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Pienezza di vita: Teologia a partire dai vissuti credenti
Pienezza di vita: Teologia a partire dai vissuti credenti
Pienezza di vita: Teologia a partire dai vissuti credenti
E-book852 pagine11 ore

Pienezza di vita: Teologia a partire dai vissuti credenti

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Info su questo ebook

«Tutti coloro che credono nel Cristo, di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: tale santità promuove nella società terrena un tenore di vita più umano»: è il n. 40 di Lumen gentium. Secondo questa bella pagina conciliare la santità cristiana equivale a un autentico umanesimo. La vita di ogni giorno, con le sue varie frontiere – ecclesiali e sociali –, è l’orizzonte in cui teoria e prassi, ragione teologica e vissuto spirituale, s’incrociano continuamente e s’intrecciano strettamente. Registra efficacemente questo fatto la lezione di autori come Jean Mouroux, Hans Urs von Balthasar, Giuseppe De Luca, Giovanni Moioli, François-Marie Léthel, che sono tra gli ispiratori delle riflessioni teologiche qui argomentate. Ma lo testimoniano anche alcuni protagonisti del cattolicesimo italiano novecentesco, come i due fratelli Sturzo o don Lorenzo Milani e don Pino Puglisi, oppure come Giorgio La Pira, Chiara Lubich, Divo Barsotti, Cataldo Naro e, risalendo a ritroso, donne intraprendenti come Marianna Amico Roxas, Carmela Prestigiacomo, Nazarenai Majone, Vincenzina Cusmano, oppure intellettuali convintamente laici e consapevolmente credenti come Sebastiano Mottura, oltre che religiosi come il cappuccino Nicola da Gesturi, i vescovi Giovanni Battista Arista e Antonio Intreccialagli, il beato Giacomo Cusmano, l’oratoriano Giorgio Guzzetta, il redentorista Biagio Garzia, il missionario itinerante Ignazio Capizzi e il gesuita Luigi La Nuza, cui sono dedicati i vari capitoli di questo volume.
Presentazione del card. Marcello Semeraro
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2022
ISBN9788838252167
Pienezza di vita: Teologia a partire dai vissuti credenti

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    Anteprima del libro

    Pienezza di vita - Massimo Naro

    MASSIMO NARO

    PIENEZZA DI VITA

    Teologia a partire dai vissuti credenti

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2022 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN Edizione cartacea 978-88-382-5137-5

    ISBN Edizione digitale 978-88-382-5216-7

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838252167

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    PRESENTAZIONE

    BREVE CRITERIOLOGIA DI BASE: A MO’ DI PREMESSA

    IL CARMEN XX DI PAOLINO DI NOLA: MEDIAZIONE TRA DOGMA E PIETÀ POPOLARE

    1. Circolarità fra mediazione pastorale e giustificazione dottrinale

    2. Contenuti e tematiche di un carmen natalicium

    3. Nel crogiuolo delle dispute cristologiche

    4. Felice amico di Cristo: dogma cristologico e culto dei santi

    II. LA NUZA, CAPIZZI, GARZIA: PRETI RIFORMATORI, MISSIONARI NELLE INDIE DI SICILIA

    1. «Il dialogo con tutti»: riforma e valorizzazione del pluralismo

    2. «Cos’è questo Dio»: drammatizzare la catechesi

    3. Il «sogno del popolo»: pastorale con metodo missionario

    4. «Avvezzato ad ogni fatica»: formazione e predicazione

    III. SULLA CIMA DELLO SPIRITO: LA FISIONOMIA SPIRITUALE DI GIORGIO GUZZETTA

    1. Nell’orizzonte della modernità

    2. La coerente continuità con un lungo filone spirituale

    3. Incondizionatezza e gratuità

    4. La concretezza della santità

    IV. DALLO SCARTO ALLA SOLIDARIETÀ: MOTIVI TEOLOGICI DELL’UMANESIMO CUSMANIANO

    1. Teologia dei santi

    2. La «farmacia della Bibbia»

    3. Carità cittadina ed economia sacramentale

    4. Dignità umana e spinta promotiva

    V. COL VAPORE E COL TELEGRAFO: LA CHIESA NELLA MODERNITÀ PER SEBASTIANO MOTTURA

    1. Un ponte tra religione e civiltà

    2. Nella cittadella dell’intransigentismo

    3. L’opzione anti-infallibilista

    4. Teologia pascaliana

    VI. SCONGIURARE IL RISCHIO DI DERAGLIARE: IL DISCORSO SOCIALE DI ANTONIO INTRECCIALAGLI

    1. Un vescovo intrecciacuori

    2. Il discorso episcopale sulla società

    3. Autonomia dallo Stato e alterità rispetto alla società

    4. Prudenza strategica e sensibilità kairologica

    VII. GUARDARE ATTRAVERSO L’OSTIA: ERMENEUTICA TEOLOGICA DELLA STORIA IN G.B. ARISTA

    1. Teologia orante

    2. Theologia amoris

    3. L’inutile strage

    4. Realismo e lealismo

    VIII. DIO È INFINITA MISERICORDIA: PROFILO TEOLOGICO-SPIRITUALE DI NAZARENA MAJONE

    1. Una prospettiva teologica

    2. La specola della preghiera

    3. Asimmetrica polarità

    4. Chiamata ad essere contemporanea di Cristo

    IX. DIO PER DIO: CARMELA PRESTIGIACOMO CONTEMPLATIVA E APOSTOLA

    1. A cosa serve l’esperienza mistica

    2. Apostolato o contemplazione?

    3. Polarità tra contemplazione e apostolato

    4. Ogni cosa porta a Dio, ogni cosa parte da Dio

    X. ASSOLUTEZZA E TENEREZZA DI DIO: L’EPIFANICA TESTIMONIANZA DI NICOLA DA GESTURI

    1. Ricordare senza voltarsi indietro

    2. La santità: luogo teologico

    3. Il silenzio: dimensione teocentrica

    4. L’affabilità: dimensione cristocentrica

    XI. IMPRESCINDIBILE DIO: MARIO STURZO TRA MISTICA, FILOSOFIA E TEOLOGIA

    1. Di fronte e nella modernità

    2. Un’altra oggettività: l’autocomunicazione di Dio

    3. Una teologia per il mondo moderno

    4. Interconnessione e performatività

    XII. CON IL VANGELO NASCOSTO IN PETTO: LA SPIRITUALITÀ CIVICA DI LUIGI STURZO

    1. Al cospetto di Dio, dentro la storia

    2. Coerenza tra esperienza spirituale e impegno pastorale

    3. Quale vangelo?

    4. Attualità di un prete multitasker

    XIII. SANTITÀ E POLITICA: BINOMIO POSSIBILE PER GIORGIO LA PIRA

    1. Problematizzare la questione

    2. Recuperare le radici

    3. Il divorzio di ognuno da tutti

    4. Sognare il futuro costruendo il presente

    XIV. L’ECO DI CRISTO GESÙ: LETTURA TEOLOGICA DELLA POSITIO DI M. AMICO ROXAS

    1. L’impostazione metodologica

    2. Continuità o/e discontinuità

    3. Sotto la cifra del paradosso evangelico

    4. Valenza teologica della testimonianza credente

    XV. GRAZIA FULMINANTE: LA RIFLESSIONE TEOLOGICO-PASTORALE DI DON MILANI

    1. Lettura personale e autobiografica

    2. Una teologia del popolo

    3. La scuola ottavo sacramento

    4. Testimone prima e più che maestro

    XVI. PER UN RIPENSAMENTO DELLA MARTIROLOGIA: IL CASO ESEMPLARE DI PINO PUGLISI

    1. Dal martirio ai martiri

    2. Criteriologia martirologica

    3. Teologia dal martirio dei martiri

    4. Non cronaca ma profezia

    XVII. MISTICA E INTERPRETAZIONE DELLA SCRITTURA: L’ESEGESI SPIRITUALE DI DIVO BARSOTTI

    1. Teologia e vita cristiana

    2. Esegesi carismatica e teologia della Parola

    3. Armonia dei due Testamenti

    4. Il dirsi di Dio s’impasta di parole umane

    XVIII. LA «QUARTA STRADA» DI CHIARA LUBICH: CAMBIAMENTI ECCLESIALI E SOGGETTUALITÀ LAICALE

    1. Un secolo breve ma denso

    2. Metamorfosi ecclesiologiche

    3. Metamorfosi ecclesiali

    4. Soggettualità laicale

    XIX. INIZIARE PROCESSI, SEMINARE FUTURO: IL SERVIZIO PASTORALE DI CATALDO NARO

    1. Dentro il solco di una ferialità nazaretana

    2. Quasi un cordone ombelicale

    3. L’ermeneutica dell’effettiva riforma

    4. Dal concilio una Chiesa sinodale

    GIOIRE ED ESULTARE SI PUÒ: A MO’ DI CONCLUSIONE

    AUTORE

    INDICE DEI NOMI*

    CULTURA STUDIUM

    CULTURA

    Studium

    272.

