Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Guerrino and all that Jazz
Guerrino and all that Jazz
Guerrino and all that Jazz
E-book527 pagine7 ore

Guerrino and all that Jazz

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La vita di Guerrino è un romanzo, è letteratura, non c'è nulla da inventare, c'è il Grande Gatsby e il Pin di Calvino, c'è l'eccitazione della ribalta mondiale e la cupa sofferenza esistenziale.

A sedici anni duetta sui palchi del nord Italia con Nunzio Rotondo, l'esponente più importante del Jazz italiano, a diciott'anni è primo clarinetto e sax nell'orchestra di Bruno Canfora, poi in Svezia dove collabora con personalità come Lars Gullin (baritonista di Chet Baker) in Spagna dove lavora con Marlene Dietrich, Burt Bacharach e frequenta dive come Ava Gardner e Rita Hayworth.

Ma il suo non è un romanzo semplice, nel '60 in Spagna, all'apice della popolarità, viene espulso dal regime di Franco per motivi politici. L'anno successivo sarà ricoverato in neurologia all'ospedale Maggiore di Novara in preda ad una grossa crisi.

La sua storia però è una storia di rinascita, anzi, di rinascite. E allora Beirut con Giorgetti e Dalida, Tripoli con la Vanoni, poi Marsilia, Cannes, Monaco. E poi in giro per l'Italia con Morandi e Noschese, o a fare Jazz con giganti del calibro di Buratti, Tullio De Piscopo, Cerri e Sante Palumbo, sui palchi accanto ad icone come Ella Fitzgerald o Jerry Mulligan.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2019
ISBN9788827868119
Guerrino and all that Jazz

Correlato a Guerrino and all that Jazz

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Guerrino and all that Jazz

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Guerrino and all that Jazz - Giancarlo Buratti

    Filippo.

    Introduzione dell’autore

    Nel 2006 scrissi il mio terzo romanzo Swing – il sogno spezzato e lo dedicai a Guerrino.

    Era la storia di un’amicizia particolare. In quel libro Andrew, il protagonista, un assistente sociale, incontra sul suo cammino un musicista, Guerrino Alinari. I due si frequentano per una settimana e i racconti del secondo diventano quasi un’ossessione per il primo che non può evitare di farsi risucchiare dalle emozioni vissute dal musicista.

    Ciò che mi è accaduto con questo romanzo è esattamente la stessa cosa.

    Ho iniziato a scriverlo quasi per senso del dovere verso un amico, un fratello, che non è più nel fiore degli anni, l’ho fatto perché andava fatto, perché era intollerabile che i suoi ricordi si perdessero nel nulla, tra le pieghe del tempo, e invece mi ci sono trovato invischiato mani e piedi, da subito.

    La sua vita è letteratura, non c’è nulla da inventare, c'è il Grande Gatsby e il Pin di Calvino, c'è l'eccitazione della ribalta mondiale e la cupa sofferenza esistenziale.

    C’è il riscatto del dopoguerra, la genialità di un artista unico, il dramma e la comicità. Ripercorrendo la sua vita si ride e si piange, ci si inquieta e ci si esalta.

    C’è gioia, adrenalina, successo, ma anche dolore, paura e fragilità.

    Il lavoro che andrete a leggere è il frutto di più di cento ore di registrazioni, di incontri con il protagonista e con alcuni suoi amici, colleghi e parenti. È il risultato di serate di chiacchiere con Guerrino, serate indimenticabili. Alcune volte ho temuto che i vicini chiamassero i carabinieri per quanto squassanti erano le nostre risate, altre invece le lacrime non volevano sapere di fermarsi.

    Sono orgoglioso di questo lavoro, ma soprattutto sono felice di aver conosciuto una persona come Guerrino e di aver avuto il privilegio di accompagnarlo per un tratto di strada. Faccio il musicista da molto tempo e scrivo romanzi da vent’anni, lungo il mio percorso mi è capitato più di una volta di essere invitato a scrivere la biografia di un collega.

