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Greyhound: Sullo sfondo della storia del rock un componente racconta la biografia dell’anonima band The Street Corners
Greyhound: Sullo sfondo della storia del rock un componente racconta la biografia dell’anonima band The Street Corners
Greyhound: Sullo sfondo della storia del rock un componente racconta la biografia dell’anonima band The Street Corners
E-book239 pagine3 ore

Greyhound: Sullo sfondo della storia del rock un componente racconta la biografia dell’anonima band The Street Corners

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Info su questo ebook

“The Street Corners”, chi sono e da dove vengono? Cinque ragazzi che, calati nel background culturale di New York, nello scenario della East Coast, cercano una loro dimensione nel firmamento della musica. In questo libro uno dei componenti narra le fantastiche vicissitudini di questa band che avrebbe potuto avere un posto nella storia del rock ma…
Imparerete a conoscerli nel loro difficile viaggio, fatto soprattutto di infinite corse sui greyhound, passando attraverso eventi musicali memorabili ed estenuanti tournée negli USA e in Europa. Non è certamente una saga in stile “Saranno Famosi”. È una biografia che inizia negli anni 60, ma che getta uno sguardo anche a ritroso, accompagnando e descrivendo la storia del rock con i suoi interpreti più noti, i suoi sogni e le sue speranze. Delineando pregi e difetti del mondo musicale, la gavetta tipica degli artisti, il modo di operare delle case discografiche, la tensione del “dietro le quinte”, i problemi personali, gli amori e così via, fino ad arrivare a questo nuovo secolo.
È un’avventura che ha il suo apice in un grande “live concert” nel 1990, per chiudersi all’alba di questo millennio.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2021
ISBN9788869632884
Greyhound: Sullo sfondo della storia del rock un componente racconta la biografia dell’anonima band The Street Corners

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    Anteprima del libro

    Greyhound - Carl Zimmerman

    Carl Zimmerman

    GREYHOUND

    Sullo sfondo della storia del rock un componente

    racconta la biografia dell’anonima band

    The Street Corners

    Elison Publishing

    © 2021 Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869632884

    Ouverture

    La mia casa è sempre stata un crocevia di artisti (soprattutto spiantati) che sono arrivati e andati come i fiori che nascono e poi muoiono nel corso di una stagione. Dal 1988 ho un appartamento nella bassa Manhattan che guarda su una magnifica strada straripante di auto, dove il rumore del traffico non ha mai tregua e tiene il ritmo alle sirene del fiume. A queste fanno da contrappunto lo stridulo grido delle ambulanze e quello del NYPD (il New York Police Dept), con le melodie delle Fire Brigades (i pompieri).

    Fondamentalmente sono stanca soprattutto di sentire le frasi fatte e vuote delle personalità, dei vip, dei grandi politici di questa terra che si atteggiano ad eroi salvavita. Gente che non mi rappresenta, che non dice quello che vorrei ascoltare. Sono abulica, nauseata e tediata nel guardare programmi che non servono a niente e a nessuno, dove l’apparenza è la sola cosa che conti e che ti insegnano soltanto l’importanza di essere belli, ricchi e famosi, oltre che ammazzare il prossimo.

    Un bel affare! Già, per fortuna la musica ha attutito in maniera non indifferente questo trambusto fisico e psichico ed è forse per questo che gli scaffali nel mio salotto, e non solo quelli, sono pieni zeppi di desolanti e disgustosi dischi in vinile, cd, nastri, cassette, mp3, DVD; insomma tutto quello che è brutto, underground, squallido e prodotto da ignoti e inconcludenti autori anonimi, che si intercalano ad una altrettanto sostanziosa biblioteca tutt’altro che all’avanguardia. Le volte che i miei erano venuti a trovarmi mi avevano consigliato di dormire per strada per lasciar spazio alla mia collezione; il che è tutto dire.

    Mia mamma è morta un anno dopo che avevo occupato l’appartamento e mio padre nel 2004. Abitavano a Plainfield, NJ, un luogo splendido! Erano del Tennessee e si erano sposati a metà circa del secolo scorso, decidendo di traslocare e venire a stare a New York quando io ero poco più che adolescente.

    Un giorno di mezza estate ero in un negozio di strumenti musicali di Plainfield, sulla Park Avenue, per degli acquisti ed entrò un ragazzino che gironzolava tra le chitarre acustiche. Aveva chiesto al commesso se avesse una qualsiasi chitarra usata e lui rispose di no. Almeno, in quel momento non l’aveva, perché vendeva di tutto. Mi guardò; un sorriso, una smorfia per la risposta del negoziante e io gli chiesi «Suoni?»

