Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

il quarto vangelo: la testimonianza del discepolo che Gesù amava
il quarto vangelo: la testimonianza del discepolo che Gesù amava
il quarto vangelo: la testimonianza del discepolo che Gesù amava
E-book652 pagine9 ore

il quarto vangelo: la testimonianza del discepolo che Gesù amava

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il Vangelo secondo Giovanni dal Prologo fino ai capitoli sulla Risurrezione
 
Il volume "IL QUARTO VANGELO – La testimonianza del «discepolo che Gesù amava»" offre la trascrizione di diciotto relazioni che don Maurizio ha tenute sul Vangelo secondo Giovanni e che spaziano dal Prologo fino ai capitoli sulla Risurrezione.Davvero apprezzabile è il modo in cui l’Autore, in ogni relazione, riesce a unire la serietà e l’intelligenza dello studioso esperto con una semplicità e una chiarezza di linguaggio che permettono a tutti di capire l’animo dell’evangelista Giovanni. 

Don Maurizio Marcheselli (Ferrara, 1961) è un presbitero dell’Arcidiocesi di Bologna. Ha preso la Licenza in Sacra Scrittura presso il “Pontificio Istituto Biblico” in Roma nel 1990 e successivamente il Dottorato in Sacra Scrittura presso il “Pontificio Istituto Biblico” nel 2004. È docente ordinario di Nuovo Testamento presso la “Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna” (Bologna). È direttore della Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione (Bologna) e collabora con altre pubblicazioni, quali Rivista Biblica e Parole di Vita. È specialista del Vangelo secondo Giovanni, sul quale spesso è chiamato a parlare in tutta Italia. Il presente volume nasce proprio dalla sua disponibilità e della sua generosità ad accettare di spiegare il Quarto Vangelo con rigore e semplicità a chi glielo chieda.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9791220290166
il quarto vangelo: la testimonianza del discepolo che Gesù amava

Correlato a il quarto vangelo

Ebook correlati

Cristianesimo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su il quarto vangelo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    il quarto vangelo - Maurizio Marcheselli

    1.png

    Sussidi Biblici

    Maurizio Marcheselli

    Il Quarto Vangelo

    La testimonianza del «discepolo che Gesù amava»

    commenti scelti dal curatore

    Aldo Peri

    Edizioni San Lorenzo

    © Edizioni San Lorenzo

    Proprietà letteraria riservata

    Edizioni San Lorenzo

    ®

    via Gandhi, 18a/b

    42123 Reggio Emilia - C.P. 181

    tel. e fax: 0522.323.140

    www.edizionisanlorenzo.it

    mail: edizionisanlorenzo@gmail.com

    facebook: Edizioni San Lorenzo

    instagram: @edizionisanlorenzo

    twitter: #edizionisanlorenzo

    youtube: edizioni san lorenzo

    Prima edizione gennaio 2021

    Stampato per conto di Edizioni San Lorenzo

    su carte e con inchiostri ecologici

    da Centro Stampa SLE - Reggio Emilia

    progetto grafico: StudioForte - Reggio Emilia

    SUSSIDI BIBLICI

    Periodico Trimestrale delle Edizioni San Lorenzo

    Direttore Responsabile:

    Alberto Bigarelli

    Autorizzazione Tribunale di Reggio Emilia n°565 del 12 marzo 1984

    Abbonamento annuo: 35,00 euro

    c/c postale n°: 13186424 intestato a Edizioni San Lorenzo sas

    via Gandhi, 18a/b, 42100 Reggio Emilia

    Nota editoriale

    Il presente volume è composto dalla trascrizione di conferenze che il prof. Maurizio Marcheselli ha tenute nell’arco di due decenni, in luoghi e contesti diversi. Pertanto sono inevitabilmente presenti doppioni e ripetizioni. Altresì manca il commento ad interi capitoli del Quarto Vangelo.
    Nessuna delle trascrizioni è stata rivista dall’Autore.
    Le trascrizioni sono state tutte effettuate da Aldo Peri.
    In quanto trascrizioni di relazioni tenute in pubblico, lo stile rimane tendenzialmente orale. La traduzione delle pericopi bibliche spesso è dell’Autore; quando la traduzione è quella della CEI²⁰⁰⁸, ciò è opportunamente segnalato.
    Nell’unica relazione tenuta prima del 2008, è stata in ogni caso inserita la traduzione CEI²⁰⁰⁸, con gli opportuni aggiustamenti al testo della relazione trascritta.
    Modena, dicembre 2020

    1. LA GENESI DEL QUARTO VANGELO

    ¹

    Affrontiamo la genesi del vangelo secondo Giovanni, ovvero il processo di formazione del QV, vedendo il percorso che ce lo ha consegnato nella forma che abbiamo oggi.

    È ben chiaro che, in tali questioni di tipo storico, inevitabilmente si fanno delle ipotesi; io ne sposo alcune a preferenza di altre, dunque sono consapevole che ciò che dirò non rappresenta l’unanimità del pensiero degli studiosi, poiché ovviamente ci sono anche altri modi di ricostruirne la formazione. Tutto ciò che è ricostruzione storica ha sempre un grado, più o meno alto, di ipoteticità e il numero delle ipotesi è inversamente proporzionale alla quantità di dati certi; e pertanto, dove i dati certi sono pochi, le ipotesi proliferano.

    Ciò che diremo è un modello per immaginare la nascita del QV che è sostenuto da vari studiosi ed è quello che, ad oggi, mi persuade maggiormente. Noi non vedremo i modelli diversi, ma esporremo in modo documentato l’ipotesi che appare più verosimile.

    È possibile riproporre il percorso lungo, il quale è venuto a formarsi il vangelo secondo Giovanni, in quattro tappe.

    1. La presenza di un testimone oculare all’inizio del vangelo.

    2. Il formarsi di una tradizione orale nel periodo successivo alla Pasqua del Signore Gesù. Dopo il testimone oculare, colui che è presente agli eventi, segue il tempo successivo alla Pasqua, nel quale la tradizione (ovvero la trasmissione di ciò che è stato visto, udito, sperimentato) si forma, prende corpo, si sviluppa, si cristallizza. Dunque la seconda fase è il formarsi della tradizione giovannea.

    3. La stesura per iscritto del vangelo. Si può ipotizzare ragionevolmente che il QV abbia conosciuto due stesure nel giro di poco tempo: l’evangelista avrebbe redatto inizialmente una versione del suo vangelo più breve di come la possediamo oggi, dunque una prima edizione del testo.

    4. Successivamente sarebbe stata composta la versione finale come l’abbiamo oggi: l’edizione finale del testo.

    Questi sono i 4 passaggi che proviamo a dettagliare. Per ciascuna di queste 4 tappe facciamo alcune considerazioni di tipo storico e teologico, che vogliono essere un aiuto per capire il libro nella sua forma finale.