    Ho sempre rifiutato. Per prima cosa perché le biografie mi annoiano e non riesco a scrivere se non sono coinvolto e poi, beh, poi avrei temuto di essere chiamato a scrivere un’opera celebrativa.

    Le Res gestae di qualche artista.

    Ho proposto a Guerrino di scrivere la sua storia perché ero sicuro che con lui questo problema non si sarebbe presentato, e ho avuto ragione. Anzi in alcuni momenti la sua modestia mi ha creato delle difficoltà, e ho dovuto rivolgermi ai colleghi per conoscere alcuni dettagli.

    Guerrino è un musicista incredibile e la sua carriera è di per sé leggendaria, ma la particolarità della sua storia non si limita all’aspetto artistico.

    La sua vita è costellata di incontri particolari, a volte stralunati, altre poetici e profondi.

    C’è il collega trombettista ex guerrigliero delle FARC, il prete omosessuale che lo implora di non sposarsi la mattina del matrimonio, c’è il barista personale di Al Capone e il pianista che lancia un mazzo di fiori dal finestrino mentre lo Scandinavian Express transita da un paesino in Svizzera perché… beh perché lì c’è sepolto il suo cane. C’è Muhsin, l’uomo con la gerla che lo segue ovunque vada a Beirut o gli eschimesi che d’inverno al mercatino di Östersund vendono scarpe in pelle di foca. E poi l’amico Carmelo Bossi campione mondiale dei superwelter e Bertrand, il fan ricercato dall’Interpol per una strage a Marsiglia.

    Ma la sua è anche la storia di una donna straordinaria, la sua Gina, che gli starà accanto fino all’ultimo, che lo seguirà in ogni avventura superando ogni avversità.

    Figura dolce e carismatica sempre pronta a sorreggerlo o a raccoglierne i cocci.

    Presenza discreta, e indispensabile compagna di vita.

    In ultimo, caro lettore, ti lascio un paio di indicazioni circa la struttura di questo romanzo. È diviso in due parti: la prima è scritta in terza persona ed è il risultato delle interviste fatte a Guerrino e a tutti coloro che hanno condiviso le esperienze con lui fino al 1998. La seconda parte invece è scritta in prima persona perché da quella data ho avuto il privilegio di condividere con lui gran parte delle avventure riportate in questo libro.

    Normalmente, fosse uno dei miei romanzi, questo sarebbe il momento per puntualizzare che tutti i personaggi, e le vicende narrate sono frutto della mia fantasia e in nessun caso ispirate alla realtà. E invece no, stavolta ti devo dire che tutto ciò che leggerai è realmente accaduto, che non ho inventato nulla, mi sono preso solo la libertà di ricostruire alcuni dialoghi, ma seguendo con attenzione i racconti degli interessati.

    Buona lettura.

    Carpignano sesia 1983

    Fino al 1980 Carpignano Sesia, il paese in cui sono vissuto, aveva conosciuto un solo sindaco di sinistra: Ettore Piazza. Poeta, intellettuale e partigiano che, nella mia fantasia di bambino di nove anni, cresciuto coi piedi affondati nel clima della guerra fredda, era una figura mitologica e sfocata a metà tra Che Guevara e Arthur Rimbaud. Era comunista, quando questo ancora voleva dire qualcosa, quando esserlo evocava ideali di uguaglianza e senso di appartenenza.

    Per me semplicemente un mito.

    Nel 1979 il ricordo di Ettore Piazza e del CLN che lo aveva voluto sindaco era ben lontano e il paese passava placido da una amministrazione democristiana all’altra senza alcun colpo di scena. Un anno dopo, invece, per una serie di circostanze difficilmente analizzabili, Carpignano ritornò per un quinquennio sotto un’amministrazione di sinistra e mio padre divenne vicesindaco.