    «Non proprio, sto ancora imparando.»

    È così che conobbi Paul, Paul Clark. Che parecchi anni dopo mi avrebbe permesso di conoscere gli altri suoi soci, John, Carl, Angelo e Andy: The Street Corners.

    Questa che leggerete tutto sommato è la loro biografia, scritta da Carl; francamente l’unico che avrebbe potuto mettere giù qualcosa di leggibile. Se credete di trovarvi di fronte all’ennesima parodia di Americans Got Talent vi sbagliate completamente. Il libro narra la fantastica storia di questa band surreale e oscura – oltre che anonima – che non ha avuto successo, che avrebbe voluto e potuto trovare un posto in questo mondo etereo costruito all’interno dell’epopea della musica rock, ma non ce l’ha fatta. In realtà era stato un po’ il destino della maggior parte dei gruppi di un’epoca che forse non tornerà più.

    Le avventure che leggerete probabilmente somigliano a quelle vissute da molti altri giovani, ma davanti ai vostri occhi si apriranno intanto gli scenari magici delle scorse decadi e dei loro protagonisti. Una storia nella storia: una biografia che corre parallelamente alla saga della musica rock, con i suoi generi, i suoi miti, i suoi idoli, le sue sfaccettature, le sue derivazioni, i suoi protagonisti e i suoi limiti. Molte stelle celebrate dai media sfileranno su questa specie di schermo e porteranno via con sé le epoche e i movimenti giovanili.

    Questa storia parla del rock, ma narra anche e soprattutto le incredibili vicende e le vicissitudini personali e musicali di cinque ragazzi che, nello scenario della East Coast statunitense, cercano la loro tanto sognata quanto illusoria dimensione nel firmamento dello spettacolo, calandosi nel background di New York. Entrerete nel mondo della musica, scoprendone i più squallidi risvolti, il talent-scouting, il bieco sistema dei produttori e della produzione. Il funzionamento di una macchina chiamata industria discografica, insomma.

    È un libro on the road, una strada a doppia corsia sullo sfondo di un lungo periodo, che guarda anche a ritroso ma inizia negli Anni Sessanta, per finire in questo secolo, in questo millennio. Sì, è un libro da leggere possibilmente tutto d’un fiato. Magari sull’ultimo greyhound della notte che attraversa la Route 66. Nell’ombra sinistra di un vicolo pieno di sacchi della spazzatura. In uno squallido pomeriggio pigro e assolato. Nel silenzio di una cameretta con le pareti piene di poster in bianco e nero. Col giradischi che diffonde il suo ultimo urlo ben sapendo che non è più di moda, mentre il tramonto corre a raggiungere la sera.

    Sì, è tutto questo.

    Buon divertimento ai lettori e complimenti alla band per il surreale, quasi onirico, Live at London Auditorium!

    Linda Charlotte Blooming, NY City – Ottobre 2019

    Fermenti giovanili

    A volte i giorni di pioggia sembrano pieni di sole, mentre le belle giornate ti restano dentro come se piovesse a dirotto. I giorni di ieri me li ricordo in bianco e nero, come in un vecchio film, mentre i giorni che sto vivendo sono sempre a colori. Ma poi, passato il tempo, l’oggi diventa ieri ed è più bello. Alla fine le cose di ieri restano più colorate di quelle d’oggi, perché è solo il domani che è ancora incolore. Il tempo che va ci avvicina alla fine della vita, e il domani è sempre un giorno in meno che manca. Però c’è Dio, che è Amore!

    L’amore è senza età, senza orario, senza colori, senza numeri e senza bandiera. L’amore è disordinato e ti coglie di sorpresa quando non lo aspetti. Dio è così.

    Il vento si alzava nei pomeriggi dei primi giorni d’inverno e portava in giro le ultime foglie lasciate dall’autunno. Abitavo a Plainfield, stato del New Jersey, e qui avevo visto nascere, crescere e spegnersi un sacco di illusioni, fin quando ero diventato adulto. La mia passione è sempre stata la musica ed è stato con la musica che ho cercato di esprimere le mie idee, i miei intenti, i miei propositi e tutto me stesso.