    1. Un testimone oculare

    A mio giudizio, all’origine del vangelo secondo Giovanni, si deve ammettere un testimone oculare. Si potrebbe pensare che questo sia un dato certo; in realtà si tratta di questioni ampiamente dibattute. La mia posizione è che si deve ammettere che, all’origine di questo libro, ci sia una figura che è stata presente agli eventi (a tutti o almeno a una parte). Secondo la tradizione della Chiesa, da Ireneo fino al 1700, tre figure coincidono: il «discepolo che Gesù amava», l’autore del vangelo, Giovanni figlio di Zebedeo; anche per noi oggi si tratta di un’unica figura. Invece, didatticamente, adesso li dividiamo e consideriamo in modo autonomo queste tre figure.

    1.1. L’«autore» del Quarto Vangelo

    Chi è l’autore del QV? Cosa dice il vangelo stesso del suo autore? In Gv 21 c’è un punto in cui tale questione emerge in modo chiaro; leggiamo i vv. 20-24:

    «²¹,20Voltandosi, Pietro vede il discepolo che Gesù amava che seguiva, lui che si era reclinato durante la cena sul suo petto e aveva detto: «Signore, chi è che ti consegna?». ²¹Pietro dunque, vedendo costui, dice a Gesù: «Signore, e lui cosa?». ²²Gli dice Gesù: «Visto che io voglio che lui rimanga finché io venga, che cosa a te? Tu seguimi»». Qui il vangelo termina come storia, come racconto. Poi segue una lunga interferenza dell’evangelista. che parla direttamente al suo lettore: «²³Allora si diffuse questa parola tra i fratelli, che quel discepolo non sarebbe morto. Ma Gesù non gli disse che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che cosa a te?». ²⁴Questi è il discepolo che rende testimonianza su queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è veritiera». Questo testo certamente fonde due delle tre figure ricordate, affermando la coincidenza tra l’autore del vangelo e «il discepolo che Gesù amava». Come bisogna intendere tale identificazione?

    Ecco i margini entro i quali ci si può muovere: in sé questo passaggio non afferma che il «discepolo amato» sia l’autore, nel senso moderno del termine, cioè colui che, di suo pugno, ha scritto dalla prima all’ultima parola. E ciò per vari motivi.

    Innanzi tutto perché il concetto antico di autore non coincide con quello moderno. Il concetto antico di autore non può coincidere con quello che si ha dall’invenzione della stampa in poi, perché da allora l’autore coincide con lo scrittore. Invece il concetto antico di autore è assai più ampio e può comprendere anche la figura che è all’origine delle idee che poi sono messe per iscritto in un libro. Anche secondo il senso etimologico del termine (auctor, dal verbo latino àugere), l’autore è colui che fa in modo che una cosa ci sia, che venga prodotta. A mio giudizio, in questo senso lato, si può sottoscrivere l’affermazione che il «discepolo amato» è l’autore del vangelo: è colui la cui figura, le cui parole, la cui testimonianza, la cui predicazione, sono all’origine del vangelo.

    Si può obiettare che qui si trova: «Il discepolo che rende testimonianza su queste cose e le ha scritte». È vero; tuttavia in greco le forme del verbo hanno, di loro natura, un senso causativo senza bisogno di usare un altro verbo, come invece succede in italiano. In italiano si può dire: «Scrivo» e «Faccio scrivere»; in tal modo, con l’ausilio di un altro verbo, si esprime una diversa sfumatura. Il greco è diverso, perché può esprimere la dimensione causativa con la forma verbale normale, senza l’ausilio di altri verbi. Ecco un esempio: «Allora presero Gesù ed egli, portandosi la croce, uscì verso il luogo detto del cranio (…), dove lo crocifissero (…). Pilato scrisse anche un titulus e lo pose sulla croce. Vi si trovava scritto: Gesù, il nazareno, il re dei giudei». Quando gli chiedono di toglierla, Pilato risponde: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,17-22). Pare chiaro che qui si potrebbe tradurre: «Ciò che ho fatto scrivere, lo lascio scritto». Infatti è del tutto inverosimile che Pilato abbia scritto lui materialmente il testo; così come non è stato materialmente lui a porlo sulla croce. Questo è un caso in cui i due verbi greci (che sono una forma dell’attivo normale) sarebbero da tradurre in senso causativo: «Pilato fece scrivere e fece porre sulla croce»; infatti è questo il senso del testo.

    Dunque c’è la possibilità di intendere in un senso più largo la frase: «Questi è colui che le ha scritte», poiché si potrebbe tradurre: «Questi è colui che le ha fatte scrivere» ed è propriamente questo il significato antico di autore.

    Cerchiamo ora di tenere distinte le tre figure: l’autore del vangelo, il «discepolo amato» e Giovanni l’apostolo, figlio di Zebedeo, anche se abbiamo cominciato il percorso dicendo che le prime due figure possono essere riavvicinate, con l’indicazione che abbiamo data.

    Ci congediamo da Gv 21,24 con un’annotazione di traduzione e di interpretazione di questo versetto: «Questi è il discepolo che rende testimonianza su queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è veritiera». Ecco una traduzione che esplicita il senso che a me sembra più convincente di questo versetto: «Questi (il «discepolo amato») è il discepolo che continua a rendere testimonianza su queste cose avendole messe per iscritto» oppure «avendole fatte mettere per iscritto una volta per tutte». Conviene sottolineare la diversità tra il participio presente e il participio aoristo.

    Inoltre insistiamo su un gioco, molto importante: questo versetto sottolinea che la testimonianza del «discepolo amato» è una testimonianza perdurante; egli rende adesso testimonianza, la sua testimonianza è in atto, è in corso (participio presente): «Egli è colui che attualmente rende testimonianza». A mio giudizio, mentre viene scritto il vangelo, Giovanni è già morto e Gv 21 è stato aggiunto, appunto, in conseguenza della sua morte, ma sempre in riferimento a lui. Quindi, benché sia morto, «egli continua a rendere testimonianza su queste cose» (qui non ci si riferisce solamente all’ultima apparizione sul lago, che è stata appena raccontata; «queste cose» è un’espressione per indicare l’intero vangelo, l’intera vicenda di Gesù); «egli continua a rendere una testimonianza (oppure: «rende una testimonianza duratura, perdurante») sulle cose di Gesù».

