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Le Macerie Dentro
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E-book234 pagine3 ore

Le Macerie Dentro

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Info su questo ebook

Nelle pagine si racconta la storia di Arcangelo Zaccagna.
La ’ndrangheta lo ha ammaliato da bambino come una strana favola di magia, lo ha conquistato da adolescente con i suoi rituali di potenza e immortalità, lo ha risucchiato da adulto nelle sue spire tentacolari percorse da religiosità, rispetto, senso assoluto del potere.
Arcangelo Zaccagna si sente un dio all’interno del cerchio dell’Onorata Società. Uccide a sangue freddo, obbedisce ciecamente agli ordini, sfida la morte.
Ma l’Onorata Società genera mostri, assetati di sangue, pervasi da cecità ottundente. Risucchia la vita, divora l’umano, produce macerie, fisiche e spirituali.
Quando Arcangelo Zaccagna si sveglierà dal delirio di onnipotenza, sarà troppo tardi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2013
ISBN9788868220846
Le Macerie Dentro
Autore

Carlo Simonelli

Carlo Simonelli nasce a Tropea (VV) nel 1970. Frequenta il liceo classico “P. Galluppi” a Tropea diplomandosi nel 1988. Nel 1995, la ricerca di nuove frontiere lo porta in Svizzera dove tutt’ora risiede. Nel 1998 ottiene la cattedra in Educazione Fisica e Italiano in una Scuola Media di Berna (Svizzera). Nel 2003 ottiene la cattedra d’Educazione Fisica e Italiano in un ginnasio e un liceo di Berna. Nel 2008 avviene la sua prima pubblicazione I segreti del bosco di Nino. Nel 2009 viene pubblicato La festa del santo, il suo secondo romanzo.

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    Le Macerie Dentro - Carlo Simonelli

    Manzoni

    I

    La macchina correva sulla strada tortuosa verso il basso e poi di nuovo in alto, sui leggeri pendii superando i dossi, per poi ridiscendere. Mi era sempre piaciuto guidare d’estate. Con l’aria calda che mi carezzava i capelli e il tramonto che rischiarava l’orizzonte, mentre la luce, sempre più fievole, dava un altro colore alle cose, pigra calò la sera. Fu proprio allora che decisi di abbandonare il luogo in cui mi trovavo per il programma di protezione.

    Percorrevo volentieri quella strada a ridosso di un lago annegato di colori, come un piccolo mare che mi richiamava alla mia terra.

    Fino a qualche mese prima non potevo nemmeno immaginare che quel lago esistesse. Sulla carta geografica, guardandolo, mi era sembrato un punto sperduto e lontano da tutto. Ma doveva essere così, lontano da tutto.

    In quei mesi ero tornato a casa sempre per altre vie, come un turista voglioso di esplorare il posto dove si trovava in vacanza e, nel poco tempo che ha a disposizione, percorre ogni volta strade diverse. Facevo pure io così, ma non ero lì per svago. Cambiavo ogni volta percorso, ma dovevo fare una via obbligata nei pressi della casa dove risiedevo.

    Li avevo avvistati da lontano, quasi per deformazione professionale. Mi tornarono in mente subito le scene di film che avevano contribuito a farmi da scuola; dove l’ignaro malcapitato veniva crivellato di proiettili da sicari travestiti da poliziotti. La vittima, nei film, non si accorge mai di nulla nonostante la trappola sia evidente, immersa nei suoi pensieri non sente la musica di sottofondo che si fa sempre più inquietante e che culminerà con la sua eliminazione.

    Questo sospetto mi prendeva ogni volta che vedevo macchine della polizia in luoghi isolati. È un’inquietudine dell’animo che mi rendeva nervoso, guardingo, che mi opprimeva; mi faceva stare attaccato alla vita più che mai, necessaria, se volevo sopravvivere in questo mondo spietato. È così, quando sai che ogni momento può essere l’ultimo ma non ci credi veramente, fino a quando non ti trovi riverso a terra e tutta la tua vita si è consumata in pochi istanti di odio.