    Ritengo, in tutta franchezza, che questo abbia rappresentato per il paese una grossa opportunità di cambiamento e di rinnovamento, i nuovi amministratori, che io vedevo all’epoca come uomini fatti e navigati, ma che erano, in verità, ancora dei ragazzi, erano giovani, preparati e determinati. Avevano fame di fare e tutto da dimostrare. In cinque anni cambiarono l’aspetto del paese: costruirono le nuove scuole, la palestra, terminarono l’asilo, fecero arrivare il telefono (nell’80 ancora non tutti l’avevano) iniziarono le trattative per portare il gas metano nelle case e aprirono la sede della USL (l’antenato della ASL). Ma non fu questa la cosa che, a mio avviso, caratterizzò il loro mandato. Per la prima, e ahimè forse ultima volta, la cultura venne messa al centro dell’agenda politica, quasi in continuità con gli ideali di Ettore Piazza. Si organizzarono cineforum (sì quelli con dibattito finale, in pieno stile anni 70/80), concerti, serate di teatro e letture di poesia, scambi culturali con studenti stranieri, scavi archeologici, mostre d’arte e molto altro.

    Per un paese con una ancor forte connotazione agricola, quella fu una vera primavera culturale.

    Per me, bimbo di nove anni, poco meno di un incubo!

    Se prima delle elezioni vedevo poco papà, dopo di esse raggiunsi lo status di orfano a tempo determinato. Papà era costantemente irreperibile, risucchiato dalla macchina che aveva contribuito a costruire, sempre impegnato in riunioni, dibattiti, eventi da organizzare o da presenziare. Se non era al lavoro era in Comune, o in Regione per qualche necessità, o in Provincia, o …

    Gli volevo bene, ero contento ed orgoglioso di lui, ma non nego che certe sere, prima di addormentarmi, maledicevo nel chiuso della mia stanza quelli che lo avevano votato e che quindi me lo avevano portato via.

    Come ciliegina sulla torta poi, ogni tanto dovevamo partecipare pure noi a quelle iniziative.

    Ricordo ancora con terrore una serata di cineforum con proiezione e dibattito finale: L’ultimo metrò di Truffaut, con Catherine Deneuve e Gérard Depardieu. Un film senza dubbio di gran valore, ma che ai miei occhi di critico attento e preparato risultò subito parecchio diverso dal cartone di Goldrake che ero solito seguire. Ricordo la noia profonda, l’attesa di un qualsiasi colpo di scena, chessò un’astronave da Vega, o qualche maglio perforante… nulla! L’unica sorpresa invece fu quella che, dopo centoquattordici ore di proiezione o giù di lì, mi diede il colpo di grazia e cioè che il film sì, era finito, ma ora iniziava il dibattito… quel giorno disse bene a papà e mamma solo perché il tribunale dell’Aja ancora non si era costituito.

    Perché ci ero andato?

    Ma perché mamma mi aveva spiegato che era importante e che… lo sai che papà ci tiene.

    Detesto essere stato un bravo bambino!

    Un paio di anni prima avevo iniziato a suonare il clarinetto, oddio ci avevo provato. Avevo preso lezioni in banda, ma dopo due anni (due anni signori miei!!!) di teoria e solfeggio senza mai vedere neppure da lontano un clarinetto, avevo desistito dichiarando, con la fermezza che solo i nove anni ti possono conferire, che il clarinetto e la musica non facevano per me e che MAI nessuno avrebbe potuto convincermi del contrario.

    Mai!

    Una sera a cena mio padre ci disse che quel sabato ci sarebbe stato un concerto Jazz e che a suonare ci sarebbero stati dei musicisti davvero in gamba. Io lo ascoltavo con il cucchiaio a mezz’aria, la mano tremante e in testa un ricordo sinistro e confuso che però terminava con una frase del tipo: è un bel film, vedrete che vi divertirete! Lanciai uno sguardo a Massimo, mio fratello, col quale ci siamo sempre intesi a meraviglia senza bisogno di parole, ma quel pazzo annuiva interessato!

    Collaborazionista scriteriato!