    Massimo Naro

    Pienezza di vita

    Teologia a partire dai vissuti credenti

    Presentazione del card. Marcello Semeraro

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    La grande opera di riforma, in cui si impegnano i santi, è progettata e realizzata sulla base di una valutazione del momento storico, seppure sempre ad opera di una intelligenza cristiana educata dalla grazia, affinata dalla fedeltà a Cristo, resa sensibile dal riferimento al vangelo

    ( Cataldo Naro, Torniamo a pensare)

    Chi scrive non sarà mai all’altezza di chi muore

    (Albert Camus, Il primo uomo )

    PRESENTAZIONE

    Ciò che subito colpisce, di questo volume di Massimo Naro, probabilmente è il titolo scelto: Pienezza di vita , che allude alla santità cristiana quale opportunità graziosa di sperimentare «un tenore di vita più umano», come recita il n. 40 della costituzione conciliare Lumen gentium . Mi pare una sottolineatura importante. Le corrisponde un rapido passaggio dell’esortazione Gaudete et exsultate di papa Francesco, dove si legge: «La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia. In fondo, come diceva León Bloy, nella vita non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi» (n. 34). È così messo in evidenza un aspetto fondamentale dell’identità del santo: egli non è il supereroe, che procede vincitore, sul suo cavallo e con un fiore in bocca, in un campo popolato da sconfitti, ma un uomo che ha sperimentato la sua fragilità e la sua vulnerabilità e che proprio in esse ha incontrato Dio e in questo incontro ha trovato se stesso. Fra i primi apoftegmi di Antonio il Grande ve n’è uno che recita: «Questa è l’opera grande dell’uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio e attendersi tentazioni fino all’ultimo respiro»; per aggiungere subito dopo: «Nessuno, se non tentato, può entrare nel regno dei cieli; difatti togli le tentazioni e nessuno si salva» ( Alf 4-5). La santità, in altre parole, è agli antipodi del superuomo, ma è nel cuore dell’uomo reale. L’altro aspetto che la frase del papa mette in luce è che il cammino della santità è al tempo stesso ricerca del volto di Dio e crescita/maturazione della/nella propria verità.

    Insieme con Francesco vorrei citare l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, con un passaggio tratto dal suo intervento del 10 ottobre 2012, fatto nel corso della XIII assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi: «Essere pienamene umani significa essere creati nuovamente a immagine dell’umanità di Cristo; e quell’umanità rappresenta la perfetta traduzione umana del rapporto dell’eterno Figlio con l’eterno Padre, un rapporto di donazione di sé nell’amore e nell’adorazione, una reciproca effusione di vita» (n. 5).

    Per corredare ulteriormente queste battute destinate a incoraggiare alla lettura del lavoro di Massimo Naro, aggiungerei una calda esortazione del vescovo Tonino Bello, del quale il papa ha di recente riconosciuto l’esercizio eroico delle virtù. Egli la rivolse agli iscritti all’Azione Cattolica della diocesi di cui era pastore in occasione della tradizionale festa dell’adesione, l’8 dicembre 1990, e inizia così: «Siate soprattutto uomini. Fino in fondo. Anzi, fino in cima. Perché essere uomini fino in cima significa essere santi. Non fermatevi, perciò, a mezza costa: la santità non sopporta misure discrete» (in Scritti, VI, 220).

    Se il titolo del volume è in grado di dare l’intonazione giusta alla sua lettura, non è da meno il sottotitolo. Nell’editoria, difatti, accade talora che i titoli scelti siano una sorta di specchietto delle allodole al fine di convincere i lettori all’acquisto, magari lasciandoli poi delusi. Qui è esattamente il contrario. Cosa significhi l’espressione «vissuti credenti» (che richiama le riflessioni di Jean Mouroux e di Giovanni Moioli), Naro lo spiega subito nella sua premessa e coincide di fatto col terzo criterio che lo ha guidato nella stesura di quest’opera indubbiamente ricca e rilevante. Si tratta, in fin dei conti, di una memoria da custodire. Il cristiano – direbbe papa Francesco, facendo ricorso a un racconto di Jorge Luis Borges ( Funes el memorioso, tratto da Ficciones, 1944) – è proprio un memorioso. L’essere stesso del cristiano è un fare memoria. Un passaggio significativo al riguardo si può leggere in Evangelii gaudium: «La memoria è una dimensione della nostra fede che potremmo chiamare deuteronomica, in analogia con la memoria di Israele […]. Il credente è fondamentalmente uno che fa memoria» (n. 13).

    Sono davvero grato a Massimo Naro – cui, oltre alla cara memoria del fratello, il compianto arcivescovo Cataldo, mi legano lunga amicizia e stima – per avermi chiesto di scrivere alcune righe di presentazione. Gli sono grato se non altro perché così mi ha offerto la possibilità di leggere in anticipo queste sue pagine, indubbiamente ricche e dense, in una fase della mia vita che mi induce a concentrare il mio ministero e quindi la mia attenzione sulle cause dei santi. Compito della Congregazione delle Cause dei Santi, infatti, è trattare tutto ciò che, secondo la procedura prescritta, porta alla beatificazione e alla canonizzazione dei servi di Dio.

    Con questo sguardo, che direi professionale a motivo del mio attuale ufficio ecclesiastico, noto con piacere che nella sua opera Naro fa pure spesso ricorso alle Positio che sono, nel linguaggio curiale, il dossier contenente gli atti del processo, ossia le testimonianze orali e i documenti e gli acta causae, ovvero il dibattito tra il dicastero e gli attori della causa, finalizzato alla messa a fuoco dei vari problemi inerenti alla vita e all’attività del servo di Dio. Si tratta, pertanto, di materiale documentario di estrema importanza. Naro si riferisce frequentemente ad esse annotando, fra l’altro, che una Positio può essere letta «in una prospettiva storica e quindi anche biografica o, più precisamente, agiografica». Non soltanto. Con il rigore dello studioso che lo caratterizza egli osserva che «quanti vogliono conoscere o approfondire la conoscenza» di un servo o di una serva di Dio dovranno considerare la Positio come una fonte indispensabile. Ciò, tuttavia, non significa che esse siano accessibili a chiunque e questo non ultimo in ragione della privacy che è doveroso rispettare anche in questo caso. C’è, infatti, da dire in proposito che la Congregazione delle Cause dei Santi ha sempre mantenuto un atteggiamento di riservatezza a loro riguardo; condotta che di recente la Congregazione ha normato stabilendo che «gli atti dell’Inchiesta e la Positio sul martirio, sulle virtù eroiche, sull’offerta della vita e sul culto antico rimangono sub secreto fino a cinquanta anni dal termine della stessa Inchiesta […]. Per il periodo successivo ai cinquanta anni, la documentazione […] resta riservata. Eventuali consultazioni possono essere consentite da chi ne ha la custodia, tenendo presenti le leggi vigenti sulla privacy» ( Regolamento dei Postulatori, art. 50).

    Molto utili, già a livello introduttivo, sono pure i richiami a quella che Naro, sulla scia di autori come Hans Urs von Balthasar, Giovanni Moioli, François-Marie Léthel e altri ancora, chiama «agiografia teologica» e questo nel giusto intento di superare il «divorzio moderno fra teologia e mistica». La tesi e l’espressione – come ricorda pure Naro – furono formulate e sostenute per la prima volta da François Vandenbroucke con un articolo apparso nel 1950 su «Nouvelle Revue Théologique» e successivamente sono divenute una sorta di luogo comune. Naro le riprende per «incoraggiare una rinnovata integrazione tra fides qua e fides quae» nel fare teologia. D’altra parte, a conclusione dell’analisi dei profili di santità e dei vissuti credenti proposti nel volume, egli annota che «così la santità si rivela una faccenda concreta, alla portata di tutti».

    Quanto sopra, mi fa tornare alla memoria ciò che disse Benedetto XVI il mercoledì 13 aprile 2011, a conclusione di un ciclo di catechesi dedicate a sante e santi: «Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi». Aggiunse in conclusione una specie di personale confidenza, dicendo che per lui indicatori di strada non erano solo alcuni grandi santi, «ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità». In Gaudete et exsultate Francesco parla a sua volta della santità «della porta accanto», individuata «nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante» (n. 7).

