mi avrebbe odiato per questo.

    «Allora?»

    «È perfetta» risposi. Wallace rise.

    «Stronzate, ma presto ti ci abituerai. Vediamoci giovedì a pranzo. L’ufficio Risorse Umane ti darà tutte le informazioni necessarie sui benefit. Dammi uno squillo se ti serve qualcosa.» Proprio in quel momento una voce echeggiò nella sala.

    «Signor Langston! Rudy Giuliani sulla due.»

    «Merda» bofonchiò Wallace. «Dev’essere incazzato per il pezzo a pagina cinque.» Mi allungò una pacca sulla schiena. «Oh, Henry...»

    «Sì?»

    «Mai più giacca e cravatta. Sei un giornalista, non un broker. Lezione numero uno, le tue fonti vogliono sentire che sei al loro livello. Non un livello sopra.»

    Paulina si volse a guardarmi. «C’è dell’altro» disse.

    «Sì?»

    «Ricorda una cosa, e tienila a mente ogni volta che scriverai un pezzo. Per il novanta per cento questo lavoro consiste nel riferire il bene in relazione al male. E senza il male, andremmo tutti a casa.»

    2

    «È un bello spazio» disse Manuel Vega, introducendo la chiave nella serratura. Incontrò una certa resistenza, sorrise come se la cosa fosse intenzionale, quindi aprì la porta con la spalla. Dopo aver visto... e rifiutato... dodici appartamenti in meno di un mese, pregavo che questo rientrasse nel mio budget. E risultasse adatto a me.

    Mi aggredì un odore di muffa. Quando sfiorai lo stipite, ne caddero particelle di vernice bianca. Dal termosifone arrivava un suono raschiante. Mi cacciai le mani in tasca e serrai i denti. «E questo quanto costa?»

    «Novecentosettantacinque al mese. Sei mesi anticipati.»

    Era fattibile. Soprattutto, era l’unico che rientrasse anche solo lontanamente nelle mie possibilità, pur restando a Manhattan. Quasi tutti gli altri costavano il doppio e avevano più o meno le dimensioni di una culla. Al momento, quell’appartamento annidato nell’angolo nordoccidentale della Centododicesima con Amsterdam, dove l’unico lampione sembrava sul punto di esalare gli ultimi, era l’unico che potessi permettermi senza dovermi dare alla prostituzione. E se dovevo lavorare in un giornale, un giornale di New York, non volevo vivere in nessun’altra parte che in città. Se ero dentro, tanto valeva che ci fossi fino in fondo.

    Avevo passato le ultime tre settimane a casa della mia ragazza, Mya Loverne, e ogni secondo era stato gravido di una tensione quasi palpabile. Contavamo i momenti che mancavano al mio trasloco. La maggior parte delle coppie non vede l’ora di andare a vivere insieme, noi non vedevamo l’ora di separarci. In banca avevo ottomila bigliettoni, frutto delle estati passate a scrivere per il Bulletin a Bend e dei lavoretti saltuari con cui integravo la borsa di studio alla Cornell. Ci voleva tutto il mio controllo per tornare a casa al termine di ogni trimestre, ma non avrei potuto permettermi di trascorrere lontano le estati. Nell’Oregon non spendevo niente, potevo vivere come un fantasma nella mia stessa casa. Era l’unico modo per conservare la mia sanità mentale, entrare e uscire senza dire una parola all’uomo sul divano o alla donna che non poteva fare niente per fermarlo. Ottomila dollari erano tutto quello che avevo al mondo. Di certo non potevo aspettarmi uno stipendio mensile dall’uomo che avevo smesso di chiamare papà molti anni prima.

    Mya frequentava il secondo anno di legge alla Columbia. Suo padre, David Loverne, ex preside di giurisprudenza a Fordham, aveva guadagnato una fortuna cavalcando la bolla di Internet e vendendo prima che questa esplodesse. Inutile a dirsi, il futuro di Mya era programmato da un pezzo. I primi due anni della nostra relazione alla Cornell erano stati un sogno, e come un sogno erano finiti prima che ci rendessimo conto di quello che succedeva. Il terzo anno era assomigliato brutalmente al sudore freddo residuo di un incubo mai realmente conclusosi. Mya, di un anno maggiore di me, si era trasferita a New York dopo la laurea. Io ero rimasto nella gelida desolazione di Ithaca a guardare il nostro rapporto raffreddarsi.

    Era stato pochi mesi prima, in febbraio, che a quel rapporto era stata inferta una ferita mortale. Da allora, la cancrena di quell’orribile notte non aveva mai smesso di diffondersi e avvelenarci. Speravamo che la situazione sarebbe migliorata quando mi fossi trasferito in città, come quelle coppie in crisi che decidono di avere un figlio sperando che li riavvicini.

    Avevo trovato Manuel Vega su Craiglist, un network di annunci gratuiti. L’inserzione era a caratteri piccolissimi, quasi si vergognasse di mettersi in competizione con quelle più grandi e sfrontate.

    «L’appartamento lo ha visto, ora lo prende» disse Manuel, e presi di tasca un foglio e una penna, me li porse.

    «Ehi, un momento, amico. E se non lo volessi?»

    «Cos’ha che non va?» Sembrava aver preso le mie parole come un’offesa personale. «Ha quattro pareti, un soffitto, perfino un frigorifero.»

    Come discutere una logica simile?

    Il prezzo sembrava ragionevole, e in ogni caso non avevo alternative. Manuel si offrì persino di strizzarsi nel frigorifero per dimostrarne la capienza. Declinai educatamente.

    Dopo una breve indagine alla ricerca di insetti che non trovai, arrivò il momento di passare agli affari. Avevo bisogno di quello spazio, forse avrebbe riavvicinato Mya e me.

    «Sei mesi anticipati» commentai. «È un bel po’.» Incredibile, stavo per disfarmi di due terzi dei miei risparmi per un appartamento che sembrava l’unico testimone di un film dell’orrore per adolescenti.

    «Anticipati. Da versare subito.»

    «Se prendo l’appartamento» ribattei. Manuel si strinse nelle spalle.

    «Se non lo prende lei, lo prenderà qualcun altro domani.»

    «Davvero?»

    «L’annuncio l’ho messo ieri, amigo. Lei è la terza persona a vederlo oggi. Se compila l’assegno in giornata, forse dirò agli altri di filarsela.»

    «Dannazione» dissi, a voce un po’ tropo alta. «C’è un collegamento via cavo? È possibile installare Internet?»

    «Naturalmente» replicò Manuel con un largo sorriso pieno di denti. «Può avere tutto l’Internet che vuole.»

    «D’accordo» sibilai a denti stretti. «Lo prendo.»

    Presi

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