    Certo lui suonava il trombone in banda già da qualche anno e, ai miei occhi di musicus interruptus, era una sorta di Glen Miller de noantri, naturale che ci stesse cascando. Oltretutto lui quella sera, la sera del metrò intendo, beh lui quella sera non c’era perché, per una sana botta di fortuna, si era beccato l’influenza.

    Io iniziai a fare ostruzionismo, alla fine ci sarei andato, ovvio, ma avrei venduto cara la pelle, non mi avrebbero avuto senza faticare!

    Sabato verso le nove saltammo tutti in macchina ed andammo al Vallechiara, la balera del paese che si atteggiava a discoteca e che quella sera sarebbe diventata addirittura sala da concerto. Io, ricordo ancora, mi muovevo strisciando i piedi col muso lungo, salutavo gli amici dei miei certo, (ah le buone maniere!!) ma senza troppo entusiasmo.

    Il locale era buio, i divanetti scomodi, e sicuramente la serata sarebbe stata uno strazio, era bene che mamma e papà lo capissero fin da subito!

    Accanto al pianoforte c’era uno sgabello e, ai piedi dello sgabello, un sax, un flauto e… un clarinetto. Un clarinetto?!

    Andiamo!! Ma allora lo facevano apposta!

    Maledetta quell’influenza che non mi veniva mai!

    I musicisti si presentarono e si inchinarono all’applauso di un pubblico eccitato, facile prendere applausi in anticipo, pensai. E poi erano dei vecchietti e il solista era pelle e ossa, non sarebbe mica riuscito a farli suonare tutti quegli strumenti.

    Con questa predisposizione d’animo mi apprestai ad ascoltare il concerto più importante della mia vita, più importante per me intendo. Perché alla fine della serata, quando le luci si accesero, non riuscii a mascherare la delusione, sarei andato avanti fino all’alba. Erano bravi, davvero bravi, ma questo non penso che lo percepii, non avevo gli strumenti per poterlo capire. Credo invece che fui folgorato dall’energia e dalla creatività di quell’uomo. Me ne stavo lì a tentare di paragonare ciò che quel marziano faceva coi suoi strumenti a tutto ciò che avevo ascoltato fino a quel momento, non molto magari, ma comunque non c’era storia.

    Era qualcosa in più, era Musica, di quella con la M maiuscola.

    Quella fu la prima volta che vidi e ascoltai Guerrino Allifranchini, in quartetto con Sante Palumbo, e i fratelli  Lucchini. Guerrino, quel vecchietto che all’epoca non arrivava ai cinquant’anni, l’uomo grazie al quale (o a causa del quale, vedete voi) ricominciai a suonare il clarinetto.

    Dopo quella sera non lo vidi più.

    Il tempo passò e la mia passione per la musica crebbe, iniziai il conservatorio e a diciassette anni mi fu affidata la gestione della scuola della banda musicale di Carpignano Sesia (dove ebbi cura di dare lo strumento agli allievi il primo giorno di lezione…). Con la banda spesso si andava ad aiutare altre formazioni per poter poi essere a nostra volta aiutati durante i concerti. Io ero una vera e propria trottola, sempre in giro a restituire favori: Villata, Pavia, Palestro, Borgosesia, Arona, Bellinzago, Caltignaga, Veruno, Cassolnovo… facevo di tutto, ma evitavo con cura di andare a Romagnano Sesia, perché… beh perché lì dirigeva Guerrino e francamente mi metteva un po’ di timore. E anche quando, dopo il quinto di conservatorio, ci andai non nego che mi sentissi sempre un po’ in soggezione.

    Ora so cosa state pensando: ma come? Questo ci promette un libro sulla storia di Guerrino e poi ci tedia con la sua infanzia, le sue paure e mille altre cose che non c’entrano nulla?!.

    Sì!

    Ma c’è un motivo. Quanto vi ho raccontato fino ad ora mi aiuta a spiegare, in minima parte almeno, ciò che Guerrino è stato per me e in qualche modo, forse, giustifica quest’opera.