    Le figure di santità studiate e presentate in questo volume sono in buona parte geograficamente e culturalmente collocate in Sicilia e in epoca contemporanea; non tutte, ovviamente, giacché la serie si apre con Paolino di Nola – «deliberatamente chiamato in causa quale testimone della coimplicazione tra fede dotta e fede popolare felicemente possibile in epoca patristica» – e prosegue con personalità spirituali dei secoli XVII e XVIII, come il gesuita siciliano d’origine spagnola Luigi La Nuza. Neppure si tratta in ogni caso di figure per le quali sia stato avviato, o concluso, un processo canonico per la beatificazione e la canonizzazione. Tutte, ad ogni modo, sono personalità spirituali emblematiche nella prospettiva dell’autore e non solo, motivo per cui compaiono – per esempio – i fratelli Sturzo assieme a un drappello di fondatrici di istituti religiosi e secolari o di vescovi esemplari, oltre che a rappresentanti altamente significativi del cattolicesimo italiano contemporaneo, come don Lorenzo Milani, Giorgio La Pira, Chiara Lubich.

    Noterei fra tutte queste figure (non certo per gerarchicizzare) almeno il richiamo a Giorgio Guzzetta, del quale è davvero recente il decreto di venerabilità. Personalmente ho letto con interesse e curiosità (se non altro per i miei precedenti ecclesiologici) le questioni sull’infallibilità relative a Sebastiano Mottura. È inoltre molto significativo lo sguardo sul «sacramento del povero» di cui parlava il beato Giacomo Cusmano: tematica che riecheggia quanto a tal proposito insegnavano già alcuni Padri della Chiesa, come il Crisostomo e il Nazianzeno, e poi ancora insigni predicatori francesi come Jacques Bénigne Bossuet e ancor più esplicitamente Henri-Dominique Lacordaire, il quale ebbe a dire che «il povero è un sacramento, così come è un mistero: è un sacramento intermedio, che non richiede da parte nostra preparazione alcuna, ma che ci comunica la grazia e ci dispone a ricevere il frutto dei sacramenti propriamente detti». Ma anche nella Francia contemporanea questo tema è stato ripreso, per esempio da Olivier Clément. Quanto a Divo Barsotti, si ricorderà che il 25 settembre 2021 è stata celebrata l’apertura dell’inchiesta diocesana sulla vita, sulle virtù eroiche e sulla fama di santità.

    Attenzione e acribia esigono le pagine dedicate al beato Pino Puglisi e alla proposta di un «ripensamento della martirologia». A tale riguardo, Naro cita la frase pronunciata da Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi sui «martiri per la giustizia e indirettamente della fede». Non c’è dubbio che il contesto estemporaneo o «semplicemente omiletico» di questa e simili affermazioni, pone certamente istanze di discernimento. Opportuno, in ogni caso, il richiamo al commento di san Tommaso alla lettera ai Romani (cfr. Super Rom., cap. 8, 1.7), a cui si potrebbe aggiungere quest’altro testo: «Causa sufficiens ad martyrium non solum est confessio fidei, sed quaecumque alia virtus, non politica, sed infusa, quae finem habeat Christum. Quolibet enim actu virtutis aliquis testis Christi efficitur, inquantum opera quae in nobis Christus perficit, testimonium bonitatis ejus sunt; unde aliquae virgines sunt occisae pro virginitate quam servare volebant, sicut beata Agnes, et quaedam aliae, quarum martyria in Ecclesia celebrantur» ( Super Sent., lib. 4 d. 49 q. 5 a. 3 qc. 2 ad 9). La riflessione sulla dilatazione dell’identità del martire è, in ogni caso, una questione da tenere in seria considerazione. Già Søren Kierkegaard, nel suo Diario, asseriva che «se Cristo tornasse al mondo, forse non sarebbe messo a morte, ma in ridicolo». Sembra, ad ogni modo, che la «classica» dottrina sul martirio sia per più ragioni da doversi conservare coi suoi due formali requisiti: ex parte victimae ed ex parte persecutoris. Altre tipologie, peraltro, oggi possono meglio rientrare nell’ offerta della vita, inaugurata da papa Francesco con il motu proprio Maiorem hac dilectionem dell’11 luglio 2017. Differente, invece, è il sacrificio di figure illustri, che testimoniano, ad esempio, il valore della legalità al di là dell’appartenenza confessionale.

    Il volume si conclude con la figura dell’arcivescovo Cataldo Naro, una cui citazione appare già in esergo. Rimandi bibliografici ai suoi scritti appaiono pure qua e là nel testo, segnali di una vita di studioso e di pastore dedicata alla Chiesa e alla sua storia e che nel servizio della Chiesa ha concluso la propria vicenda terrena; una vita durante la quale, come bene dice il titolo del capitolo a lui dedicato, ha iniziato processi e seminato futuro.

    Tra le riflessioni che, al termine della lettura, sorgeranno nell’animo, potrà senz’altro essere inserita questa, che traggo dall’esortazione Gaudete et exsultate, cui rimandano pure le pagine conclusive del libro, e che potrebbero essere un incoraggiamento a leggere con attenzione le pagine del volume che ora il lettore ha tra le mani: «Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione (1 Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del vangelo» (n. 19).

    Marcello Semeraro

    Cardinale Prefetto della

    Congregazione delle Cause dei Santi

    BREVE CRITERIOLOGIA DI BASE: A MO’ DI PREMESSA

    Per introdurre alla lettura delle pagine che seguono, mi pare utile innanzitutto una premessa di tipo metodologico, con cui spiegare i tre criteri che in questo libro sono stati assecondati e applicati, talvolta parimenti e contemporaneamente, altre volte uno più degli altri due o viceversa.

    Il primo di questi criteri è la dialettica pendolare tra continuità e discontinuità. Continuità: cioè stretta connessione, inevitabile influsso su una determinata personalità spirituale da parte del contesto epocale in cui è vissuta e ha operato. Inoltre discontinuità: cioè la sua capacità di eccellere rispetto a quel medesimo ambiente di riferimento, la tendenza a emergere in e da quello stesso contesto epocale. La vicenda di una personalità spirituale, considerata in quest’ottica, può apparire come una specie di matassa, arrotolata di fili diversi ma legati fra di essi: per individuarne il bandolo e srotolarla occorre discernere tra i vari fili senza compromettere i nodi in forza di cui stanno insieme. Si tratta di distinguere senza distanziare ciò che di epocale, di culturale, di religioso l’accomuna agli altri suoi contemporanei e ciò che di grazioso e di carismatico o di pneumatico costituisce la radicale novità del suo modo di stare in rapporto con Dio e divenirne – dentro la storia, nel mondo – fascinosa trasparenza.

    Il secondo criterio è la dialettica polare tra storia civile e storia ecclesiale. Anch’esse, seppur distinte, non rimangono mai distanti. Si esigono a vicenda, si verificano reciprocamente: l’una è il banco di prova dell’altra e viceversa. Insieme danno adito a una maniera tipicamente moderna di concepire la storia e di produrre storiografia: non c’è più la presunzione che Chiesa e società siano la medesima realtà, appiattite l’una all’altra o giustapposte a tal punto da coincidere e da confondersi. Nel caso italiano, conclusosi il processo risorgimentale, è divenuto evidente che le loro ispirazioni sono differenti. Il ritmo del loro respiro non è sincronico: il fiato dell’una talvolta può voler dire l’affanno dell’altra. E tuttavia Chiesa e società continuano a compenetrarsi a vicenda, poiché i credenti in Cristo non cessano d’essere cittadini della città terrena. Ecco perché bisogna riconoscere anche a questo livello l’unità e l’unicità della storia: la storia della Chiesa non è disparata rispetto alla storia della società e non può esserci una storia sociale che non prenda in considerazione i contributi o le resistenze che si registrano nell’orizzonte della storia ecclesiale. Del resto, se la Chiesa è complexa realitas, come insegna il Vaticano II in Lumen gentium n. 8, lo è anche per il grumo di sangue, per i brandelli di carne, per le gocce di sudore che essa assume – con attitudine incarnatoria – dal contesto umano in cui trapianta le sue celesti radici. Ecco perché per rimarcare i contorni della non meno complessa vicenda dei santi o, comunque, dei personaggi spirituali eminenti e al limite delle personalità spirituali in qualche misura e per qualche motivo particolarmente esemplari, occorre concedere un certo spazio al contesto sociale, culturale, religioso ed ecclesiale in cui hanno operato. Significa – per dirlo in altri termini – concedere diritto di cittadinanza anche alle ombre oltre che alle luci, rispettando i documenti d’archivio, mentre pur se ne fa criticamente la tara. Questo realismo storiografico e questa onestà intellettuale costituiscono l’abc del mestiere dello storico, ma anche del teologo, che scrivendo delle personalità spirituali non racconta aneddoti improbabili ancorché commoventi e men che meno riferisce fantasie disincarnate , da relegare in una «patetica storia paleocapitalista» come pur insinuava Sergio Quinzio in un suo saggio del 1986 in cui si poneva alcune critiche «domande sulla santità» dei santi sociali piemontesi. Anche per il teologo è d’obbligo mettersi al riparo dal rischio dell’idealizzazione e resistere alla tentazione dell’ideologizzazione: così si ricorda la storia e così pure la si interpreta teologicamente.