    L’auto colorata d’azzurro e di bianco si vedeva bene. Rallentai un poco, sforzando gli occhi per guardare meglio. La polizia. Di per sé non sarebbe stato un problema ma li volevo guardare bene, volevo vedere come si muovevano, osservavo i loro gesti. Pareva che non facessero nulla di inusuale e questo un poco mi rincuorò. Uno dei due mi fece segno di accostare con la paletta, qui l’ansia mi salì ancor di più e cercai di studiarli meglio. Controllai che le loro mani non facessero movimenti bruschi. Osservavo tutto come al rallentatore, con gli occhi che si fermavano su ogni dettaglio che mi potesse suggerire la verità, che potesse smascherare un inganno, tutto mi sembrava in bianco e nero. Erano veri poliziotti? Non lo sapevo. Ma ormai ero quasi fermo e anche se poliziotti non fossero stati non avrei avuto il tempo di scappare.

    «Patente e libretto» mi disse uno dei due mentre seguivo l’altro con gli occhi nello specchietto, andò dietro la macchina, l’osservò con attenzione, si chinò a toccare la targa. Gli porsi i documenti senza perdere di vista l’altro poliziotto che, dopo avere fatto un giro attorno all’auto, si sedette nella gazzella controllando le carte che il collega gli aveva portato. Era tutto in regola, non c’era da preoccuparsi. Erano poliziotti veri. E nella gazzella, per un momento, mi era sembrato di vedere Patrizia e Pino, seduti sui sedili posteriori con degli occhi grandi e immobili. La mia attenzione ritornò al poliziotto.

    «Ecco i suoi documenti, signor Zaccagna». Io li presi senza rispondere, guardando quelle mani indaffarate che si affrettavano a concludere il controllo.

    Che ci facevo in quel luogo? Ci avevo pensato tutta la settimana. Era lì il mio futuro? No, avevo da poco deciso che poteva esserci un futuro solo se avessi scavato col piccone nel mio passato, in parte da distruggere. Avrei dovuto scavare in profondità e poi abbattere il muro oltre il quale non vedevo e che mi portava alla disperazione.

    Non mi ero mai spinto così lontano dal luogo di soggiorno e lasciavo che fosse la macchina a condurmi in un posto qualsiasi. Il tachimetro scandiva i chilometri e quando finalmente il sole sbiadì e si fecero strada le tenebre, io continuavo la mia corsa verso un futuro ignoto e buio come quella notte senza luna.

    Non aveva senso quel programma se per protezione s’intendeva semplicemente tenermi nascosto. Non avevo una scorta e non avevo armi. La mia unica protezione consisteva nel non farmi trovare. Ma il mondo è più piccolo di quel che si pensa e un giorno qualcuno m’avrebbe visto e la notizia, passata di bocca in bocca, sarebbe giunta all’orecchio del capoclan. Era solo questione di tempo, c’era solo da chiedersi quando sarebbe successo, ma era certo che prima o poi sarebbe avvenuto. Non era questa la protezione che lo Stato m’aveva promesso, non era questo il patto che avevamo stretto. Il giudice non aveva più voce nei labirinti tortuosi di questo programma, dove troppi avevano messo le mani. Ma degli altri non mi fidavo, ero sicuro che prima o poi sarei stato sacrificato sull’altare di un bisogno più grande, sulla necessità di uno scambio di favori o di prigionieri tra due governi che si giocano a carte la vita degli altri e che su quelle vite e quelle morti costruiscono il proprio benessere e il proprio successo.

    II

    Il carabiniere mi fece accomodare in una saletta e dopo qualche minuto ricomparve con quell’individuo che sembrava piuttosto nervoso e impacciato. Ero uscito di casa di buon mattino ma dopo una mezz’ora di traffico mi ero dovuto affrettare per riuscire a presentarmi in orario, come concordato, in quell’anonima caserma dei carabinieri in Lombardia.

    Non sapevo come immaginarmelo il tizio, non sai mai come immaginarti gente così, della quale si sente parlare ma che non viene mai ritratta in foto. La sua figura, conosciuta attraverso la lettura di articoli e inchieste, famigerata eppure allo stesso tempo assolutamente anonima, mi si parò davanti come se quell’incontro fosse stato fortuito. Mai avrei pensato di ascoltare una storia simile e ciò su mia precisa richiesta alle autorità competenti, seguendo una lunga procedura burocratica.