    Poi si passa al participio aoristo: «Avendole messe per iscritto»; se si accetta il senso causativo, significa: «Avendo fatto sì che fossero messe per iscritto». Dunque qui c’è già l’idea che la testimonianza perdura in forza del fatto che essa è già diventata un libro. Su questo c’è un grande consenso: tra i quattro vangeli, quello di Giovanni è quello che ha la coscienza più profonda dell’opera letteraria, ovvero di essere una testimonianza che ha acquistato una forma scritta, di essere una testimonianza che è diventata libro. La coscienza che Giovanni ha di tutto ciò è più alta di quella degli altri evangelisti. È paragonabile a quella di Luca, ma è più profonda.

    Dunque: «Questi è il discepolo, che rende una testimonianza perdurante, in forza del fatto che essa è diventata un testo, un libro», ovvero quello che noi chiamiamo: vangelo secondo Giovanni. A mio giudizio, questa è la vera spiegazione che il vangelo dà della misteriosa parola di Gesù. La frase: «Se voglio che lui rimanga finché io venga» significa: «Io voglio che lui resti nella testimonianza che lui mi rende». Ovvero: la parola di Gesù viene spiegata in questo senso: il vangelo secondo Giovanni resterà fino alla parusia.

    Ciò può essere vero anche degli altri scritti del canone; però, poiché in questo momento il canone del Nuovo Testamento (NT) ancora non esiste, allora l’affermazione è fatta di questo vangelo. È molto interessante, perché qui è già presente la convinzione che questo testo resterà fino alla parusia: questa è la promessa di Gesù. Il «discepolo amato» rimane nella sua testimonianza scritta: il QV. Ovviamente questa testimonianza non può prescindere da un contesto comunitario che la trasmetta; questo è ben chiaro. Però c’è una grande insistenza sulla sua testimonianza divenuta libro.

    1.2. «Il discepolo che Gesù amava»

    Prima di dire qualcosa sull’identità storica, affrontiamo la misteriosa espressione, ossia: perché questo personaggio è chiamato: «il discepolo che Gesù amava»? Ciò ha un rilievo per capire il senso stesso del suo libro. Ricordiamo i punti del QV in cui compare la figura de «il discepolo che Gesù amava». I passi in cui egli è esplicitamente identificato così sono 5 e iniziano in Gv 13, nel contesto della Cena.

    1. Gv 13,23-25 è il primo dei passi in cui egli compare: Pietro gli chiede di domandare a Gesù chi è colui che lo tradirà; ed egli, reclinandosi sul petto di Gesù, gli pone la domanda. È un testo di grandissima densità simbolica e teologica. Chiaramente questa prima apparizione esplicita veicola alcune caratteristiche del suo ritratto.

    2. Il passo successivo è Gv 19,25-27: sotto la croce avviene la consegna reciproca, da parte di Gesù, del discepolo alla madre e della madre al discepolo.

    3. Gv 20,2-10: la visita della tomba vuota la mattina del primo giorno dopo il sabato.

    Poi ci sono due episodi in Gv 21, in cui egli è esplicitamente presentato: 4. la pesca, avvenuta la quale questo discepolo riconosce: «È il Signore»; allora Pietro, avendolo udito, si getta in acqua e raggiunge subito la riva a nuoto; 5. infine il passo che abbiamo letto (21,20), l’ultimo dei 5 che sono sicuri, che sono espliciti.

    Ve ne sono altri tre su cui si discute, che elenchiamo in ordine decrescente di probabilità.

    1. Gv 19,35: Gesù è morto, il soldato gli ha aperto il fianco con il colpo di lancia; si legge: «Colui che ha visto ha reso testimonianza e la sua testimonianza è autentica e lui sa che dice cose degne di fede, perché anche voi crediate». Qui non si dice esplicitamente chi sia colui che ha visto, però non vi sono altre ipotesi ragionevoli (mentre ve ne sono varie irragionevoli!). A mio giudizio, questo versetto va ascritto alla galleria dei testi che servono a delineare il profilo del personaggio.

    2. Un secondo testo si trova in Gv 18,15-16, nell’episodio dell’interrogatorio di Gesù davanti ad Anna: «¹⁵Seguiva Gesù Simon Pietro e un altro discepolo. Quel discepolo era noto al sommo sacerdote ed entrò insieme a Gesù nel cortile del sommo sacerdote, ¹⁶mentre Pietro stava fuori, presso la porta. Allora l’altro discepolo, quello noto al sommo sacerdote, uscì e parlò alla portinaia e fece entrare Pietro». Questo è un testo più problematico; molti ritengono che, nell’economia complessiva del racconto, questo «altro discepolo» (purtroppo anonimo) debba essere identificato col «discepolo amato». È un elemento non irrilevante: se si inserisce questo passo nella galleria dei ritratti del «discepolo amato», si deve rilevare che questo tale è «noto al sommo sacerdote». Allora è forse di famiglia sacerdotale? Comunque deve frequentare gli ambienti di Gerusalemme. Si tratta di un elemento che gioca un certo peso nella questione storica.

    3. Il terzo e ultimo testo, che è il più incerto, si trova in Gv 1,38. Tutti i passi fino a qui citati si trovano dalla Cena in poi, dunque da Gv 13 in avanti. Adesso siamo nel racconto della vocazione dei primi due discepoli, il quale contiene un vuoto, che potrebbe essere riempito con questo personaggio: «¹,37Due dei suoi discepoli, udirono [Giovanni Battista che parlava] e seguirono Gesù. ³⁸Voltandosi Gesù e vedendoli seguire, dice loro: «Che cercate?». Ed essi gli dissero: «Rabbì – che si dice tradotto Maestro – dove dimori?». ³⁹Dice loro: «Venite e vedrete». Vennero dunque e videro dove dimorava e dimorarono presso di lui in quel giorno; era circa l’ora decima. ⁴⁰Uno dei due che avevano udito da Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, il fratello di Simon Pietro»; e allora chi è l’altro? Il problema si pone sin dall’epoca patristica, non vi è un’interpretazione concorde su tale dato.

    Sin dall’epoca antica qualcuno ipotizza che potrebbe trattarsi di Filippo, che viene nominato in seguito. Altri sostengono che, in assenza di elementi identificativi, ci si debbasogna rassegnare a non sapere chi sia questo altro discepolo. Una terza ipotesi propone che, volutamente, seppure in modo indiretto, l’evangelista voglia lasciar trapelare che si tratti del «discepolo che Gesù amava».

    Gli ultimi due testi indicati, che hanno un alto tasso di incertezza (soprattutto Gv 1,38-40), incidono sul quadro che si può fare dell’identità storica del personaggio. Infatti, se Gv 1,38-40 si potesse ascrivere alla galleria dei testi che ne delineano il profilo, allora egli sarebbe presente sin dall’inizio, ovvero dal ministero che Gesù svolge in questo momento ancora al fiume Giordano, proprio all’inizio e poi, successivamente, in Galilea. Quindi sarebbe un personaggio presente lungo l’intera sequenza degli avvenimenti. Invece, se questo testo non può essere inglobato nella galleria, su tale punto rimane un’incertezza e la sua presenza è indicata solamente a partire dalla Cena.

