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Morte di un trapper
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E-book170 pagine2 ore

Morte di un trapper

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Info su questo ebook

X passa le sue giornate fumando marijuana e vendendo on-line sneakers rare prima di diventare un detective privato pagato per risolvere un caso. Vent’anni fa era un rapper famoso, quando ancora la musica hip hop non era in classifica, e il suo unico disco gli ha permesso di ottenere lo status di “artista di culto”, rispettato e ascoltato anche dalle nuove generazioni. Sulla copertina di quel famoso album c’era lui con una felpa col cappuccio e una “X” tatuata sul collo.

Oggi quel tatuaggio appare sul collo di Aelle, il ragazzo ucciso di cui parlano tutti i giornali. E che è uguale a lui vent’anni fa. Come resistere alla tentazione di andare al funerale, per scoprire che il vero nome di Aelle è Aliseo Landini Della Santa? Figlio di Nicola Landini Della Santa, milionario. L’uomo che oggi gli offre cento euro l’ora per indagare sulla morte del figlio, e duecentomila in caso di soluzione del mistero. Un’offerta che non si può rifiutare. È solo l’inizio di un’indagine che lo porterà a toccare con mano gli splendori e le miserie della Milano di oggi, tra attici in centro e panchine in periferia, a rischiare la vita, e a incontrare l’amore. Sempre a tempo di rap.

Sospeso tra il mondo dei Club Dogo e quello di Raymond Chandler, con un eroe che sembra l’impossibile punto di incontro tra Humphrey Bogart e Fabri Fibra, Morte di un trapper è l’esordio nel noir di Giovanni Robertini, che conosce bene dall’interno il mondo dell’hip hop italiano. Un libro unico, ambientato in una Milano che ricorda la Los Angeles dei romanzi di James Ellroy o del film Chinatown di Roman Polanski.

LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2023
ISBN9788830592957
Morte di un trapper

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    Anteprima del libro

    Morte di un trapper - Giovanni Robertini

    TRACK 1

    Mi sono svegliato con il pling! di una notifica, qualcuno in Danimarca si era appena comprato un pezzo della mia collezione di sneaker su una app per maniaci del genere, a cui sono iscritto con un nickname abbastanza stupido ma coerente al contesto: Mutombo, in omaggio a Dikembe Mutombo, giocatore di basket NBA famoso per avere un piede gigante, taglia 22, un record che condivideva negli anni Novanta con Shaquille O’Neal. Ho un nickname per tutto, dai profili social alle chat di WhatsApp, ne ho così tanti che il mio vero nome è chiuso dimenticato dentro un cassetto, scritto su una carta d’identità probabilmente scaduta.

    Tutti mi conoscono con un nome che non è quello registrato all’anagrafe. E quando dico che tutti mi conoscono, significa proprio tutti. Sono famoso, e sono stato molto famoso. Quindici anni fa ho pubblicato un disco che ancora oggi è scaricato, e non solo sui siti pirata, a pagamento. Almeno una dozzina di spot pubblicitari, dalle capsule per la lavastoviglie ai motorini elettrici, hanno usato le mie canzoni, alcune sono diventate sigle di programmi televisivi, talk politici o show di cucina. La mia faccia invece se la ricordano in pochi, non perché anonima, è una bella faccia di cazzo. L’avevo messa sulla copertina del mio unico disco di quindici anni fa, che è stato d’oro, di platino, di diamante, e che per me è solo merda. Merda rap, perché è quello che so fare, sono stato uno dei primi, ho aperto la strada a molti, proprio quando si stava chiudendo la mia. Nella foto per l’album ho il cappuccio calato sulla fronte e sono vestito come oggi, ieri, sempre. È la mia divisa, la tuta, soldato semplice dell’esercito che non deve rendere conto di niente a nessuno. Ora è di moda, ma quando ho iniziato era quasi un gesto politico indossarla, un chiamarsi fuori dalla competizione della società della performance. Vabbè, è una tuta, comunque, comoda, ne ho centinaia uguali, cambia solo il marchio.

    E mentre mi accendo la prima canna del mattino, guardando le notizie sul tablet, eccomi di nuovo.

    Pazzesco.

    Stessa faccia, un po’, un bel po’ più giovane di quella che vedo riflessa nelle vetrate del mio attico di cinquanta metri quadri, pochi ma cari. Col pollice e l’indice allargo l’immagine e a momenti svengo. Sul collo, appena sotto il mento, c’è un piccolo tatuaggio, una X. Non ha un significato, in realtà l’idea originale era quella di farsi tatuare dei tentacoli di piovra, come se mi stessero strozzando. Solo che non avevo idea del male che facesse in quel punto del corpo, mi ero arreso subito al dolore implorando il tatuatore di fermarsi. La X è il segno indelebile di un tentativo interrotto, e così ho chiamato il mio disco, l’unico, X. Tocco con le dita le due stanghette d’inchiostro, stringo la pelle come per strapparmela, un pizzicotto che mi svegli da questo incubo. La foto che ho ingrandito fino a spappolarla è quella del ragazzo trovato morto ieri sera davanti al McDonald’s: l’articolo non riporta il nome, sole le iniziali, AL, ma preferisco scrivere Aelle.