    L’uomo mi sorprese subito per l’abbigliamento un po’ sciatto mentre con passo remissivo avanzava nel suo completo tra il verde scuro e il marrone avana, indossando una camicia a righe, un orologio costoso al polso sinistro e un bracciale d’oro a quello destro; le scarpe di cuoio erano vecchie ma ben pulite; non portava cravatta e due bottoni del colletto della camicia erano aperti così come le maniche. I capelli erano molto corti e tagliati da poco, forse il giorno prima. Aveva due sopraccigli neri e folti che gli dividevano la fronte sfuggente e si andavano man mano alzando ai lati, verso le tempie, dando a quello sguardo qualcosa d’inquietante. Gli zigomi spuntavano spigolosi sul volto secco, così da far apparire gli occhi un po’ incavati e la mandibola sproporzionatamente grande e larga. Il collaboratore di giustizia era di statura molto alta, sicuramente almeno un metro e ottantacinque, e una muscolatura sviluppata indicava un regolare esercizio fisico. Era uno di quei tipi che Cesare Lombroso non avrebbe avuto alcuna difficoltà a classificare a prima vista.

    Speravo di ottenere aiuto in una faccenda che mi stava a cuore. Avevo bisogno del suo assenso per poter realizzare il progetto di scrivere un libro sulla sua vita e più in generale sulla ‘ndrangheta, la famigerata mafia calabrese, cosa che il mio editore mi aveva esortato più volte a fare nell’intento di trovare nuovi sbocchi alla stagnazione del mercato; questa mi era sembrata una buona idea.

    Si sedette imbarazzato dopo avermi stretto la mano senza nemmeno guardarmi in viso, con i pensieri ritirati in qualche incavo lontano della sua mente. Fece una smorfia di compiacimento per l’offerta alla quale forse non aveva nemmeno prestato attenzione, ma intuivo che non sembrava intenzionato ad accettare. Gli spiegai ancora una volta ciò che avrei voluto fare e quale avrebbe dovuto essere il suo ruolo, con le parole più convincenti che mi ritrovai in quel momento. Ascoltava disattento, aspettando il termine del colloquio, fin quando, mentre accennavo a ciò che avevo sentito circa i suoi familiari, un lampo gli balenò nel volto che si fece d’improvviso vivo e allora mi guardò prima di aprire bocca e i suoi occhi penetrarono i miei mentre avvertivo un impercettibile malessere. Ancora oggi, a distanza di tempo, mi pare di sentire l’esordio di quella sua voce squillante e leggermente nasale e sento un affanno pesarmi sul petto.

    «Che devo fare?» domandò «Non so come si scrive un libro. Di cose da raccontare ne ho a non finire ma a scrivere… non sono tanto abituato».

    «Non si deve preoccupare» lo rincuorai felice che uno spiraglio sembrava si fosse aperto nel suo animo «questo è il mio lavoro. Lei mi racconta la sua vita, io la metto insieme, poi la rilegge e la può cambiare in quelle parti che ho frainteso o che le risultano inesatte. Può approfondire quei fatti che le sembra che io abbia tralasciato o riportato in modo incompleto». Niente poté farlo più felice che quest’ultima frase e compresi che la titubanza iniziale era dovuta al timore di dover scrivere da solo tutta la storia.

    Dopo questo primo colloquio ci incontrammo altre volte, facendo ore di interviste e registrazioni e, quando ebbi raccolto abbastanza materiale sul quale lavorare, cominciai la stesura di questo libro.

    Il nome Arcangelo Zaccagna, con il quale chiamerò il collaboratore di giustizia, è uno pseudonimo fantasioso al quale sono costretto a ricorrere, così come fittizi sono i nomi di persone e spesso di luoghi usati. Fin quando il processo in corso non sarà finito, e probabilmente questo libro sarà pubblicato prima del terzo e definitivo grado di giudizio, tutti i veri nomi rimarranno sconosciuti. Questi sono i miei omissis.

    Io cercherò di starmene in disparte e fare raccontare a Zaccagna tutto in prima persona, come l’ha raccontato lui stesso e so già che sarà un’impresa difficile perché io, da giornalista indipendente, un’analisi delle vicende vorrei pure farla, ma mi preme di più la verità dei fatti vissuti di prima mano del collaboratore che m’informò in modo dettagliato sugli avvenimenti che allungavano la loro cupa ombra sull’arco di quasi un terzo di storia d’Italia. Raccontando di come la sua cosca fosse cresciuta, alleandosi alle altre, e di come fosse riuscita a sostituirsi in modo impercettibile, lento, in uno stillicidio di collusioni, alle istituzioni. Riferendo della metamorfosi da una criminalità ignorante e primitiva alla multinazionale del malaffare e narrando gli interessi che la cosca aveva perseguito e le attività criminali nelle quali era implicata.