    Questi sono i dati che generano le discussioni e la ridda delle ipotesi storiche. Ci sono degli elementi di incertezza, che sono relativamente importanti, per cui si apre tutta una serie di ipotesi.

    Adesso interessa valorizzare il senso di questa espressione; al di là della questione storica, perché «il discepolo che Gesù amava» è chiamato così?

    In Gv 15,13-15 Gesù riflette su cosa significhi che egli «ama qualcuno», che egli «ama il discepolo». A mio giudizio, in questo testo non si parla del «discepolo amato» in senso stretto, ma si parla di Gesù che «ama qualcuno»: il testo è una chiave di lettura fondamentale del profilo teologico e spirituale di questo personaggio ed è la vera ragione per cui è chiamato così. In questo brano si vede cosa è implicato nell’atto di amore di Gesù per qualcuno; allora si capisce bene perché sia chiamato «il discepolo che Gesù amava».

    Siamo nel contesto dell’addio. Il discorso è iniziato con l’immagine della vite e dei tralci; poi si giunge alle seguenti parole: «¹⁵,13Amore più grande di questo nessuno ha: che uno (de)ponga la propria esistenza la propria vita di uomo») per i suoi amici. ¹⁴Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. ¹⁵Non vi dico più servi, perché il servo non sa che cosa sta facendo il suo padrone; ma vi ho detto amici, perché tutto ciò che ho udito da parte del Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,13-15).

    Innanzi tutto sottolineiamo il termine: «amico». Gli studiosi del QV affermano che l’evangelista non usa mai il termine «amico» in senso svilito o banale. In Gv il termine greco phílos conserva il ricordo del verbo philéo da cui deriva; dunque non è un uso estenuato della parola. In italiano il senso del termine amico dipende dai contesti, in alcuni dei quali il termine è così esausto da non voler dire niente; ciò avviene anche in greco. Invece gli studiosi di Giovanni ritengono che qui phílos indichi una cosa forte: «Vi chiamo amati. Io dico che voi siete oggetto della mia philía, che voi siete destinatari del philéo». Questo significa phílos: non genericamente amici, bensì «destinatari dell’amore».

    In questi versetti ci sono le due radici che l’evangelista usa per indicare l’amore: agapáo (da cui il termine agápe: «Nessuno ha un’agápe più grande di questo», Gv 15,13) e philéo. L’espressione «il discepolo che Gesù amava» è costruita preferibilmente col verbo agapáo, ma in un caso anche con philéo. A mio giudizio, i due verbi sono intercambiabili, fatico a credere ad una gerarchia dei due verbi; credo ad una diversa sfumatura, ma non ad una gerarchia. Di fatto entrambi sono usati per indicare «il discepolo che Gesù amava»; e qui si trovano entrambi: agápe e phílos.

    Questo testo è importante, perché delinea un percorso in tre tappe, che non corrisponde alla sequenza dei versetti. Se si riordinasse logicamente (cronologicamente) il testo, bisognerebbe iniziare dal v. 15, poi andare al v. 13 e chiudere col v. 14. Ciò perché il testo parla, innanzi tutto, di due modalità con cui si esprime l’amore di Gesù: la prima modalità è al v. 15, la seconda al v. 13; il v. 14, che sta in mezzo, in realtà è l’ultimo della sequenza ed è la risposta da parte di colui che è oggetto dell’amore descritto negli altri due passaggi; in questo momento lo tralasciamo, perché prima ci concentriamo su cosa significhi che Gesù ama qualcuno; pertanto vediamo il v. 13 e il v. 15.

    Secondo questo testo l’amore di Gesù si esprime in due modalità successive; poi bisogna vedere se sono realmente distinguibili.

    1. Il v. 15 è il primo in ordine logico e cronologico: «Io non vi chiamo più servi. Il servo non sa ciò che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici». Qui c’è tutta la forza dell’espressione biblica: la frase: «Vi ho chiamato amici» significa: «Vi ho costituiti nella condizione di phíloi». Ovviamente non significa genericamente che è stata messa un’etichetta, bensì che è stato operato un cambiamento ontologico: «Io vi ho costituiti nella condizione…»; qui chiamare ha il senso di creare: questa è una parola creatrice. «Io vi ho chiamato amici»: dunque la condizione dei destinatari dell’amore di Gesù (phíloi) è determinata dal fatto che egli ha fatto conoscere agli uomini «tutto ciò che ho udito dal Padre mio». Qui c’è tutta la teologia di Giovanni; questa è un’ottima sintesi di teologia della rivelazione. Chi è Gesù di Nazaret? È il rivelatore del Dio invisibile: «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1,18), né lo può vedere, né toccare, né udire. Però c’è uno che lo conosce: questo è il cuore dell’annuncio del kerygma giovanneo. Gesù, l’unico che conosce Dio, il Dio invisibile, lo ha fatto conoscere e, con ciò, esprime il suo amore per gli uomini e li costituisce nella condizione di amati.

    A mio giudizio, qui c’è anche un dato di esperienza umana. Questa è come una piccola parabola: uno schiavo nella casa è all’oscuro di ciò che il padrone fa. Invece il segno dell’intimità e dell’amore è la comunicazione, il trasmettere. Ciò è evidente anche nell’esperienza quotidiana: la forza di una relazione è inversamente proporzionale all’estensione del non detto. Quando due persone non possono o non riescono a dirsi molte cose, la relazione ne risulta indebolita in modo direttamente proporzionale. È la trasmissione di ciò che è più intimo che crea la comunione. Quindi l’evangelista elabora la sua teologia dell’incarnazione: il Dio invisibile è visibile nella carne di Gesù; la elabora integrando questo elemento di esperienza.

    Quindi qual è il segreto che Gesù ha comunicato agli uomini, strappandoli così dalla condizione di schiavi? Nel QV è evidente: è il segreto di Dio, è il mistero dell’identità di Dio, come Padre. Padre è un termine relazionale: esiste solamente in funzione di un Figlio. È questo il grande mistero.

    2. Al v. 13 Gesù dice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: deporre la propria psyché», ovvero l’esistenza fisica, quella che si riceve dai genitori; dunque «deporre la propria esistenza fisica per coloro che si ama». È chiaro che «coloro che si ama» sono coloro che, avendo accolto la rivelazione, sono entrati nella condizione di «amati». L’amore raggiunge il culmine nel momento in cui Gesù (infatti questo versetto parla di Gesù, prima che di altri) muore per coloro che ha già resi «amati», avendo comunicato loro il mistero di Dio.