    Il terzo criterio è quello – potremmo dire – dell’interesse affettivo, da coniugare doverosamente con l’acribia documentaria: nel nostro caso, affetto – cioè intima stima oltre che attenzione scientifica – verso persone, istituzioni e situazioni che hanno tracciato i solchi delle vicende riferite e commentate nel libro. Qui sta lo snodo di una questione metodologica importante: scrivere dei vissuti credenti significa ricostruire obiettivamente oppure custodire affettuosamente (s’intende, innanzitutto, nel cuore: perciò ricordare, con tutta la valenza teologica che la voce verbale ha già in Lc 2,19 e Lc 2,51)? Certamente la memoria dev’essere ricostruita: si deve, cioè, rintracciare e accertare nei documenti d’archivio, nelle lettere, nei diari privati, negli scritti ufficiali e pubblici, nelle opere edite ed eventualmente in quelle inedite recuperate nel fondo di un cassetto, persino nelle fotografie d’epoca se ben osservate. Ma la memoria si può anche – e si deve pure – custodire: nel ricordo di coloro che sono stati protagonisti di ciò di cui si fa memoria e, soprattutto, nella loro testimonianza. Alla fatica della ricerca archivistica, infatti, non si può non accompagnare il discernimento dei ricordi e delle testimonianze. In questo senso l’interesse scientifico si apparenta con l’interesse affettivo e quest’ultimo non risulta più un inciampo epistemologico: ci può essere una coerente corrispondenza tra custodia e ricostruzione della memoria. La ricerca storica, in tale prospettiva, si trasforma in un’agiografia moderna, sobria e niente affatto oleografica, nelle cui pagine il rigore di tipo scientifico viene accompagnato dal rispetto della devozione verso i santi e verso le eminenti personalità spirituali. Nella ricostruzione della vicenda dei santi la ricerca storica e la devozione sono istanze distinte. Ma non devono per questo esser divaricate. Esse si esprimono in termini differenti riguardo alla personalità spirituale cui si riferiscono. Ne vogliono evidenziare aspetti diversi e vogliono promuoverne secondo diverse prospettive la memoria: rispettivamente per investigarla criticamente o per tramandarla con venerazione. Tuttavia i loro percorsi spesso s’incrociano. La verifica critica e quindi l’attendibilità storica non possono che tornare utili per dare fondamento e consistenza alla devozione.

    Qui, tuttavia, non si tratta semplicemente di studiare devotamente. La devozione è pure oggetto di studio, sia storico sia teologico. Ed è intesa con un significato analogo a ciò che Giuseppe De Luca chiamava pietà, senza d’altra parte diversificarla troppo rispetto alla spiritualità, come invece preferiva precisare l’insigne storico lucano, anzi considerandola quasi una specificazione dell’esperienza spirituale, secondo la lezione di Jean Mouroux.

    Del resto, la devozione sta a segnalare che la vicenda biografica che viene studiata è quella di una persona che s’è lasciata coinvolgere nel misterioso – e perciò mai del tutto oggettivabile – rapporto salvifico con Dio. In realtà la devozione non viene mortificata da una rigorosa ricerca storica. E la ricerca storica non perde neppure un poco della sua serietà quando si rivolge all’esperienza spirituale e al vissuto credente dei santi. Un’affermazione alquanto nota di Martin Heidegger può essere assunta quale chiave esplicativa di questo terz’ultimo criterio: Denken ist Danken, pensare è ringraziare. Mi permetto di proporne una possibile ermeneutica, prescindendo dai rimandi forse impliciti a Cartesio e a Kant, per esprimere il senso di ciò che sto qui affermando. Pensare ( Denken), secondo la densa semantica del termine tedesco, può equivalere al ricordare, cioè al pensare e al pensare di nuovo, al pensare con insistenza oltre che con serietà, al ri-pensare. Dal canto suo, il render-grazie ( Danken), o più radicalmente l’esser-grati ( Verdanken, esser-riconoscenti, potremmo anche dire con Klaus Hemmerle), può equivalere allo sperimentare una grazia. Ricordare seriamente le personalità spirituali di cui scrivo in questo libro, ripensare anche criticamente la loro maniera di intendere e di vivere il vangelo, ricordare la loro testimonianza umana e cristiana, può corrispondere a un’occasione di grazia, a un provvidenziale kairós.

    E può anche esser d’aiuto per gettarsi alle spalle il divorzio moderno fra teologia e mistica segnalato già nel 1950 da François Vandenbroucke. Vale a dire lo scollamento tra l’esercizio della ragione teologica e la santità – e, più a monte, la spiritualità cristiana –, denunciato ancor prima da Balthasar in un saggio del 1948, divenuto ormai un classico ( Theologie und Heiligkeit). Seguendo alcuni autori che hanno studiato nei decenni scorsi tale questione – a cominciare dal compianto Giovanni Moioli, per arrivare a Claudio Stercal e a Domenico Sorrentino – riusciamo a risalire al momento epocale e, dunque, alla congiuntura culturale, in cui la separazione fra teologia e spiritualità si è consumata: il tardo Medioevo nominalistico. I fattori che allora entrarono in gioco sono diversi ma correlati: la rivalutazione e la recezione della metafisica aristotelica già durante l’XI secolo, la conseguente configurazione scientifica della teologia, lo iato insorto tra ragione e fede a seguito di una reciproca autonomia esasperata in contrapposizione. Tra questi fattori occorre annoverare anche quello che a me sembra il più utile per approfondire la questione del divorzio fra teologia e spiritualità, cioè la distinzione fra teologia erudita e teologia mistica o, come scriveva Balthasar, fra teologia scientifica e teologia edificante o devota, e fra teologi seduti in cattedra e teologi in ginocchio. Questo sdoppiamento nella teologia, che già nella Summa Theologiae di Tommaso si era preannunciato quale distinzione fra una teologia argomentata philosophice e una teologia ricavata ex Scripturis – peraltro dall’Aquinate ancora magistralmente tenute assieme –, questo specializzarsi della teologia in mistica ed erudita, costituisce la cifra più evidente del divorzio che si andava consumando nella stagione autunnale del Medioevo e, ancor peggio, costituisce la spia più allarmante di un processo di estinzione: andava scomparendo la figura del teologo totale, cioè non del santo e neppure del teologo, ma del teologo santo e del santo teologo. Soprattutto di quest’ultimo. Di fatto, finita l’epoca patristica si fece sempre più raro il fenomeno della coincidenza personale tra santi e teologi, che invece era straordinariamente frequente nei primi secoli del cristianesimo. Non che anche in epoca patristica non si possano facilmente registrare le tendenze troppo intellettualistiche di alcuni teologi che, contraddicendo la fede popolare, diventarono protagonisti di virulenti conflitti intra-ecclesiali: si pensi alla crisi nestoriana. E neppure si può dimenticare che molti teologi del Medioevo furono ancora dei santi: da Bernardo di Chiaravalle ad Anselmo d’Aosta, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino e a Bonaventura da Bagnoregio. Ma il nuovo assetto accademico della Scolastica rese fatalmente più farraginoso il circuito tra esperienza spirituale e studio teologico.

    D’altra parte, lo scollamento tardo-medievale fra teologia e santità è da capire come qualcosa di molto più complesso di una semplice rinuncia dei teologi al vissuto spirituale. Non sono soltanto i teologi che scelgono di concentrarsi sulle loro elucubrazioni smettendo di privilegiare il loro rapporto con Dio. Sono anche i santi che non si trovano più a loro agio con una teologia in cui l’aspetto nozionale cominciava a surclassare quello esperienziale. Da questo punto di vista, dal tardo Medioevo in poi, al deficit teologale della riflessione teologica si è accompagnato, specularmente, il deficit teologico nel vissuto spirituale di tanti santi. «Per molti spirituali – ha rilevato Balthasar con lieve ma evidente ironia – lo studio della filosofia e della teologia divenne un esercizio di penitenza prolungato». La conseguenza è stata che nessun grande teologo ha più scritto, in epoca moderna, qualcosa di equiparabile alle Confessiones di Agostino. Neppure, però, i grandi santi moderni e contemporanei l’hanno fatto. Teresa di Lisieux – ha fatto notare Balthasar – avrebbe potuto lasciare pagine significative dal punto di vista teologico se, scrivendo di sé e tematizzando le proprie esperienze spirituali, fosse stata nella condizione intellettuale di andare oltre una «autobiografia devota», lei che pure annotava nei suoi manoscritti che avrebbe voluto studiare per leggere la Bibbia nelle lingue in cui fu scritta.