    Se avete pazienza ancora per qualche pagina vi racconterò due aneddoti, due aneddoti che forse non sono un granché rispetto a ciò che leggerete più avanti, ma che a me sembrano inquadrare la personalità di Guerrino, perché, e ve ne renderete conto, è impossibile definirlo a parole.

    Nell’estate del 1998 Nadia, la mia ragazza che sarebbe poi diventata mia moglie, era in Germania ad imparare il tedesco ed io me ne stavo a casa a studiare per gli esami di Archeologia. Da pochi mesi suonavo con Guerrino nel Quartetto Denner che sarebbe poi diventato quintetto solo nel 2001. Guerrino mi aveva subito conquistato con quella sua straordinaria capacità di entrare in confidenza con chiunque in una manciata di minuti. Lo sentivo già come un amico importante, quasi avessimo passato fianco a fianco gran parte della nostra vita.

    Sono le undici del mattino e io sono incastrato sulla dendrocronologia da un paio d’ore quando sento qualcuno chiamarmi dalla strada: è lui.

    Dopo essere entrato nel mio studio ancora bardato da ciclista con tanto di scarpette col tacchetto, pantaloncini tattici e caschetto (uno spettacolo d’uomo, insomma!!)  mi dice che nel fine settimana Ruggero, il figlio violinista (uno dei musicisti migliori che abbia mai ascoltato) suonerà ad un festival di musica classica.

    Inforca la bicicletta e la gira in direzione del cancello. Io allora, quasi soprappensiero, gli chiedo

    Lui mi guarda come se quel dettaglio non facesse poi tanta differenza e mi dice

    Ecco questo aneddoto potrebbe intitolarsi quando non ti fai troppi problemi, tutto è possibile e infatti due giorni dopo ero su una Focus station wagon con Guerrino, Andrea e Luca, altri due folli come noi, alla volta di Stavanger dove avremmo ascoltato non solo Ruggero ma anche Martha Argerich ed altri strepitosi musicisti.

    Il secondo, ed ultimo aneddoto, potrebbe invece intitolarsi vivere inconsapevolmente, e premetto che non lo avrei mai inserito in uno dei miei romanzi, non perché poco interessante, anzi, ma semplicemente perché lo avrei ritenuto troppo surreale, quasi insostenibile; ma tant’è, è capitato.

    Guerrino era a Gran Canaria dove trascorre ancor oggi qualche mese all’anno. Un giorno mi telefona tutto eccitato, mi racconta qualche episodio buffo capitatogli, mi descrive minuziosamente le bellezze locali (un’attività nella quale è un vero Maestro) e poi mi dice:

    Passa una settimana e mi ritelefona. Parlarsi è quasi impossibile perché Guerrino ride come un indemoniato, non riesce a concludere una frase.

    E non ci riesce perché, a quasi una settimana di distanza, ha parlato dei suoi timori ad Adrian, il pianista che lo accompagnava in quella serata, il quale, dopo averlo ascoltato, è cascato dalle nuvole.

    Ecco signore e signori, anche questo è Guerrino Allifranchini: uno che riesce a passare la sera facendo un concerto per una famiglia reale a sua insaputa!

    Io e Guerrino il giorno dopo il concerto a Gran Canaria

    PARTE PRIMA

    Romagnano Sesia 1911 -  1945

    La nostra storia inizia qui, in una sera di primavera.

    Una sera di stelle.

    Francesca è una ragazzina particolare, ha una vita particolare ed un destino importante per noi. Vive in un’Italia di inizio secolo, in bilico su una guerra tremenda che svuoterà case e paesi, una guerra che porterà in una manciata di anni ad una dittatura e, poco dopo, ad un secondo micidiale conflitto planetario. In quell’Italia povera e abbandonata a se stessa, Francesca si è trasferita con la sua famiglia a Romagnano Sesia da Momo, un paesino vicino, perché papà ha trovato lavoro al casello del paese. Francesca ha 16 anni e già lavora come ordisseuse ed è brava, spesso la vengono a prendere dal biellese perché Zegna o altri industriali hanno bisogno delle sue mani capaci.