    Si vede bene che qui c’è già tutta la storia di Gesù: c’è il suo passaggio nel mondo (Gesù viene in questo mondo per svelare il mistero del Dio invisibile, v. 15) e c’è l’estremo approdo della sua vicenda, che è la sua morte sulla croce.

    Domanda: per quanto siano comunque due affermazioni di cui bisogna anche percepire l’articolazione, i due passaggi sono completamente separabili? Non lo sono: nella teologia giovannea la croce è l’evento della rivelazione suprema. Allora è chiaro che i due livelli si saldano: propriamente il mistero di Dio è stato svelato nella vicenda di Gesù e, principalmente, nella croce di Gesù. Dunque quando l’amore raggiunge il culmine, raggiunge il culmine anche la rivelazione del mistero di Dio, perché Giovanni coglie che l’essenza ultima del mistero di Dio è, appunto, l’agápe. E quando il mistero del Dio invisibile è svelato? È svelato nell’atto della morte.

    Tutto ciò è un piccolo affresco di teologia giovannea; cosa c’entra col «discepolo amato»? C’entra perché nella comprensione che il QV ha di questa figura egli è colui che ha recepito nel modo più sublime, più profondo e più immediato, questo amore (un amore che si manifesta così). Quindi, a mio giudizio, l’espressione «il discepolo che Gesù amava» non indica minimamente una selezione a monte, bensì a valle: egli è «il discepolo che Gesù amava» non perché Gesù amava lui più degli altri (questa sarebbe la selezione a monte); invece egli è «il discepolo che Gesù amava», perché ha accolto quell’amore prima ed in un modo più grande, più profondo e più pieno, rispetto agli altri; dunque la selezione è a valle. Ovvero: è la diversità nella ricezione che fa la differenza.

    Si può sostenere che, per come noi lo conosciamo dal suo vangelo (anche perché non abbiamo altre vie…), questo discepolo sia proprio così: egli mostra di avere recepito l’amore di Gesù in un modo profondissimo proprio dal modo in cui parla di Gesù come del Figlio, ossia come di colui nel quale il mistero di Dio è svelato. Gesù dice: «Io vi ho chiamato amici, non più servi»; se si vuole vedere l’amico, basta guardare l’evangelista: egli sì che ha capito cosa Gesù diceva di Dio, lo si vede da come ne parla nel suo vangelo. Si capisce che questo è un tratto del suo profilo spirituale e teologico.

    La stessa cosa vale per l’altro. Secondo il racconto giovanneo (e noi conosciamo questo personaggio dal suo racconto), l’unico dei discepoli storici ad essere sotto la croce, insieme alle donne, è lui. Dunque, anche visivamente, dal racconto complessivo del QV appare che egli è presente nel momento in cui l’amore raggiunge il culmine. Quell’amore è, ovviamente, anche per gli altri, ma la selezione non è operata da Gesù, il quale non esclude gli altri da quell’amore; la selezione è legata alle vicende personali che sono diversificate. E lui appare indubbiamente come colui che, tra tutti i discepoli, è presente nel momento in cui l’amore arriva al culmine. Quindi si può dire che lo accoglie in un modo che è più rapido (c’è una maggiore rapidità di Giovanni rispetto agli altri) ed anche più profondo. Ciò non significa che gli altri siano esclusi; significa invece che ci sono storie diverse e che questo è il suo tratto specifico.

    A mio giudizio, questo è uno degli elementi più decisivi per capire il personaggio e il nesso col vangelo.

    1.3. La questione storica

    Dal punto di vista storico chi è questo personaggio?

    Negli studi contemporanei ci sono tre linee.

    Dal punto di vista della fede, noi restiamo a ciò che dice la Dei Verbum (DV II) la quale ha sganciato la questione della apostolicità dei vangeli dalla questione di definire esattamente il loro autore. L’apostolicità dei vangeli è questione di fede, mentre non lo è l’identificazione dell’autore in senso materiale. Su questo punto il Concilio Vaticano II ha proprio cambiato la formulazione: non ha voluto dire che Matteo, Marco, Luca e Giovanni siano autori del vangelo, ma dice che conosciamo i vangeli come il vangelo secondo Matteo, secondo Marco, secondo Luca e secondo Giovanni.

    Sono questioni di tipo storico, che non sono irrilevanti, ma che devono essere circoscritte nella loro portata.

    Le tre ipotesi sono le seguenti.

    1. La prima ha il favore della tradizione: «il discepolo che Gesù amava» è l’autore del vangelo nel senso antico del termine, è Giovanni l’apostolo, il figlio di Zebedeo.

    2. La seconda: bisogna rassegnarsi al suo anonimato, perché il vangelo non ne dà un nome. Ireneo ha scritto che sarebbe il figlio di Zebedeo; ma la sua attestazione può essere messa in discussione per varie ragioni. Quindi si deve accettare l’dea che si tratti di un personaggio anonimo.

    3. La terza è una congettura che ha preso rilievo in epoca moderna: è Giovanni il presbitero, Giovanni l’anziano. Nelle lettere si firma così: «Giovanni il presbitero» (2Gv 1,1; 3Gv 1,1). È una figura che avrebbe conosciuto gli apostoli, ma non avrebbe fatto parte della loro cerchia. Si legge così l’informazione del vescovo Papia di Gerapoli (ca 70 – dopo il 130), che ci arriva attraverso Eusebio di Cesarea (265-340), in un testo complicato.

    Ultimamente la prima ipotesi, quella della tradizione, riprende quota; infatti negli studi si va a fasi. Questa posizione, che è stata sempre difesa da autori seri (ad esempio, in Italia da mons. Giuseppe Segalla), sta riprendendo quota, anche in considerazione del fatto che molti studiosi ritengono che il QV sia un vangelo testimoniale, con un testimone oculare all’origine. Evidentemente questi due elementi vanno insieme.

    La seconda ipotesi, quella di rassegnarsi all’anonimato è legata al fatto che il vangelo non fa un nome. Comunque si cerca di scoprire chi potrebbe essere, più precisamente, questo personaggio anonimo. Oggi sono di moda le ipotesi essene: ovvero si tratterebbe di un uomo di ambito sommo sacerdotale, perché si trovava nel cortile del palazzo, ma non appartenente all’aristocrazia del tempio. Magari uno di quelli scappati dalla città e andati a vivere nel deserto, a Qumran. Questa posizione è sostenuta anche dal fatto che il linguaggio di Giovanni ha molte affinità coi testi settari e specifici della comunità di Qumran. Tesi affascinante, che però rimane decisamente ipotetica.