    L’autobus della linea 119 si era fermato sul ciglio della 32nd e io ero sceso come tante altre volte. Era il solito greyhound che prendevo sempre per andare e tornare da scuola e che mi avrebbe accompagnato e scarrozzato in altre circostanze, ma allora non potevo neanche immaginarlo. Fortunatamente era arrivata la fine dell’ultimo anno di liceo e stava iniziando l’estate del 1969. L’estate in cui Twiggy da un anno era la top model che appariva su tutti i giornali. L’estate che vide lo sbarco sulla Luna di Neil Armstrong. L’estate dell’Era di Acquario e del raduno di Woodstock e fu anche l’estate in cui mi innamorai per la prima volta. Lei si chiamava Reddy Mansfield.

    Tommy James, il leader degli Shondells, una band che aveva portato più di un disco nella top-ten americana e non solo, diceva:

    «Gli Anni Sessanta erano stati come una grande festa e gli Anni Settanta furono come se questa grande festa fosse arrivata alla fine.»

    Solo, col giubbotto di jeans e il bavero alzato, guardavo la vita scorrere: auto veloci che andavano e venivano su e giù per la strada principale. Fu così che tutto ebbe inizio. Avevo in testa tanti progetti, tante cose da fare e da programmare; sembrava che tutto invitasse me, e me soltanto, a vivere la vita. In poche parole, il mondo mi sorrideva.

    Reddy, che si chiamava in realtà Reubin Donna Diana, aveva i capelli neri e gli occhi come i miei, castani. Dato che Reubin era un nome maschile e gli altri due non le piacevano, lei preferiva che la chiamassero Reddy. Un giorno arrivai in un ritrovo di Plainfield che avevo iniziato a frequentare da poco. C’erano parecchie ragazze ed io stavo sulle mie, con gli amici. Vennero due tipe tutte eleganti, che qualcuno di noi aveva agganciato in quei giorni, e io legai subito con una di loro: si chiamava Jolynne. La sua amica Annie portava gli occhiali ed era più estroversa di lei. Jolynne, invece, era più chiusa, ombrosa e dagli occhi verde scuro, ma con me cambiò repentinamente, e lo notarono tutti. A quel tempo ero abbastanza sfacciato da apparire decisamente solare e allegro, ma in realtà ero completamente differente. In quel ritrovo ero sempre con lei e tutti ci guardavano filare via in armonia; anche Reddy.

    Poco più di un mese dopo, le due amiche dovettero andarsene perché le loro famiglie erano di Buffalo e le difficoltà, soprattutto economiche, avevano indotto i loro genitori a tornare da dove erano venuti. A Buffalo, vicino alle Cascate del Niagara, infatti, ci abitavano i loro congiunti, che avevano impiantato un’attività ben più promettente e redditizia rispetto al misero modus vivendi in cui versavano a Plainfield. Sta di fatto che, qualche tempo dopo, girovagavo coi miei soci di prima e, nonostante mi fosse spiaciuto davvero che Jolynne se ne fosse andata, la vita doveva continuare e me la dimenticai in men che non si dica. Non rividi più né lei, né Annie.

    Quando stavo con Jolynne, ogni tanto ci fermavamo a parlare con Daisy, una che avevano agganciato i miei amici da qualche mese. Mi pare che i suoi fossero di New York. Arrivava sempre di corsa dentro il bar, parlava velocemente ed era una ragazza molto aperta e semplice, che mi piaceva. Stava con noi per dieci o quindici minuti e poi se ne tornava dalla sue amiche. Che le fossi simpatico era abbastanza chiaro. Fu così che mi feci sempre più coinvolgere dal suo mondo e, senza volerlo, in breve tempo era diventata quella che prima era stata Jolynne. Daisy non aveva nulla di speciale né di eclatante, ma il suo carattere ed i suoi modi dolci e accomodanti si conciliavano benissimo con i miei. Eravamo diventati amici e ci capivamo al volo, come se lo fossimo stati sempre. In seguito, nel conversare, riuscii a intuire che era solo stata usata da Reddy Mansfield per far sì che quest’ultima riuscisse ad entrare in contatto con me.

    La prima volta che incontrai Reddy e le parlai direttamente entrò di corsa nel ritrovo e mi gettò un bacio veloce per poi scappare via. Non avevo intuito nulla delle sue intenzioni nei miei confronti, e ci volle qualcuno che me lo facesse notare espressamente.

    «Mi sa che Reddy si è innamorata di te» mi disse un giorno Claire, un’amica comune, sia mia che di Daisy.