    Il casello non è poi male, anche se di spazio per una famiglia numerosa come la sua non ce n’è molto. Sì, il casello non è male, però nei primi tempi si sentiva un po’ isolata, lontana da tutto. Da quando ha conosciuto Maria, invece, la vita le sorride un po’ di più.

    Maria abita al casello successivo oltre la collina, non è molto distante dal suo e di giorno è possibile salutarsi da un capo all’altro della galleria. Inizia così un’amicizia unica, fatta di cenni e di saluti a distanza, poetica e profonda.

    Anche Maria è una ragazza speciale e la loro amicizia ha qualcosa di unico dettato forse proprio da quell’essere al di fuori degli schemi.

    Romagnano è un paesino piantato ai piedi della Val Sesia, qui tutti fanno i contadini o lavorano in cartiera, alla Burgo. La vita a Romagnano è una vita semplice dettata dai ritmi del lavoro e dai pochi svaghi che il paese concede. Le donne badano alla casa e ai figli e gli uomini si spezzano la schiena nei campi o in fabbrica, le sere poi si consumano rapidamente: si mangia, ci si lava e ci si trascina a letto per prepararsi ad un’altra giornata di lavoro.

    Ma Francesca e Maria sono creature particolari, l’abbiamo detto.

    I piedi scivolano sui sassi della massicciata e le gambe si fanno meno sicure, più pesanti. È abituata a camminarci Francesca, ma col buio è un’altra cosa. Sarebbe certamente più semplice fare la strada, la potrebbe addirittura fare in bicicletta, ma ci metterebbe troppo tempo. E poi il casello di Maria è proprio lì, può vederne il lumicino acceso fuori dalla porta, là dopo la galleria.

    La galleria…

    Francesca ha sempre sostenuto che non le fa paura la galleria, ma, chissà perché, le sue gambe aumentano un po’ l’andatura mentre inizia ad attraversarla. L’eco dei suoi passi risuona sinistro nel buio davanti a lei e quei cinquecento metri le sembrano un’eternità.

    Uscita da quel budello alza gli occhi al cielo, le stelle sono meravigliose questa sera e quell’aria tiepida e profumata la rigenera.

    Maria la sta aspettando, come sempre. Le due ragazze si spostano dai binari e vanno a sdraiarsi sul prato dietro al casello, dove finalmente l’odore del catrame viene sostituito dal profumo dell’erba umida e l’eco della galleria dal frinire dei grilli e il gracidare delle rane.

    Guardano le stelle.

    Guardano le stelle e sognano.

    Parlano, ridono, si raccontano e poi… la meraviglia.

    Francesca ha una bella voce, è intonata e conosce un sacco di canzoni, e tutte le sere che si incontrano in quel posto, canta. È Maria a chiederglielo, perché anche a lei piace la musica, ma non è altrettanto brava e quindi ha bisogno di Francesca, della Cichina. Francesca canta, canta e guarda le sue stelle e quando avrà finito la sua canzone vorrà essere ripagata, immediatamente, perché Maria non sa cantare, è vero, ma conosce un’infinità di poesie ed è di questo che si ciba Francesca.

    Le due ragazze proseguono così la serata, alternando musica e poesie, suoni e parole. Poi, prima che si faccia troppo tardi, Francesca riprenderà il suo cammino per tornare a casa. Domattina il primo treno passerà all’alba e già sa che papà non ce la farà. È un brav’uomo papà, ma la vita a volte è complicata e ultimamente beve troppo. Così, ogni volta che lo vede rientrare malfermo sulle gambe, quando lo vede trascinarsi a letto a fatica, Francesca sa che dovrà sostituirlo il mattino seguente. Indosserà la sua divisa, si calerà la tesa del cappello a nascondere il suo giovane volto, prenderà la bandiera da agitare al passaggio del treno e reciterà la sua parte.