    Come sanare questo divorzio, che azzoppa ancor oggi sia la mistica sia la teologia, facendo sembrare la prima un fenomeno da baraccone alquanto improbabile e stravolgendo i connotati epistemologici della seconda, non tanto perché divarica ratio e fides ma in quanto sopravvaluta la fides quae a discapito della fides qua (mi perdoni chi è convinto che questa terminologia classica sia stantia: qui vi faccio ricorso sulla scia di Balthasar), cioè il principio oggettivo della teologia stessa a discapito del suo co-principio soggettivo? Un modo efficace potrebbe essere quello intuito da Domenico Sorrentino e da François-Marie Léthel, i quali hanno parlato – da punti di vista diversi ma non incompatibili – di agiografia teologica come nuovo modo di pensare la teologia considerando la santità o la mistica o anche più semplicemente l’esperienza credente e il vissuto spirituale quali veri e propri luoghi teologici e i santi o i mistici o gli spirituali quali veri teologi, seppur sui generis: una teologia, insomma, non solamente della santità e della mistica, ma anche, finalmente, dalla santità e dalla mistica. Si potrebbe, in tale prospettiva, superare l’estrinsecismo moderno tra ragione e fede. E incoraggiare una rinnovata integrazione tra fides qua e fides quae, magari sull’esempio incarnato da personalità spirituali come quelle di cui in questo libro si legge, tutte vissute – tranne Paolino di Nola, che qui è deliberatamente chiamato in causa quale testimone della coimplicazione tra fede dotta e fede popolare felicemente possibile in epoca patristica – proprio in età moderna e contemporanea.

    Ma un’altra maniera efficace potrebbe essere quella che papa Francesco chiama a più riprese, in Evangelii gaudium, la «mistica popolare»: il divorzio si risana se si fa capolino oltre lo scrittoio e oltre l’inginocchiatoio, se si esce fuori dalle sacrestie e fuori dalle biblioteche, se ci si stringe nella comunione dell’amore concreto, se ci prendiamo a braccetto per sostenerci gli uni con gli altri, se ci prendiamo in braccio per soccorrerci vicendevolmente, guardando gli altri – lo diceva il beato Giacomo Cusmano, cui in questo libro è riservato un capitolo – come un ottavo sacramento e scegliendo – lo suggeriva Michel de Certeau – di non restare mai senza gli altri e, perciò, mai senza l’Altro.

    La vita di ogni giorno, con le sue varie frontiere – ecclesiali e sociali –, è l’orizzonte in cui teoria e prassi, ragione teologica e vissuto spirituale, s’incrociano insistentemente e s’intrecciano strettamente. Registrano efficacemente questo fatto autori come Giovanni Moioli, Jean Mouroux, Hans Urs von Balthasar, Giuseppe De Luca, François-Marie Léthel, Dietrich Bonhoeffer, che sono tra gli ispiratori delle riflessioni teologiche qui argomentate. Ma lo testimoniano anche alcuni protagonisti del cattolicesimo italiano novecentesco, come i due fratelli Sturzo o don Lorenzo Milani e don Pino Puglisi, oppure come Giorgio La Pira, Chiara Lubich, Divo Barsotti, Cataldo Naro e, risalendo a ritroso, donne intraprendenti come Marianna Amico Roxas, Carmela Prestigiacomo, Nazarena Majone, Vincenzina Cusmano, oppure intellettuali convintamente laici e consapevolmente credenti come Sebastiano Mottura, oltre che religiosi come il già citato Giacomo Cusmano, il cappuccino Nicola da Gesturi, i vescovi Giovanni Battista Arista e Antonio Augusto Intreccialagli, l’oratoriano Giorgio Guzzetta, il redentorista Biagio Garzia, il missionario itinerante Ignazio Capizzi e il gesuita Luigi La Nuza, cui sono dedicati i vari capitoli di questo volume.

    IL CARMEN XX DI PAOLINO DI NOLA: MEDIAZIONE TRA DOGMA E PIETÀ POPOLARE

    1. Circolarità fra mediazione pastorale e giustificazione dottrinale

    Gli studi che indagano e illustrano la riflessione teologica di Paolino di Nola sono diventati soltanto negli scorsi decenni meno rari rispetto al passato [1] . Il relativo disinteresse per la teologia di Paolino sembra dovuto al fatto che pochi sono i luoghi – nella sua pur consistente produzione letteraria pervenutaci, che consta di un voluminoso epistolario e di trentatré carmi – in cui l’asceta nolano s’impegna in speculazioni prettamente teologiche.

    Eppure, nel carme XX, che qui viene preso in considerazione proprio dal punto di vista teologico, traspare un Paolino che dimostra di essere al corrente del dibattito cristologico che nei primi decenni del V secolo si svolgeva nei grandi centri della Chiesa di lingua greca, Antiochia e Alessandria, e che interessava anche alcuni importanti dottori della Chiesa latina. Il componimento poetico – probabilmente destinato ad essere declamato agli umili pellegrini che transitavano per Nola – mostra la valenza catechetica dell’approccio tentato da Paolino ai maggiori temi cristologici dell’epoca, testimoniandone l’intento di mediare le dottrine teologiche, disputate nelle controversie di scuola e definite nei concili ecumenici, ai fedeli che vivevano il loro cristianesimo non dotto, ma non per questo eterodosso, presso il sacrario del martire san Felice. D’altra parte, poiché i versi paoliniani costituiscono pur sempre un prodotto culturale molto fine, a quel tempo fruibile letterariamente solo da una ristretta cerchia di persone colte, la mediazione tra dogma cristologico e pietà popolare vi si configura anche nei termini di una giustificazione dottrinale della devozione cristiana ai santi – talvolta analoga e tuttavia sempre diversa rispetto a certe usanze religiose pagane –, con cui Paolino sembra voler accreditare sia il cristianesimo dei semplici presso gli intellettuali cristiani, sia il cristianesimo in quanto tale presso i letterati pagani, questi e quelli spesso accomunati dal pregiudizio di avere a che fare – di fronte ai fenomeni religiosi descritti dal poeta nolano – con antiche e invincibili superstizioni. Proprio tale sensibilità pastorale e tale preoccupazione apologetica vengono qui assunte unitariamente come uno di quei «registri teologici» che – come è stato osservato da Domenico Sorrentino – sono rintracciabili nell’opera paoliniana e che la caratterizzano, almeno in parte, quale autentica teologia [2] .

    Questo primo capitolo, accontentandosi di accennare solamente alle numerose tematiche che s’incontrano leggendo il carme XX, cerca di chiarire la posizione di Paolino nel crogiuolo delle dispute cristologiche degli anni a cavallo tra IV e V secolo, e d’illustrare il tentativo del poeta di giustificare e, contemporaneamente, ispirare teologicamente la pietà popolare dei cristiani delle contrade nolane.


    [1] La mancanza di studi sulla teologia paoliniana è stata per lungo tempo una lacuna, finalmente colmata da un convegno tenutosi a Nola (18-20 maggio 1995), in cui sono state prese in considerazione l’ecclesiologia, l’antropologia, la cristologia e persino la staurologia sottese nelle pagine di Paolino: cfr. Aa.Vv., Anchora Vitae. Atti del II Convegno paoliniano nel XVI centenario del ritiro di Paolino a Nola, a cura di G. Luongo, LER, Napoli-Roma 1998. Cfr. inoltre D. Sorrentino, Nuove prospettive su Paolino di Nola, in «Asprenas», XLII, 1995, pp. 413-424.

    [2] D. Sorrentino, La «teologia» di Paolino di Nola: problematica e prospettive, in Aa.Vv., Anchora Vitae, cit., pp. 487-511, contestando la tesi della non-teologicità degli scritti paoliniani argomentata già da J.T. Lienhard e ancor prima da P. Fabre, rileva oltre ad alcuni «contenuti» anche e soprattutto alcuni «registri» – quello dossologico, quello affettivo-sapienziale, quello estetico – che, pur non essendo speculativi né sistematici, risultano comunque funzionali a un approccio propriamente teologico alle verità di fede da parte di Paolino.

    2. Contenuti e tematiche di un carmen natalicium

    Il c. XX fu composto da Paolino nel 406. Esso è annoverato tra i cosiddetti carmina natalicia – di cui è il dodicesimo – che il monaco nolano, già presbitero ma non ancora vescovo della cittadina campana, compose dal 395, anno del suo arrivo a Nola, al 409, allorché succedeva sulla cattedra episcopale al defunto vescovo Paolo [1] . I carmina natalicia servivano a Paolino per celebrare, ogni 14 gennaio, la festa del santo patrono di Nola, Felice, che allora riscuoteva la devozione di buona parte della popolazione cristiana in Campania. Così Paolino assecondava la tradizione cristiana del culto dei santi – la quale faceva coincidere la loro morte con la loro nascita alla vita beata ( dies natalis) –, recuperando però un genere letterario già conosciuto dai letterati pagani che, col carmen natalicium, celebravano il genetliaco degli uomini più in vista, facendo particolare riferimento non soltanto alla persona e alle imprese del festeggiato, ma anche al genius, al demone che proteggeva lui e il suo casato [2] . Nei versi del poeta di Nola, san Felice era appunto ricordato per il suo esemplare vissuto cristiano, ma al contempo veniva celebrato come il celeste protettore dei devoti che lo festeggiavano.