    La terza ipotesi, che lo identifica come «il Presbitero», a mio giudizio non è in realtà utile. Innanzi tutto perché bisogna inventare un altro Giovanni; infatti si conserva il nome, che si ritiene giusto, ma si cerca un’altra figura. Questa è una congettura dei moderni (emerge nel XIX secolo), che ha affascinato vari studiosi di alto livello, quali Rudolf Schnackenburg (1914-2002), Raymond Brown (1928-1998), Xavier Léon-Dufour (1912-2007), i quali sono gli autori di tre notevolissimi e bellissimi commentari. Nei loro commentari tutti e tre partono dall’idea che la tradizione antica sia difendibile e accettabile, per poi finire per aderire alla congettura che si tratta di Giovanni «il Presbitero» e non Giovanni l’apostolo; tutti e tre evolvono in questa direzione nell’arco del commentario, che chiude cambiando posizione su questo punto.

    Gli elementi per prendere una decisione sono questi, sempre consci del fatto che nno si sta parlando di un punto fondamentale per la fede; è semplicemente una questione di plausibilità storica.

    2. Lo sviluppo della tradizione giovannea

    2.1. Lo sviluppo storico

    Ciò di cui abbiamo parlato sinora è prima la fase che arriva all’anno 30, data della Pasqua di morte e risurrezione di Gesù. È questo il calcolo che si ritiene più plausibile. Allora, all’origine del QV ci sarebbe un testimone oculare, un personaggio che è stato presente almeno agli eventi decisivi della vita di Gesù.

    La seconda fase, ovvero lo strutturarsi della tradizione, va dalla sera di Pasqua al momento in cui il vangelo viene messo per iscritto. Su questo la tradizione antica è concorde: Giovanni è l’ultimo dei vangeli canonici; il suo autore è longevo e scrive in età molto avanzata. Su tale punto c’è oggi un certo consenso: si pensa che il QV sia stato scritto negli anni 90, nell’ultima decade del I secolo.

    Pertanto questa tradizione si forma lungo un arco di tempo abbastanza ampio: dall’anno 30 al 90 passano almeno 60 anni.

    Inizialmente si sviluppa nella Palestina romana; poi, con ogni probabilità, nell’Asia Minore.

    Dunque dura vari decenni (almeno 60 anni) e avviene inizialmente in Palestina, poi a Efeso, in Asia Minore. Non è l’unica ipotesi: ve ne sono altre che difendono la zona dell’attuale Siria o comunque una zona conn un forte influsso deell’ebrtaismo della terra.

    Comunque la maggior parte degli studiosi concorda col dato antico, ovvero l’Asia Minore.

    2.2. Un ricordo che struttura

    La tradizione giovannea ha la forma di un ricordo che struttura il senso degli eventi. È importante recuperare questo tema giovanneo: nel vangelo quello del ricordo è un tema importantissimo, che viene detto con la terminologia della memoria. Ci si può appoggiare a quei testi giovannei che parlano del ricordarsi, per dire qualcosa sul modo in cui prende forma la tradizione giovannea

    La peculiare tradizione giovannea si autocomprende essenzialmente come ricordo. Si trovano i verbi mimnéskomai e anamimnésko, ricordare: pur non essendo molto frequenti, sono in punti rilevanti del vangelo. Questa tradizione comprende sé stessa come ricordo di ciò che Gesù ha detto e fatto (anche nel senso di ciò che Gesù ha subito); è un ricordo che si sveglia ad un certo punto, ovvero dopo «la glorificazione di Gesù», per usare un’espressione giovannea, «dopo che fu glorificato». La glorificazione comprende anche il dono dello Spirito; «dopo gli eventi della glorificazione» (ovvero passione, morte, risurrezione, dono dello Spirito) si sveglia il ricordo (7,39).

    Questo ricordo non è il tornare alla memoria di qualcosa che si era momentaneamente dimenticato, quanto piuttosto la percezione del significato profondo degli eventi, un significato mai compreso prima. Quando usa la terminologia del ricordo, Giovanni mostra una coscienza riflessa di ciò che Gesù ha fatto che è molto più esplicita degli altri evangelisti; e così aiuta a capire anche gli altri, nei quali tali elementi rimangono molto più impliciti. Invece Giovanni ha proprio una coscienza riflessa sul processo di formazione della testimonianza e di cosa sia la testimonianza resa a Gesù di Nazaret.

    Ripetiamo che questa categoria è molto importante: il ricordo non è soltanto il ritornare alla mente di qualcosa che si era dimenticato; invece il ricordo è lo strutturarsi del senso che hanno gli eventi già accaduti, i quali sono compresi come non era mai accaduto prima. Il ricordo ha un senso forte: è un ricordo che struttura il senso.

    Ciò vale anche per noi e per gli eventi della nostra vita: ricordarsi è un’operazione fondamentale per cogliere delle linee di continuità nella propria esistenza; ricordarsi è riuscire a strutturare il senso degli eventi accaduti.

    Dunque la tradizione giovannea è sotto il segno del ricordo. Tra i tanti testi possibili, ne leggiamo uno che è il più immediatamente significativo. Siamo nel racconto dell’ingresso messianico a Gerusalemme: «¹²,12Il giorno dopo la folla numerosa, che era giunta per la festa, avendo udito che Gesù viene a Gerusalemme, ¹³presero i rami delle palme e uscirono incontro a lui e gridavano: «Osanna! Benedetto il veniente nel nome del Signore, il re d’Israele!». ¹⁴Gesù, trovato un asinello, si mise a sedere su di esso, come sta scritto: ¹⁵Non temere, figlia di Sion! Ecco, viene il tuo re, seduto su un puledro d’asina. ¹⁶Queste cose non le capirono i discepoli all’inizio; ma, quando Gesù fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose stavano scritte su di lui e che queste cose gli avevano fatte» (Gv 12,12-16).

    Dunque, mentre le cose accadono, i discepoli «non le capirono»; tutti i discepoli «non le capirono», compreso Giovanni, che non si chiama fuori. Tra i discepoli c’è, innanzi tutto lui, che non ha capito cosa è accaduto. Però, «quando Gesù fu glorificato (termine tipico giovanneo, che indica l’insieme degli eventi pasquali), allora si ricordarono»; qui è ben chiaro che il ricordarsi non è soltanto il tornare alla memoria, perché essi «non capirono». Il ricordo (nel senso forte con cui è usato qui il termine) si sveglia solamente dopo: essi «si ricordarono». È molto interessante il fatto che il ricordo, che coglie il senso degli avvenimenti già accaduti, abbia poi bisogno di un lessico.