    Con l’andar del tempo, avevo anche intuito che Daisy aveva altri problemi e qualcun altro per la testa. Lei oltretutto non si sarebbe mai messa fra me e Reddy, che riteneva una sorta di diario vivente a cui confidare le sue pene e i suoi tormenti.

    Un giorno, arrivò un tipo che conoscevamo tutti; era un po’ euforico per qualche motivo che non ricordo, e disse a voce alta:

    «Ehi ragazzi, oggi è il mio giorno fortunato, pago io!»

    Poi rivolto a Reddy, che casualmente era alla sua sinistra, chiese: «Ti va una coca, una cioccolata… non so… un Bloody Mary, un pugno in testa? Vuoi qualcosa da mangiare?»

    Reddy, imperiosa e decisa, indicando me, rispose seccamente: «Io voglio solo lui!»

    Sul far della sera di un pallido giorno d’autunno, mentre tornavo a casa, avevo visto che lei teneva un libretto, che penso fosse il suo diario, su cui aveva incollato un adesivo che le avevo dato casualmente qualche settimana prima. Fu sempre e ancora Claire a farmelo notare. Ecco, questa è in breve la storia di una persona che poi sarebbe entrata per sempre a far parte del mio mondo.

    Ma la vita non è mai così semplice e tranquilla: tante cose dovevano succedere. Ci sarebbero stati momenti in cui tutto pareva difficile, oscuro e in salita. Forse doveva essere proprio così, chissà?

    Quel giorno avevo preso il greyhound per la stazione ferroviaria. L’accelerato era in orario e io me ne stavo a guardare i viaggiatori che aspettavano la coincidenza bevendo qualche cosa di caldo. Un freddo e soleggiato mattino di fine gennaio del 1970 salutai Reddy, che mi fissava mentre mi allontanavo, agitando la mano con un sorriso triste di commiato. In realtà ero sconsolato e mi sentivo come se mi avessero costretto a chiudere una porta in faccia al mio passato recente. Non era un addio, comunque, perché l’avrei vista ancora qualche tempo dopo. Per quel che mi riguarda, ero diretto a New York, con tutta la mia famiglia.

    A proposito, mi sono dimenticato di presentarmi: sono Carl, Carl Zimmerman, e a quel tempo non avevo neanche vent’anni. Adesso qualcuno si domanderà certamente cosa mai sta raccontando questo irrilevante ex residente del New Jersey di nome Zimmerman. Poi andrà a rivedersi il titolo di questo libro e magari quanto c’è scritto in copertina. Ma c’è di sicuro qualcosa che non va! Queste poche pagine narrano avventure da rotocalco rosa e sembrano rimasugli della più squallida soap opera per teenagers stile Anni Novanta, altro che rock. C’era da aspettarsi un inizio alquanto differente, del tipo…

    One, two, three o’clock, four o’clock, rock…

    Sì, perché quando una mattina del 1954 l’America si svegliò al ritmo di Rock Around The Clock, comprese che qualcosa ormai era cambiato. Questo brano era stato composto da Jimmy Myers e Max Freedman l’anno precedente, sulla base di un vecchio blues, My Daddy Rocks Me With A Steady Roll.

    Qualcuno parlò subito di musica per selvaggi, per la maggior parte invece diventerà l’emblema di tutta una generazione dimenticata dalla guerra; una fascia di giovani tra i 15 e i 25 anni a cui mancava l’adolescenza e che voleva a tutti i costi lasciarsi dietro un mondo di morte e di infelicità. Ma come era nato il rock?

    Nei primi anni del Novecento, esattamente negli Anni Venti, le grandi etichette discografiche che iniziarono a stampare e diffondere prodotti di audizione musicale si trovarono di fronte ad un’improvvisa crescita di questa industria che assicurava rientri economici non indifferenti e cominciarono ad assoldare ogni tipo di artisti. Dai cantanti gospel ai danzatori neri che si limitavano a battere le mani durante le funzioni religiose, dai bluesman emigrati dal sud verso Chicago agli afroamericani improvvisatori. Era nel Nord America, infatti, che la grande industria proliferava a scapito del retrogrado meridione. Negli Anni Trenta poi i jazzisti, non solo quelli di colore, avevano intuito che la gente apprezzava molto di più gli artisti che si esprimevano con delle piccole sezioni ritmiche e qualche fiato, come il sassofono, ad esempio. Così vennero fuori mini gruppi che interpretavano a loro modo canzoni tradizionali, brani religiosi, pezzi di blues e jazz ripresi qua e là, canti di lavoro o tradizionali (anche bianchi) e delle strofe popolari. Chi aveva suonato genere western o folk, iniziò a mischiare dello swing, appreso casualmente dall’ultimo cameriere di colore di una qualsiasi sala da ballo, combinandolo col blues, col country western, col country puro e magari anche col repertorio jazz sentito nei night club del centro delle grandi città, come New York, Memphis, Philadelphia e così via.