    Paolino aveva frequentato la scuola di Ausonio, rinomato poeta del IV secolo, e possedeva dunque molto bene gli strumenti per comporre buona poesia [3] . Con la poesia, tuttavia, egli non si limitò ad esprimere i sentimenti del proprio animo o a descrivere gli eventi in cui era coinvolto o a cui assisteva da semplice spettatore; volle essere pure un cantore delle verità cristiane, rivendicando alle strategie dell’evangelizzazione la sensibilità pedagogica che la grande poesia latina aveva già a sua volta avuto e dimostrato. Insieme a Prudenzio, egli appartenne a quella cerchia di poeti cristiani latini che «s’efforçaient d’habiller à la mode de Virgile et d’Horace les idées religieuses nouvelles» [4] . Pur rinunciando agli allori che l’attività poetica poteva ancora assicurare nei secoli IV-V all’interno dei circoli intellettuali tardo-imperiali, egli non smise di poetare, né dimenticò i canoni artistici che Ausonio gli aveva insegnato, bensì finì per servirsene «in funzione» della sua opera evangelizzatrice [5] . È per questo che la sua poetica, classica nella forma ma cristiana nel contenuto, non contraddisse il suo impegno religioso e il tenore ascetico della sua vita di convertito [6] ; piuttosto risultò un valido sostegno agli sforzi catechetici compiuti a Nola per divulgare tra i popolani le verità della fede e per rendere sempre più coerente al vangelo il culto di san Felice [7] . Per Paolino la poesia, cui un cristiano può e deve aspirare, fu principalmente quella che scaturisce dalla fede e annuncia la fede [8] .

    Reputo legittimo ipotizzare che nel tentativo paoliniano di mediare la fides nella pietas, la liturgia – soprattutto la sinassi eucaristica – si prestasse bene ad essere compresa come una concrezione della logica incarnatoria, secondo cui tutto viene ricapitolato in Cristo affinché niente venga escluso dalla salvezza, neppure le più diverse ed eterogenee esperienze religiose. Ma per Paolino anche le espressioni della religiosità non cristiana disposte a lasciarsi innestare e salvare dalla fede cristiana obbedivano alla stessa logica incarnatoria; in tal senso i carmina natalicia mostravano la propensione della pietas a recepire il dogma, e al contempo la capacità della nova lex credendi di avere vigore anche come lex orandi et vivendi, pure al di fuori della liturgia, nel variegato vissuto religioso dei cristiani nolani, aiutati così a permanere nella conversione a Cristo, nuova e vera esperienza religiosa di chi vede operare Dio nella propria vita. Nella stessa direzione si muovevano altre personalità di spicco dell’epoca, come Ambrogio di Milano e Agostino d’Ippona [9] .

    Il contenuto dei 444 versi esametri, che compongono il c. XX, costituisce una tipica presentazione della devozione popolare a san Felice, fatta di pellegrinaggi e offerte votive, di preghiere accorate e di gesti di carità verso i poveri, e vivacizzata dal racconto di numerosi miracoli che il santo otteneva in favore dei suoi devoti. I vv. 1-61 fungono da introduzione dottrinale alla narrazione di tre miracoli che offrivano a Paolino motivo ben degno per solennizzare la festa di san Felice.

    Del primo miracolo (vv. 62-300) sono protagonisti un cavallo e il suo padrone, un contadino avellinese, che s’era recato a Nola per offrire al santo un maiale in sacrificio votivo. Il contadino, tuttavia, non aveva ottemperato ai doveri della cristiana carità verso i poveri che mendicavano presso il santuario, poiché aveva preferito riportare con sé le migliori carni dell’animale, dopo aver lasciato agli affamati solo le interiora [10] . Ma sulla via del ritorno finì per infortunarsi e le redini della sua cavalcatura gli sfuggirono di mano; il cavallo, però, carico delle carni suine, tornò «spontaneamente» («sponte sua»: v. 98) indietro sino al sepolcro di san Felice. Il contadino, interpretando tutto ciò come un segnale divino, si fece ricondurre presso la tomba del santo e impetrò il favore di una pronta guarigione. Ottenuto il miracolo, egli diede le carni precedentemente macellate per sfamare i mendicanti, in lode e onore del santo.

    Per il secondo miracolo (vv. 301-387) Paolino narra di alcuni contadini che avevano promesso in voto a san Felice un maiale molto pingue. Ma lungo la strada verso il santuario, essendosi azzoppata la bestia e non potendo essa esser trasportata per la sua gran mole, i pellegrini preferirono commutare l’offerta con altri suini più piccoli e magri, tanti da eguagliare il peso del grosso maiale. Dopo essere arrivati al sepolcro di san Felice, si accorsero con meraviglia che lì era giunto, pur da solo, anche l’animale che avevano abbandonato per strada: questo offriva il collo, quasi fosse «consapevole» («conscius»: v. 366) di doversi concedere in oblazione al santo.

    Il terzo miracolo (vv. 388-436) vede sulla scena una giovenca, che, pur non lasciandosi aggiogare dai contadini che intendevano offrirla in voto a san Felice, corse da sola fino al sacrario, «lieta» («laeta»: v. 436) di dare la vita per il culto e la lode del santo e per sfamare con le proprie carni i poveri che bivaccavano presso il santuario [11] .

    Le tematiche che si possono studiare leggendo il c. XX sono tante: si va dalla contiguità della poesia paoliniana con la poetica naturale e rurale di matrice e tradizione virgiliane, alle pratiche cultuali pagane – in cui di nuovo pare riecheggiare la sacra pietas degli eroi virgiliani – e alle tradizioni religiose locali precristiane poste in rapporto al culto cristiano dei santi [12] ; dall’interesse che il poeta mostra per i miracoli, intesi come segni della condiscendenza di Dio verso i devoti [13] , alla curiosa utilizzazione degli animali in seno a narrazioni della più antica e genuina pietà popolare [14] , e al valore attribuito ai pellegrinaggi verso santuari e centri cristiani di preghiera [15] .

    La tematica che qui si tenta di considerare con maggiore attenzione è, tuttavia, quella di una certa cristologia paoliniana, presente con formule poco altisonanti, ma certamente riscontrabili nel c. XX. È questa cristologia che fa di esso il testimone di una vera e propria pietà popolare dei devoti di san Felice: la devozione al santo, nutrita e motivata da una salda dottrina cristologica, traspare dal c. XX di Paolino come nuova e autentica pietas, ove il termine designa la fede vissuta nella quotidianità dell’esistenza personale, sociale ed ecclesiale dei cristiani nolani dei secoli IV e V [16] .


    [1] Ponzio Meropio Paolino nacque a Bordeaux nel 353 in seno ad una ricca famiglia patrizia; lì frequentò la scuola del poeta Ausonio. Nel 379 – mentre era imperatore d’Occidente Graziano, altro allievo di Ausonio – divenne governatore della Campania, che in gran parte era compresa nei possedimenti della sua famiglia. Nel 390 fu battezzato. Nel 394 fu ordinato presbitero a Barcellona. Di lì a poco, insieme alla moglie Terasia, si trasferì definitivamente a Nola, per condurvi vita ascetica. Nel 409 divenne vescovo e lo rimase per ventidue anni, fino al momento della sua morte, avvenuta nello stesso giorno in cui si apriva il concilio di Efeso, il 22 giugno 431. Un profilo agile e completo della sua figura traccia É. Amann, Paulin de Nole, in Dictionnaire de théologie catholique, Letouzey et Ané, Paris 1933, XII/1, cll. 68-71; cfr. anche J.T. Lienhard, Paulin de Nole, in Dictionnaire de spiritualité, Beauchesne, Paris 1984, XII/1, cll. 592-602; S. Costanza, Paolino di Nola, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato 1983, II, cll. 2609-2612.

    [2] Cfr. Paolino di Nola, I carmi, a cura di A. Mencucci, Cantagalli, Siena 1970, pp. 191-205 e Id., I carmi, a cura di A. Ruggiero, Città Nuova, Roma 1990, pp. 20-24 e 71-74. Sull’antico genere letterario natalizio cfr. S. Costanza, I generi letterari nell’opera poetica di Paolino di Nola, in «Augustinianum», XIV, 1974, pp. 637-650.