    Perché Aelle è un buon nickname per questa storia.

    TRACK 2

    Ho solo due cose da fare oggi: spedire il pacco con le scarpe al danese e andare dallo strizza. Questo commercio in rete sta funzionando, tra edizioni limitate, rarità e pezzi vintage rastrello quello che mi basta a pagare le sedute, l’erba e i delivery al ristorante cino-giappo. Ho ancora un po’ di soldi sul conto ma non li tocco, sono quelli per l’anticipo del nuovo disco, ne ho già intascati quattro, disattendendo poi gli impegni presi con le case discografiche. Firmavo un contratto, mi facevo dare i soldi e poi sparivo. Dopo un po’ firmavo per un’altra etichetta, altri soldi, e così via. Ma questa aveva tutta l’aria di essere l’ultima possibilità, la truffa era stata scoperta e nessuno mi avrebbe più dato fiducia, né tantomeno denaro. Già dovevo supplicare gli avvocati di difendermi senza chiedere troppi soldi.

    Faccio la doccia con i flaconcini dell’hotel di Tenerife dove mi sono rintanato l’inverno scorso per produrre nuova musica. Sono tornato gonfio di Sangria, con due asciugamani rubati e neanche una rima. È la maledizione delle hit, quando ne hai fatte un sacco al primo giro come me poi non ti vengono più, o almeno così credi, entri nel tunnel dell’insicurezza, ascolti i nuovi rapper e ti sembra che abbiano tutti qualcosa da dire, e che lo dicano meglio di te. Mi sento anziano, ora vanno la trap, la drill, io sono vecchia scuola, c’è troppa concorrenza. Ai miei tempi i ragazzini sognavano di fare i calciatori, ora vogliono fare i rapper, comprarsi la collana d’oro, la macchina con i controcazzi, scopare, swaggare, sciabolare. Statisticamente è meglio provare la prima strada, magari non diventi Ibrahimović ma il campionato di Serie A ha venti squadre, poi c’è la B, la C, guadagni pure nelle serie minori. Nella musica invece ce la fanno in pochissimi, e sei fuori gioco anche senza infortunarti, è sufficiente passare di moda. Nello spazio sempre più breve tra essere la nuova promessa dell’hip hop e fare venti paganti sfigati in un pub dimenticato da Dio mi ero ritagliato l’effimero status di artista di culto. Chissà fino a quando, la data di scadenza non è scritta ma la puzza di disgrazia è molto simile a quella dei noodles pollo e zenzero che ho dimenticato in frigo da settimane.

    Di questo e di altre paranoie parlo con lo strizza, mi ha costretto a dargli del lei, ok ho detto, però mi viene sempre da chiamarlo Zio, o Fra’, perché è così che chiamo le persone che mi sono più vicine, le altre sono il Tipo e la Tipa, meno confidenza. Usavo anche Amo, amore, ma è un po’ che non capita l’occasione, o la tipa. Vabbè, ci siamo capiti.

    «L’ultima volta, settimana scorsa, mi stava raccontando che non riesce più a ricordare le parole delle sue canzoni.»

    «No, fra’, non crederà a cosa è successo l’altra sera.»

    Cambio discorso e gli racconto la storia di Aelle, aveva ventidue anni e dopo ore passate a cercare notizie in rete ancora non è chiara la causa della morte. Dicono arresto cardiaco per un mix di alcol e droghe, devono ancora fare i test tossicologici. Pare fosse iscritto all’università, anche se nessuno dei suoi compagni di facoltà se lo ricorda, nemmeno i professori, evidentemente non ci andava. Gli unici indizi sono quelli lasciati nel telefonino che aveva nel borsello, quello col baffo.

    «Fra’, sono io, sono morto, altrimenti come spiega il tatuaggio? Non è un cazzo di transfert, il mio inconscio è lindo come le Jordan che ho ai piedi. La mia identità ha fatto harakiri con l’ossicodone e altra roba appena dopo aver pubblicato il disco, quindici anni fa. E ora sono uno zombie nel corpo di chissà chi, che assiste all’autopsia sul suo cadavere. Non c’è altra spiegazione.»

    «Ha fumato prima di venire qui?»

    «Sì, e fumerò anche dopo. Voglio vederci chiaro in questa storia.»