    Per contro, qualche orchestra jazz si annacquava di blues, proprio mentre nomi noti della musica d’orchestra strizzavano l’occhio alla chitarra elettrificata dagli amplificatori per dare carattere all’esecuzione. Charlie Christian, chitarrista di Benny Goodman, sfruttava il vibrato e la distorsione delle corde per enfatizzare alcuni brani. Eddie Durham, chitarrista dell’orchestra di Count Basie, con i suoi Kansas City Six si divertiva con le chitarre amplificate esaltando delle nuove sonorità. Sam Phillips, proprietario della casa discografica Sun Records, aveva fatto incidere all’orchestra dell’allora famosissimo Tommy Dorsey, il pezzo Boogie Woogie. La Sun Records sarà poi la casa che lancerà sul mercato Elvis Presley!

    Mentre da una parte la radio diffondeva sempre più queste strane mescolanze di stili senza un nome particolare, altrettante etichette indipendenti cominciarono a dare spazio a questi nuovi generi ibridi, finché tra il 1951 e il 1953 il disc-jockey Alan Freed coniò il termine rock’n’roll. Passando dunque da questa nuova musica, attraverso il rockabilly, l’esplosione del beat in Inghilterra e la rinascita del rhythm-blues (elegantemente corretto in soul) arrivarono gli Anni Sessanta. Un decennio in cui l’incontro delle culture popolari avrebbe generato il folk-rock e avrebbe sviluppato sottogeneri del rock, come lo psichedelico, la fusion e via dicendo.

    Lo so, avrei dovuto iniziare così questa saga della musica giovanile, e comunque ora conoscete anche voi da dove e come tutto aveva avuto inizio. Potrei continuare nell’elencare generi, nomi, posti, eventi e titoli, invece da qui in poi inizia anche quella che è la storia mia e di quattro miei amici – la nostra band – che accompagnerà quella del rock. Un rock visto da una piccola fessura da cui noi insipidi e desolati componenti l’abbiamo sbirciato e vissuto senza pretese né presuntuosità. Somiglia a quella di tantissime altre band fallite nell’ombra degli scantinati e dei vicoli senza uscita, nei pomeriggi assolati dell’estate umida dell’est e arida dell’ovest. È una storia fatta di sogni, illusioni di successi, amori, miti, problemi, grattacapi, case discografiche, talent-scout, dischi e soprattutto di interminabili corse sul greyhound, l’autobus che ci ha accompagnato verso il nostro singolo destino, verso il futuro. Verso un domani a cui non siamo ancora arrivati, perché oggi, che doveva essere il nostro domani, stiamo ancora cercando di raggiungerlo. In definitiva, questa è la nostra avventura e non stupitevi se il suo inizio potrà ancora sembrare un po’ Via Col Vento, ma è quel che accadde realmente. Comunque, questa interminabile e indimenticabile storia del rock la riprenderò qua e là, lungo il cammino che abbiamo fatto insieme ad essa, passo dopo passo.

    Arrivai sulla scena musicale di New York verso le tre e un quarto del pomeriggio di un martedì della tarda primavera del 1970. Ero proprio davanti alla chiesa di St. Patrick e la radio diffondeva ancora la famosa Bridge Over Trouble Water di Paul Simon e Art Garfunkel. Avevo con me qualche dollaro e un paio d’amici. Stavamo cercando l’avventura nel mondo del rock e New York doveva essere solo il punto di partenza. Fu proprio quel pomeriggio, infatti, che rividi Paul Clark. Anche lui era nato a Plainfield e lì aveva vissuto come me. Era un bel tipo: alto e biondiccio, i capelli lisci, con la barba sempre ben tagliata, i vestiti di jeans anche in pieno inverno e l’aspetto di un ragazzo pulito. Quel giorno suonava blues con una Martin acustica che poi seppi essere di seconda mano. Ma chi era, cosa mai ci faceva in quel posto e com’era arrivato dentro la mia vita?

    Stava finendo il 1965 quando tre ragazzi appoggiarono la bicicletta contro il muro per

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