    [3] Cfr. W.S. Watt, Notes on the poems of Paulinus Nolanus, in «Vigiliae Christianae», LII, 1998, pp. 371-381. Sul milieu culturale in cui si formò Paolino negli anni della gioventù, in Aquitania, cfr. B. Studer, Eruditio Veterum, in Storia della teologia, dir. da A. Di Berardino e B. Studer, Piemme, Casale Monferrato 1993, I, pp. 333-371, spec. pp. 334-346. Particolarmente chiarificatore è C. Riggi, L’eclettico dialogo tra pagani e cristiani nella famiglia di Ausonio, in «Salesianum», XXXVI, 1974, pp. 443-462. Cfr. pure V. Messana, Aspetti e momenti di formazione scolare (e religiosa) nel «corpus» di Ausonio, in Aa.Vv., Crescita dell’uomo nella catechesi dei Padri (età postnicena), a cura di S. Felici, Las, Roma 1988, pp. 201-223; Aa.Vv., La poesia tardoantica: tra retorica, teologia e politica, Centro Studi Umanistici, Messina 1984; J. Fontaine, Letteratura tardoantica. Figure e percorsi, Morcelliana, Brescia 1998 e K. Smolak, La poesia cristiana latina tra il quarto e il quinto secolo, in «Salesianum», LXII, 2000, pp. 19-39.

    [4] É. Amann, art. cit., cl. 70. Cfr. inoltre G. Antignani, Attualità di poeti lontani: Prudenzio e Paolino, in «Rivista di Ascetica e Mistica», LXVII, 1998, pp. 239-246.

    [5] Cfr. S. Costanza, I generi letterari, cit., p. 638.

    [6] Cfr. M. Skeb, Christo vivere. Studien zum literarischen Christusbild des Paulinus von Nola, Borengässer, Bonn 1997, interamente dedicato alle radici cristologiche della conversione cristiana nella vita e negli scritti del poeta nolano. Inoltre vedi il confronto tra Paolino e Ausonio, in I. Gualandri, Letteratura cristiana e pagana, in Aa.Vv., L’impero romano-cristiano. Problemi politici, religiosi, culturali, Coletti, Roma 1991, pp. 167-168, e R.A. Markus, La fine della cristianità, Borla, Roma 1996, pp. 53-58, che sottolineano il carattere rigorosamente ascetico della conversione di Paolino, incompreso e criticato da parte di Ausonio. Più in generale cfr. G. Bardy, La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book, Milano 1975, spec. il cap. V: «Le esigenze della conversione cristiana», pp. 166-210; R. MacMullen, La diffusione del cristianesimo nell’impero romano (100-400), Laterza, Bari 1989, spec. il cap. VIII: «La conversione degli intellettuali», pp. 79-84; Ch. Gnilka, La conversione della cultura vista dai Padri della Chiesa, in Aa.Vv., L’intolleranza cristiana nei confronti dei pagani, a cura di P.F. Beatrice, EDB, Bologna 1993, pp. 125-150. Sul rapporto fra elaborazione intellettuale, esperienza di fede ed esigenze estetiche nella poesia latina tardo-imperiale cfr. F. Stella, Poesia e teologia. L’Occidente latino tra IV e VIII secolo, Jaca Book, Milano 2001.

    [7] È chiaro lo sforzo di Paolino di purificare l’immaginario popolare da elementi non cristiani, retaggio di usi e costumi pagani: l’asceta nolano desiderava che le preghiere, le genuflessioni, le elevazioni delle mani, le cantilene, le offerte votive, che i fedeli facevano presso il sepolcro di san Felice, non fossero contaminate da reminiscenze cultuali pagane. Il culto a san Felice doveva scaturire da un sentimento interiore di pura devozione verso il Cristo e verso il santo patrono che al Cristo aveva dedicato la sua vita. Cfr. a proposito il c. XIX,164-306, in cui Paolino distingue nettamente la vera pietas christiana dalle superstizioni idolatriche pagane. Coglie bene questo aspetto negli scritti paoliniani P. Palazzini, La santità canonizzata e il culto di S. Paolino di Nola, in Aa.Vv., Atti del convegno: XXXI Cinquantenario della morte di S. Paolino di Nola (431-1981), a cura della Academia Bessarionis, Herder, Roma 1982, pp. 11-23; cfr. inoltre P.G. Walsh, Paulinus of Nola and the Conflict of Ideologies in the Fourth Century, in Aa.Vv., Kyriakon. Festschrift für J. Quasten, Aschendorff, Münster 1970, II, pp. 565-571. Sarebbe utile, a tal proposito, verificare il presunto ruolo di Paolino nell’ordinamento della prassi liturgica in Campania, dato che non è del tutto improbabile – come testimonia verso la fine del V secolo Gennadio Massiliense nel suo Liber de scriptoribus ecclesiaticis XLVIII (PL 58, cll. 1086-1087), in cui sono menzionati alcuni altri scritti paoliniani non pervenutici – che egli sia stato anche autore di un sacramentario e di un innario e che il messale da lui adottato sia servito persino da prototipo per il Sacramentario Gelasiano: cfr. K. Gamber, Das kampanische Meßbuch als Vorläufer des Gelasianum. Ist der hl. Paulinus von Nola der Verfasser?, in «Sacris Erudiri», XII, 1961, pp. 5-111 e Id., Das Meßbuch des hl. Paulinus von Nola, in «Heiliger Dienst», XX, 1966, pp. 17-25; ma anche V. Raffa, S. Paulinus Nolanus auctor sacramentarii Gelasiani primigeni?, in «Ephemerides Liturgicae», LXXVI, 1962, pp. 345-348.

    [8] Cfr. S. Costanza, La poetica di Paolino di Nola, in Aa.Vv., Studi classici in onore di Quintino Cataudella, Facoltà di Lettere, Catania 1973, II, pp. 593-613 e H. Junod-Ammerbauer, Le poète chrétien selon Paulin de Nole. L’adaptation des thèmes classiques dans les Natalicia, in «Revue d’Études Augustiniennes», XXI/1-2, 1975, pp. 13-54.

    [9] Cfr. P. Stockmeier, Fede e religione nella Chiesa primitiva, Paideia, Brescia 1976, secondo cui «legame e rottura col mondo religioso [pagano…] caratterizzano ampiamente la missione cristiana della tarda antichità» (p. 133). H.-I. Marrou, Decadenza romana o tarda antichità?, Jaca Book, Milano 1979, ha parlato, a questo proposito, di un «cambiamento nella continuità» (p. 23), che vide svilupparsi insieme una «seconda religiosità» pagana e una «religiosità nuova» specificamente cristiana (pp. 42-52). Difatti – come fa notare R. Tagliaferri, Il travaglio del cristianesimo. Romanitas christiana, Cittadella, Assisi 2012 – una certa «eredità della religiosità popolare romana» fu presa in consegna dal cristianesimo latino e contribuì «al successo della nuova religione cristiana». Una magistrale trattazione di questo argomento propone R. Lane Fox, Pagani e cristiani, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 722-742. Cfr. anche E. dal Covolo, I rapporti tra la Chiesa e l’Impero nel secolo di Eusebio, in Aa.Vv., Eusebio di Vercelli e il suo tempo, a cura di E. dal Covolo, R. Uguglione e G.M. Vian, Las, Roma 1997, pp. 77-90. Inoltre cfr. R. MacMullen, op. cit., che registrando la commistione di tradizioni religiose precristiane e culto cristiano parla di un «territorio condiviso» da pagani e cristiani (p. 89). Cfr. infine A.D. Nock, La conversione. Società e religione nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari 1985.

    [10] Con questa scenetta (vv. 76-85) Paolino descrive criticamente l’uso cultuale dei contadini campani che, già in età precristiana, offrivano alle divinità solo le interiora dei loro animali.

    [11] Cfr. Paulinus Nolanus, Carmen xx, che qui citiamo seguendo la recensione critica di W. von Hartel, in Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum (=CSEL) 30, pp. 143-158; ma rimandiamo anche alla versione edita da J.P. Migne, in Patrologia series latina (=PL) 61, cll. 551-568, la quale non differisce significativamente dalla prima.

    [12] Cfr. S. Prete, Il carme 20 di Paolino di Nola. Alcuni aspetti letterari e cultuali, in «Augustinianum», XXI, 1981, pp. 169-177, in cui sono evidenziate alcune residue testimonianze precristiane, sedimentate nella coscienza religiosa dei devoti di san Felice descritti da Paolino. A cominciare dal 381 l’imperatore Teodosio dichiarò fuori legge tutte le pratiche religiose non cristiane, tacciandole di «superstizione», sicché tra la fine del IV secolo e l’inizio del VI avvenne il declassamento degli antichi culti precristiani da religione ufficiale, praticata dal notabilato, a religione rurale («pagana» appunto, relegata nella «campagna»); cfr. M. Sordi, Cristianesimo e paganesimo dopo Costantino, in Aa.Vv., L’impero romano-cristiano, cit., pp. 121-137, secondo cui il paganesimo, ormai decaduto, si ridusse in quel periodo alle sue espressioni più nostalgiche e folkloristiche.