    Zaccagna m’introdusse in un mondo nuovo, fino a quel momento conosciuto in modo approssimativo solo dalla cronaca locale di qualche piccolo quotidiano di provincia che gridava le proprie accuse nel frastuono di un uragano sordo, inascoltato o ignorato dai grandi giornali. Davanti a lui provavo un senso di vuoto e di vertigine per tutto ciò che fino allora, di proposito o per superficialità, era stato taciuto da chi avrebbe dovuto opporsi e avrebbe avuto la forza per farlo. Come virus malefici si nascondevano a legioni in mezzo a una popolazione portatrice sana di prevaricazione, traendo dalla gente la loro stessa energia vitale. Un mondo celato e maligno si annidava tra gli uomini scrivendo l’amaro destino che aveva condannato e condannava ancora un popolo a vivere, soggiogato, nel timore di una parola o un pensiero di troppo.

    Non ci sarebbe da stupirsi se col tempo nuovi fatti si aggiungessero ai vecchi e se questi venissero in parte modificati. In alcuni punti, il racconto del collaboratore di giustizia appare confuso, offuscato, frammentario, inesatto. Forse perché dal luogo dove egli conduceva la sua seconda vita, di tanto in tanto doveva fare delle testimonianze per poter godere di quel regime. Delatore a singhiozzo e a tempo indeterminato in modo da contrattare di volta in volta nuovi benefici con le istituzioni. L’importante era il susseguirsi parsimonioso, oculato e saggiamente incompleto, nel far dichiarazioni.

    Mentre lui dettava, io mettevo insieme quelle parole e quelle vicende che uscendo dalla sua bocca andavano a incastrarsi come tasselli in un perfido gioco di morte.

    Tante cose sono ancora oggi incomprensibili per me che sono di Torino. Nato e cresciuto parlando di Savoia, di Fiat e di Nebbiolo. Tante cose mi sfuggono perché sfuggono alla mia logica alla cui base c’è sempre stata la ferma convinzione nel progresso del genere umano e quindi non fanno parte del mio retaggio culturale. Non rientrano nella struttura del mio mondo che forse è stato finora troppo angusto e idealista scollandosi da una certa oggettività delle cose. Queste realtà, però, esistono e volendo scrivere con onestà intellettuale, ho cercato di seguire il filo degli eventi per capirne le ragioni che le hanno generate, così da poterne comprendere i motivi profondi.

    Ho provato ad analizzare e interpretare i fatti in modo obiettivo per poter continuare ad avere la convinzione che, oggi in verità in me vacilla, gli uomini vadano incontro a una civiltà che non conosce regresso.

    «Da dove comincio? Dall’arresto?» chiese giocando con un pacchetto di sigarette tra le dita.

    «Può cominciare da dove vuole» dissi io per farlo sentire a suo agio mentre accendevo il registratore posandolo sul tavolo.

    «No, meglio raccontare tutto dall’inizio» rispose il collaboratore, cominciando così il suo racconto.

    III

    Sono nato a V. in un ospedale cadente, conosciuto più per i suoi disservizi e per la morte di pazienti anche per operazioni di routine. Quando ci si sente male, se non si conosce la persona giusta, è meglio starsene a casa propria e morire tranquilli lì, nel proprio letto, invece di trovarsi in mezzo a infermieri che nemmeno ti guardano e a medici che ti lasciano crepare. In quest’ospedale ci sarei tornato più di una volta per necessità. Il trattamento che mi veniva riservato, però, andava di volta in volta crescendo e non aveva niente a che vedere con quello dato ai normali pazienti.

    Alla nascita ancora non sapevo che, giunto a casa avrei trovato già altri tre fratelli con i quali dividere l’appartamento in affitto di tre stanze. Mia sorella Domenica era la più grande, mi passava cinque anni. Poi c’erano Alfonso e Roberto che si passavano un anno tra di loro, poi c’ero io e dopo di me le mie sorelle più piccole, Rosa e Carmela.