    Dopo che si è capito una cosa, come è possibile comunicarla? È necessaria una lingua nella quale esprimersi, con delle regole grammaticali e con un patrimonio di immagini. La lingua, secondo la quale trova forma, si formalizza quel ricordo, di cui adesso si è capito il senso, è data dalle Scritture di Israele. Il ricordo si struttura dentro un linguaggio (un patrimonio di immagini, di categorie, di espressioni) che proviene interamente dalle Scritture di Israele. Allora l’episodio dell’ingresso in Gerusalemme è molto significativo perché, come capita a vari episodi del QV, è in miniatura ciò che il QV è nella sua totalità. L’evangelista afferma chiaramente che i discepoli, sul momento, non capiscono niente (nemmeno l’evangelista stesso!); però, «dopo la glorificazione», l’evangelista si è ricordato «delle Scritture e di ciò che gli avevano fatto». L’evangelista abbina questi due elementi, ed è proprio questo il punto: per poter essere detto, il ricordo ha bisogno di categorie; e queste categorie sono date dalla Bibbia di Israele.

    Infatti il racconto dell’ingresso in Gerusalemme è l’effetto di quel ricordo; non è l’effetto di ciò che avevano capito mentre avveniva l’evento (l’evangelista stesso ammette di non averlo capito!). Quindi non si può ritenere che questo testo sia il riflesso di ciò che il testimone ha capito mentre vedeva gli eventi: è onesto ed ammette di non avere capito. L’episodio dell’ingresso in Gerusalemme è l’evento strutturato secondo il ricordo.

    Però non è possibile dire il proprio ricordo senza la Bibbia di Israele. Infatti il racconto è impastato di Antico Testamento (AT): c’è una citazione esplicita (preceduta dalla formula: «sta scritto»), seguita da tre espressioni che provengono da libri della Bibbia. Questo racconto è la miniatura dell’intero QV: tutto il materiale con cui è costruito il QV proviene dall’AT. Al di là delle citazioni esplicite, che nel QV sono relativamente poche, ogni pagina di Giovanni è incomprensibile fuori dal patrimonio delle Scritture di Israele: i giri di frase, le immagini che dominano il testo, ecc., provengono tutti dalla Bibbia di Israele. Il ricordo si struttura e indica il senso degli eventi; però ha bisogno di una lingua, e la lingua in cui il ricordo si fissa sono le Scritture di Israele.

    Così si forma la tradizione giovannea: nel segno della memoria così intesa.

    È una tradizione che ha le proprie peculiarità rispetto ai sinottici. Ad esempio, soltanto Giovanni parla delle tre Pasque e soltanto lui scrive che Gesù è salito a Gerusalemme varie volte. Si tratta di elementi che oggi gli studiosi sono propensi a ritenere storicamente molto verosimili. Quindi nella discussione sul Gesù storico i dati del QV, quanto alla cornice, sono ritenuti dati importanti, e la cornice di Gv ha delle peculiarità rispetto ai sinottici. Le ha soprattutto nel modo in cui è presentato Gesù e in cui sono presentati, ad esempio, i cosiddetti miracoli. Il QV ha un modo peculiare di presentare i gesti potenti di Gesù, li chiama «i segni», dunque ha proprio una prospettiva specifica per presentarli. Non solo: presenta una raccolta di miracoli che soltanto in minima parte riprende dai sinottici; gli altri sono propri, sono presenti soltanto nel QV. Però è soprattutto la prospettiva con cui li racconta ad essere diversa: sono dei «segni», cioè sono eventi di rivelazione; dunque indicano qualcosa, svelano qualcosa. Questo è il tratto specifico con cui Gv parla di quelli che noi chiamiamo i miracoli di Gesù.

    Quindi la tradizione giovannea si plasma con delle proprie peculiarità; essa è nel segno del ricordo.

    2.3. Strumento dello Spirito

    Infine accenniamo ad un ultimo elemento, già a questo livello è molto importante: l’azione dello «Spirito di verità»: Giovanni è consapevole di essere uno strumento dello «Spirito di verità». Se si prescinde da tale dato, si capisce poco del suo vangelo. Il formarsi della tradizione, con tutte le proprie peculiarità rispetto ai vangeli sinottici, è anche legato al fatto che questo personaggio si sente strumento e luogo in cui agisce lo «Spirito di verità».

    Si potrebbe obiettare che questa è semplice follia. Allora, cos’è che decide se si tratta di un delirio oppure no? È la ricezione, ovvero se altri, che guardano dall’esterno, ritengono che ciò sia vero (oppure no). Il vangelo secondo Giovanni, internamente, pretende di essere espressione di uno che, nell’azione dello Spirito, dice di Gesù cose così diverse dai sinottici. Perché oggi è ritenuto attendibile? Perché nel passato c’è stato qualcuno che ha ritenuto vero quanto Giovanni aveva raccontato. In definitiva è la ricezione nel canone; innanzi tutto è la ricezione da parte della sua comunità e in seguito da parte delle altre comunità. È questo l’evento: è il fenomeno della ricezione del testo che ne fa non un canale periferico (che può finire nel nulla), bensì ne fa un fiume che dà un apporto gigantesco. Ciò perché quella pretesa è stata da altri giudicata una pretesa fondata. Questo è ciò che fa la differenza; infatti altri testi, che pure possono essere molto antichi, non hanno avuto la stessa ricezione del QV. In tale senso è chiaro che si impastano il testo e la comunità che lo trasmette, il testo e la tradizione dentro la quale lo si riceve è questo che gli conferisce quel carattere che è suo proprio, ovvero una testimonianza attendibile.

    2.4. Una scuola giovannea?

    Oggi vari studiosi del QV sostengono che, tra la figura dell’evangelista e la sua comunità (la comunità giovannea), si possa immaginare un elemento intermedio, ovvero una sorta di scuola giovannea. Non tutti sono d’accordo, sebbene possa anche essere utile da immaginare come strumento. Cosa sarebbe?

    C’è la figura gigantesca del «discepolo amato»: una figura storicamente esistita; è un testimone oculare degli eventi (almeno di una parte di essi). Costui è anche un gigantesco teologo; è una figura di uno spessore spirituale e di una capacità di riflessione enormi.

    Un autore che su tale argomento ha scritto delle pagine molto belle è il tedesco Martin Hengel (1926-2009), uno studioso nell’ambito della Riforma, che ha insegnato alla facoltà evangelica di Tübingen, in Germania. Le sue riflessioni sull’autore del QV sono davvero molto belle. Hengel rifiuta l’idea di una scuola; a lui basta l’idea di un grandissimo teologo e della comunità alla quale consegna la sua testimonianza. Invece altri ipotizzano l’esistenza di una scuola. Non a caso costoro difendono l’identità del «discepolo amato» come il figlio di Zebedeo. Se è il figlio di Zebedeo, non può essere lui che ha messo per iscritto il testo: è inverosimile che il vangelo sia stato redatto da un pescatore di Galilea! Per quanto abbia dei chiari influssi semitici, il testo del QV è un testo greco, che è stato scritto in greco; su ciò non vi è discussione. Certamente è il greco di una persona che ha familiarità con le lingue semitiche (ci sono dei semitismi); però non è una traduzione, bensì è un testo scritto in greco. Non è la traduzione in greco di un testo scritto in aramaico; al massimo, è la traduzione di una tradizione orale.