    [13] Cfr. J. Doignon, Un récit de miracle dans les «Carmina» de Paulin de Nole. Poétique virgilienne et léçon apologétique, in «Revue d’Histoire de la Spiritualité», XLVIII/2, 1972, pp. 129-144, il quale parla di una «filosofia del miracolo» paoliniana. Cfr. pure R. Argenio, San Paolino da Nola cantore di miracoli, Signorelli, Roma 1970.

    [14] Cfr. F. Bisconti, Letteratura patristica ed iconografia paleocristiana, in Aa.Vv., Complementi interdisciplinari di patrologia, a cura di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1989, pp. 367-412, spec. pp. 389-393. Interessante è il volume di E. Anti, Santi e animali nell’Italia padana (secoli IV-XII), Clueb, Bologna 1998.

    [15] Cfr. G. Otranto, Paolino di Nola e il cristianesimo dell’Italia meridionale, in Aa.Vv., Anchora Vitae, cit., pp. 43-48; S. Costanza, Il catalogo dei pellegrini: confronto di due tecniche narrative, in «Bollettino di Studi Latini», VII, 1977, pp. 320-324; Aa.Vv., L’epoca patristica e la pastorale della mobilità umana, Messaggero, Padova 1989. Possono valere anche per Nola le osservazioni sulla «geografia sacra e cultuale» dell’epoca patristica di L. Pietri, «Loca Sancta»: la géographie de la saintété dans l’hagiographie gauloise (IV e-VI e s.), in Aa.Vv., Luoghi sacri e spazi della santità, prem. di S. Boesch Gajano e L. Scaraffia, Rosenberg & Sellier, Torino 1990, pp. 23-35.

    [16] Sul significato della pietà popolare, quale espressione della fede cristiana ed ecclesiale di una comunità di credenti in Cristo, possono valere anche per l’epoca patristica le osservazioni di G. De Luca, Introduzione alla storia della pietà, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1962. Sottolineando la coerenza tra la fede ecclesiale e la pietà popolare G. De Rosa, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Laterza, Bari 1978, scrive che questa non è «[...] una categoria a sé, un’altra religione, con connotati chiaramente e nettamente autonomi, ma è la stessa religione ufficiale, per così dire, vissuta secondo gli umori, le convenienze, gli interessi, le abitudini, le resistenze mentali dell’ambiente storico locale» (p. 7). Si deve però osservare che la specificità che, sulla scorta di De Luca, si dovrebbe riconoscere alla pietà popolare – in quanto fenomeno cristiano ed ecclesiale – rispetto alla cosiddetta religione o religiosità del popolo, non sembra tuttavia essere colta chiaramente né dalla ricerca storica né da quella teologica, forse per la tendenza a considerare il cristianesimo in quanto tale prevalentemente nei suoi aspetti accidentalmente religiosi, mentre invece esso è qualcosa di sostanzialmente nuovo rispetto a ogni tipo di fenomeno religioso. Esso rimane permanentemente a confronto e a contatto con le altre esperienze religiose – secondo il paradigmatico rapporto con la grande vicenda antico-testamentaria –, ma al fine di emergerne con la propria novità e al contempo di rinnovarle. In tal senso il fatto cristiano, coerente alla logica dell’incarnazione, accoglie in sé ogni altro umano tentativo di rapportarsi a Dio, assumendo nondimeno il loro carattere religioso. Sulle accezioni delle espressioni in questione negli studi di De Luca e De Rosa (e di H. Bremond), cfr. É. Goichot, Sentiment religieux, pietà, vissuto religioso, in Aa.Vv., Contributi alla storia socio-religiosa. Omaggio a Gabriele De Rosa, Istituto per le Ricerche di Storia sociale e religiosa - Istituto Luigi Sturzo, Vicenza-Roma 1997, pp. 35-61. Rileva la problematicità della nozione di «religione popolare in età patristica» – ma intendendola come religione vissuta dalle «classi sociali inferiori» – F. Bolgiani, Religione popolare, in «Augustinianum», XXI, 1981, pp. 7-75; cfr. anche G. De Simone, Alcuni aspetti della religiosità popolare nel cristianesimo antico, in «Vivarium», III, 1995, pp. 307-312. Per un punto di vista più propriamente teologico cfr. G. Lafont, Histoire théologique de l’Église catholique. Itinéraire et formes de la théologie, Éd. du Cerf, Paris 1994, pp. 47-50 e M. Simonetti, La teologia non erudita, in Storia della teologia, cit., I, pp. 225-231; per la riflessione teologica contemporanea cfr. J.-M.R. Tillard, Le «sensus fidelium»: réflexion théologique e G. Langevin, Christianisme populaire et pureté de la foi, in Aa.Vv., Foi populaire, foi savante, Éd. du Cerf, Paris 1976, pp. 9-40 e 149-166; L. Sartori, Religiosità popolare e teologia. Indicazioni per una fondazione teologica, in Aa.Vv., Ricerche sulla religiosità popolare, EDB, Bologna 1979, pp. 21-54; J.C. Scannone, Religiosità popolare, sapienza del popolo e teologia popolare, in «Communio», XII/95, 1987, pp. 32-46; V. Orlando, La religione popolare. Natura e caratteristiche, in «Rivista di Scienze Religiose», I, 1987, pp. 197-210; N. Capizzi, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare, in «Synaxis», XVI, 1998, pp. 515-535.

    3. Nel crogiuolo delle dispute cristologiche

    L’opera paoliniana, sia per quanto attiene alle epistole, sia per quanto concerne i carmi, si colloca tutta nell’ultimo decennio del IV secolo e nei primi tre decenni del V secolo. Fu quello un periodo di travagliata riflessione teologica: le Chiese erano reduci dalla grande assise conciliare di Nicea (325), si era concluso da poco il concilio di Costantinopoli (381) e si procedeva ormai verso l’altro importante appuntamento di Efeso (431) [1] . Due modelli teologici si confrontavano in un dialogo serrato, spesso anche polemico e intollerante: da una parte i pensatori alessandrini della scuola atanasiana, con la loro cristologia del Lógos-sárx , portata alle estreme conclusioni sino ai limiti dell’eterodossia da Apollinare di Laodicea, le cui dottrine erano state fortemente penalizzate a Costantinopoli; dall’altra parte gli antiocheni con la loro cristologia alternativa del Lógos-ánthro¯pos , caricata di risvolti non del tutto ortodossi da Nestorio, le cui intemperanze furono poi condannate ad Efeso [2] .

    Secondo il primo schema cristologico, in Cristo sarebbe avvenuta l’intima unione ( hénosis) del Lógos divino con il (solo) corpo di Gesù, sicché il Lógos, attendato nella carne, avrebbe preso il posto dell’anima umana di Gesù di Nazaret mentre, di conseguenza, la natura umana del Cristo sarebbe rimasta monca della componente psichica: tutto ciò implicava una terminologia ambigua, non compresa dagli antiocheni, che annoverava espressioni felici come Lógos énsarkos e altre più oscure come mìa phýsis toû Christoû, terminologia che soppravvisse negli scritti di Cirillo d’Alessandria.

    Gli antiocheni, dal canto loro, non potevano accettare un’umanità incompleta in Cristo Gesù, senza anima e senza intelligenza, convinti che il Verbo, vero Dio, era divenuto pure vero uomo, assumendo dell’uomo sia l’anima che il corpo, per salvare tutto l’uomo e non solo una sua parte. Per questo Teodoro di Mopsuestia, esponente maggiore di tale scuola, preferiva parlare del Verbo-assumente e dell’uomo-assunto, intesi come due soggetti distinti e due nature complete e differenti, per volere divino strettamente associate mediante congiunzione ( synápheia) in un’unica realtà visibile ( próso¯pon).

    Nel frattempo, a forza di dibattere e di polemizzare, si andava acuendo sempre più la diastasi tra la riflessione dei teologi e la fede semplice della maggior parte dei credenti. In particolare, alla fine del IV secolo, la polemica del Lógos-sárx stava «al termine di una tradizione cristologica che aveva cercato, mediante una teologia dotta, di dare una interpretazione dell’essere di Cristo che andava oltre la formulazione kerygmatica popolare» [3] . Nella confusione che ne sortiva, i grandi concili ecumenici si trovavano costretti ad elaborare un nuovo linguaggio dogmatico, tramite cui chiarire i neologismi dei teologi, sovente ambigui e oscuri, e tradurre il messaggio scritturistico anch’esso, dopo la svolta costantiniana, poco compreso nella sua disarmante chiarezza e semplicità. Come avvertì il vescovo Euippo riferendosi alla definizione

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