    I primi ricordi risalgono a quando avevo circa cinque anni. Eravamo in tre a giocare in strada a nascondino, le mie sorelle più piccole e io, quando, da un cancello lì vicino entrai in un giardino per nascondermi. Mentre ero acquattato dietro una pianta, con Carmela attaccata a me e Rosa che ci cercava, spuntò il figlio dei proprietari, Vincenzo, che aveva circa otto anni. Ricordo ancora molto bene il sussulto che ebbi al suo grido «Che fate qui? Eh!?» ci mancò poco che mi venisse un colpo. Carmela si mise a piangere mentre io cercavo di giustificarmi sapendo bene di non dover entrare là dentro ma il nascondiglio mi aveva attirato in trappola. «Giocavamo a nascondino» risposi con la voce che sembrava uscirmi dai piedi. «A nascondino giochi a casa tua!» mi gridò Vincenzo, mettendomi ancora più paura di prima. Poi mi afferrò per un orecchio tirandomi fuori verso la strada. Carmela piangeva e mi stava attaccata. Con uno strattone cercai di liberarmi da quella mano che mi faceva male e gli diedi una spinta.

    «Come ti permetti?» mi disse guardandomi con gli occhi animosi per poi tirare un calcio nella schiena a me e uno a Carmela. Scappammo col bestione che ci inseguiva dandoci calci e schiaffi. Rosa ci aveva visti uscire di corsa e dietro a noi quel cane da guardia che digrignava i denti e la gioia di averci trovati fu breve. Capì subito cosa stava succedendo e scappò a casa senza sapere cosa fare.

    Intanto Vincenzo mi aveva afferrato dal collo della maglietta, dietro la schiena, avvisandomi «Non ti voglio più vedere qua dentro, capito? Altrimenti ti do il resto. Hai capito?» poi gridò ancora una volta più forte «Hai capito?» per assicurarsi che il suo comando fosse legge per me. Io annuii, guardandolo in faccia con un’espressione di paura e di rancore. A lui questo forse non piacque e avvicinandosi mi ringhiò ancora «E se lo dici a qualcuno ti do il resto» prima di congedarmi con un ultimo calcio nel sedere.

    Quando arrivammo a casa Carmela piangeva ancora e Rosa stava sulla porta ad aspettarci. Io non avrei raccontato niente a nessuno ma Rosa disse ad Alfonso e a Roberto di non andare da Vincenzo che era cattivo e che aveva già picchiato Carmela e me. Loro mi chiesero se fosse vero ed io in un primo momento negai, ricordavo ancora bene la minaccia di Vincenzo, ma insistettero e alla fine raccontai tutto, anche che mi aveva imposto il silenzio: pena altre botte.

    Il giorno dopo i miei fratelli mi portarono con loro: mi dovevano mostrare una cosa, dissero. Rimanemmo un po’ in strada fino a quando Roberto mi chiese di aspettare lì e andò verso il cancello che avevo violato il giorno prima. Alfonso era nascosto dietro un angolo. Dopo nemmeno un minuto, Roberto usciva di corsa inseguito da Vincenzo. Correva verso di me che avevo il cuore in gola. Quando mi raggiunse, si fermò e si girò verso di lui.

    «Non ti fare più vedere là dentro, ladro» urlò Vincenzo.

    «Perché? Se no?»

    «Se no ti faccio la passata che ho già fatto a tuo fratello».

    «Fammela» rispose lui «sono qua. Che aspetti, ah?» Quella era più una minaccia che un’intenzione vera e propria e Vincenzo rimaneva fermo, convinto di metterci una gran paura. Io, in effetti, ce l’avevo, ma Roberto no.

    «Allora? Sto aspettando». I due si fronteggiavano studiandosi a vicenda. A un tratto vidi Alfonso saltargli alle spalle come una tigre e capii perché s’era nascosto: lo volevano stanare. Se avesse visto entrambi non sarebbe uscito allo scoperto a cuor leggero. Anche Roberto si buttò addosso al malandrino di carta a tirargli calci e pugni mentre Alfonso gli stringeva un braccio al collo, da dietro le spalle. Con un pugno l’avevano sicuramente colpito bene perché

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