    TRACK 3

    Ogni giorno ha la sua parola, quella di oggi è talento. Un rapper ci bada, a queste cose. La prima volta, stamattina, l’ho detta io alla figlia del barista sotto casa: «Hai del talento», un caffè così buono, ben pressato, né lungo né corto, suo padre non è capace di farlo. La seconda me l’ha detta il personal trainer in palestra alla centesima flessione senza fiatare: «Hai un buon talento per la sofferenza». La terza a pranzo, il solito fra’ che serve ai tavoli dopo avermi visto ammazzare tre mosche schiacciandole stecchite sul tavolo al primo colpo. In effetti ho una rara predisposizione per uccidere gli insetti, potrei partecipare a dei tornei, se esistessero. Esisteranno. La quarta la leggo su un giornale unto mentre mordo un toast, in un’intervista a un drillerino di diciassette anni. L’ho già sentito abbaiare fuori tempo in qualche video su YouTube, ora è primo nella classifica degli album più venduti e sicuramente non ci resterà per più di trenta settimane consecutive com’è successo a me. Vabbè, il tipo racconta la solita palla che da quando ha imparato a camminare ha sentito l’ispirazione, la musica è una visione ma non è nulla senza il talento, ringrazia tizio e caio che l’hanno aiutato a uscire dal ghetto, a diventare quello che è. Puttanate. Sono tutti uguali: cacciano le loro rime banali su quanta sfiga hanno avuto a nascere in un posto del cazzo, senza futuro e senza neanche una T-shirt di Balenciaga e promettono di comprare casa alla mamma – i padri non esistono – non appena avranno fatto il cash con la musica. Lo sappiamo che spenderanno tutto in magnum di Belvedere, Daytona, bamba, vacanze a Ibiza, profumi che non gli leveranno mai l’odore della strada da dove sono venuti e dove torneranno. Quello che chiamano talento è un incidente di percorso, la tappa di una via crucis a senso unico verso l’oblio. Poi c’è la fortuna, il caso, il caos. È meglio pensare di non averlo affatto, il talento, altrimenti sono solo guai, è tossico. Chissà che talento speciale pensava di avere il ragazzo morto davanti a McDonald’s. Un’overdose è un buon indizio, droga e talento vanno spesso in coppia. Oggi sembra diventata una materia obbligatoria a scuola, storia, geografia, matematica e… talento.

    E i professori di fallimento come me sono disoccupati.

    Il giornale non solo è zeppo d’olio, ma è anche di ieri. Prendo il cellulare e mi metto a cercare qualcosa che possa sfamare la mia ansia.

    Il Giorno lo mette in homepage, una foto così grande del corpo steso a terra e coperto da un lenzuolo che riesco perfino a riconoscere il modello delle sue Jordan, una Capsule rara che non trovi in giro a meno di seicento euro. Questo non vuol dire che non sia un poveraccio, oggi una sneaker costosa è il minimo sindacale per sopravvivere. Leggo e sono subito smentito. Aelle proviene da una famiglia importante, con intrallazzi nel mondo della politica, della finanza e dell’arte. Con una casa in centro, lo studio del padre nei nuovi palazzi di quell’architetto giapponese e la Fondazione della madre nel quartiere degli artisti e delle gallerie.

    Perché la vita di Aelle sia finita così è un mistero. Un mistero è anche perché abbia preso quella direzione, distante dal presente e dal futuro che i suoi genitori avevano in mente per lui.

    Gli articoli di Libero e Il Foglio non fanno che parlare di disagio giovanile, di periferia e baby gang, droga immigrazione emergenza, rap, drill e di una generazione persa, senza valori. Un sito di quelli creati apposta per acchiappare click titola Morte di un trapper... Ma quale trapper? Quale cazzo di trapper? Non ha mai fatto musica, perché scrivono cose a caso?

    Che nervoso. Nessuno che parli degli amici di Aelle, di cosa faceva davvero nella vita, della X tatuata sul collo. Sono cresciuto guardando La signora in giallo e so per certo che con questi indizi Jessica Fletcher se ne sarebbe stata a casa. Chi gli ha venduto la droga? Era troppa o era tagliata male? Aveva ventidue anni, non era un cardiopatico ciccione fatto di coca, un’overdose così o te la cerchi col lanternino o c’è dell’altro. Parlo per esperienza. Certo, ancora non ci sono tracce del contenuto del suo telefono, chiamate, messaggi, storie. Le indagini sono in corso, le prove secretate. Sul Corriere, nella pagina dei necrologi, ci sono solo doppi cognomi, roba da ricchi, probabilmente amici di famiglia che si saranno chiesti come mai non l’avessero rinchiuso prima in un collegio svizzero o in una comunità per tossici nel Sud della Francia, all’aria aperta, corse a cavallo, lavori di falegnameria, l’orto da coltivare per qualche migliaio di euro

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