    Allora, soprattutto chi sostiene che l’auroe sia Giovanni l’apostolo, il figlio di Zebedeo, il pescatore di Galilea, più facilmente sposa l’idea di un gruppo di discepoli a lui più vicini; tra lui e la comunità ci sarebbe questa scuola, che, concretamente, avrebbe messo per iscritto i testi del QV e delle lettere. Così non sarebbe necessario pensare a Giovanni l’apostolo come all’autore materiale del QV e delle lettere; sarebbero stati questi discepoli, a lui più vicini, ad avere redatto concretamente i testi.

    In estrema sintesi questo è ciò che può essere rilevante dire dei dibattiti contemporanei su questa fase: il formarsi della tradizione.

    3. La prima edizione del vangelo

    3.1. La presenza di materiale aggiunto successivamente

    L’ipotesi che formuliamo è che il vangelo secondo Giovanni abbia conosciuto una prima stesura, più breve. Formuliamo tale ipotesi non per ragioni di contenuto; ossia fatico a credere che si possano stabilire degli strati dentro al QV sulla base di tensioni teologiche; tale ipotesi non è convincente per vari studiosi. Ad esempio, non si crede più a ciò che sosteneva Rudolf Bultmann (1884-1976), ovvero che la presenza dei sacramenti fosse estranea al pensiero dell’evangelista; pertanto, laddove si parla di sacramenti, lì ci sarebbe un inserto successivo. Questa è una tensione teologica: Bultmann giudica che due linee (una linea più mistica, di rapporto più mistico col Cristo risorto, ed una linea più sacramentale) sarebbero incompatibili. In realtà, qui entrano dei giudizi che sono molto in debito rispetto alla posizione teologica dell’autore stesso.

    Oggi su ciò vi è molta più cautela e tanti studiosi ritengono che, in realtà, il QV (che pure presenta qualche problema) sia profondamente unificato dal punto di vista teologico.

    Dunque ciò che stiamo per dire non si basa su ipotetiche tensioni teologiche (vi sarebbero temi teologici che non stanno insieme), bensì si basa su altro: nel QV vi sono alcuni punti in cui si ha la netta impressione che come un cuneo di materiale sia stato inserito sulla trama del racconto già esistente. Sarebbe troppo lungo da dimostrare, allora consegniamo questa idea: in tre punti del vangelo si ha questa impressione. Il procedimento è proprio simile: c’è un blocco consistente di materiale (un capitolo o più capitoli) che è incuneato su una trama che sembra già assodata, tanto che, se si estrapola il cuneo dal racconto, si recupera una sequenza di eventi assolutamente lineare.

    Questo argomento non è decisivo; quindi lo proponiamo come ipotesi, che rimane tale, pur avendo una propria verosimiglianza.

    Questi tre cunei di materiale sono: Gv 6; Gv 15-17; Gv 21.

    Gv 6 è proprio come un cuneo tra Gv 5 e Gv 7; infatti, se lo si estrapola, la sequenza narrativa risulta lineare. Ripetiamo che non è un problema di contenuti teologici, bensì di mera successione dei racconti. È proprio solamente una questione di difficoltà nella trama, nella successione degli eventi.

    Lo stesso accade per Gv 15-17. Alla fine di Gv 14 Gesù dice agli apostoli: «Alzatevi, andiamo via di qui» (14,31, CEI²⁰⁰⁸); e in 18,1 si legge: «Dopo aver detto queste cose, Gesù usci con i suoi discepoli…» (CEI²⁰⁰⁸). Si possono dare tante spiegazioni, che hanno una loro plausibilità. Una spiegazione potrebbe essere proprio questa e cioè che, nella prima edizione, si passava da Gv 14 a Gv 18 e che, pertanto, il blocco Gv 15-17 sarebbe un grande inserto nella trama.

    Gv 21 è l’ultimo blocco. Da molti punti di vista Gv 20 sembra essere un capitolo conclusivo. Non soltanto per gli ultimi due versetti: «³⁰Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. ³¹Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Ovviamente questo è un elemento importante; ma vi è tutta una serie di altri indizi che fanno di Gv 20 il capitolo di chiusura. Però poi segue Gv 21.

    Lo ripetiamo: si tratta di una ipotesi, che però mostra una certa plausibilità. Si ha l’impressione che, nella trama del racconto che si era già stabilizzata tanto da essere stata messa per iscritto, ad un certo punto sia stato inserito dell’altro materiale, venuto anch’esso dal «discepolo amato» e dalla sua tradizione.

    A mio giudizio, vi è una prima edizione, una prima stesura del vangelo secondo Giovanni, che è più breve, perché – se si accetta questa ipotesi – bisogna togliere cinque capitoli (Gv 6.15-17.21). Sempre a mio giudizio, sono poco credibili le posizioni di coloro che vogliono identificare dei singoli versetti. Sono state ipotesi molto sposate fino agli anni ’70 del secolo scorso, ma paiono francamente poco dimostrabili. Invece io vedo degli elementi di somiglianza, che accomunano questi tre blocchi e che si rivelano abbastanza persuasivi.

    Dunque, la prima stesura del QV sarebbe avvenuta verosimilmente in Asia Minore, ad Efeso; a mio giudizio questa rimane l’ipotesi più probabile. Se poi si accetta che l’Apocalisse vada comunque avvicinata al mondo giovanneo e al QV (le parentele sono innegabili), allora non si può dimenticare che le 7 lettere dell’Apocalisse sono tutte indirizzate a chiese dell’Asia Minore (Ap 2-3), con al centro la città di Efeso. Anche questo elemento spingerebbe verso questa direzione.

    3.2. Il conflitto con la sinagoga

    Un aspetto che ha giocato molto nella prima stesura del QV è stato il conflitto con la sinagoga, con oi ioudáioi, «i giudei».

    Infatti, mentre i capitoli che abbiamo indicati come aggiunti focalizzano su altre preoccupazioni, nei capitoli che costituirebbero la prima stesura del vangelo questo rapporto conflittuale e difficile con la sinagoga, coi giudei, appare ed è un elemento che dà pesantemente forma al QV. Usiamo la parola sinagoga a ragion veduta: la estrapoliamo da un termine giovanneo che si trova per tre volte nel vangelo: apósynágogos, ovvero: espulso dalla sinagoga. È un termine hapax, ovvero è un termine esclusivamente giovanneo; nel QV si trova tre volte.

    3.3. La comunità giovannea formata da ebrei e gentili

    Un ultimo elemento a proposito della prima stesura del vangelo riguarda la composizione della comunità, la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1