    Ma stasera non è ancora il momento di pensare agli affanni della vita reale, no, stasera vuole sentire ancora qualche poesia, ne ha bisogno, e poi canterà un’ultima canzone prima di andarsene.

    La nostra storia inizia qui, dicevo, su un prato immerso nell’oscurità, un luogo magico, difficile da raggiungere, e forse anche da immaginare. Un luogo altro rispetto al piano della realtà, una realtà che puzza di catrame e sudore e, tra pochi anni, di sangue e paura.

    Un luogo in cui due ragazze speciali si nutrono di bellezza.

    Di bellezza e poesia.

    2

    Anche Giuseppe è un ragazzo particolare e anche per lui la musica è qualcosa di importante. Lavora in cartiera e appena ne ha l’occasione prende la sua chitarra e suona.

    Ma è nato nel momento sbagliato Giuseppe, fossero gli anni sessanta lo vedremmo sicuramente ogni sera sul palco di qualche festa popolare, lo vedremmo farsi timido mentre invita qualche bella ragazza a ballare, o concentrato mentre cerca di imparare un passaggio di accordi particolarmente difficile. Sì, se fossimo negli anni sessanta lo vedremmo certamente fare cose del genere, ma siamo nel quindici e la storia non guarda in faccia a nessuno, la storia pretende altro. I ventenni non possono occuparsi dei propri sogni, ma devono affrontare gli incubi della loro generazione. E allora per Giuseppe i vent’anni non profumeranno di speranze e brillantina, ma puzzeranno di guerra e paura.

    3

    È il 1919 e con le ossa ancora rotte dalla guerra devastante appena terminata, l’Italia cerca di rimettersi in piedi. La povertà dilaga nel paese e anche a Romagnano Sesia non sarà stato molto diverso il clima che si respirava mentre Francesca e Giuseppe, la Cichina e il Pinot, camminavano verso la chiesa, accompagnati dalle famiglie e dagli amici il giorno del loro matrimonio.

    Ho chiesto a Guerrino se avesse una mezza idea di come si conobbero, come si innamorarono. Lui, seduto sulla poltrona dei nostri incontri, col suo sguardo furbo e intelligente ha sorriso, si è sporto in avanti appoggiando i gomiti alle ginocchia:

    Certamente quei pochi fulminanti anni di guerra avevano indurito le loro vite e inaridito i loro sogni.

    Quanto dovevano essere lontane le serate di stelle e poesia nella mente di Francesca, mentre, quella mattina, saliva la scalinata della chiesa.

    Nel 1921 la Cichina dà alla luce la sua prima figlia: Valeria e nel ‘23 la famiglia aumenta ancora con l’arrivo di Iole. Nel frattempo in Italia cade il governo Giolitti e Mussolini marcia su Roma, trasforma le sue squadracce in Milizia Volontaria e minaccia di trasformare il parlamento in un bivacco per i suoi manipoli.

    Nel 1933, il primo marzo, viene al mondo Guerrino.

    È un bambino vivace e, da subito viene a contatto con la musica. Una musica semplice, non strutturata magari, ma la sua famiglia è costellata di musicisti. Suo padre, con quattro fratelli ha costituito un quintetto con cui suonano nei rari momenti lasciati liberi dal lavoro. Suonano chitarre e mandolini e accompagnano le proiezioni dei film muti. Se ne stanno lì a guardare le immagini e sottolineano, improvvisando, gli stati d’animo dei protagonisti, le atmosfere tristi e allegre, i colpi di scena. Sono chiamati i Garibaldini, perché non si limitano a suonare, ma, prima e dopo la proiezione, fanno anche spettacolo, scenette improvvisate, canzoni, di tutto insomma.

    Il papà lavora sempre, Guerrino non l’ha mai visto andare a dormire, quando torna dalla cartiera non entra neanche in casa, ma si ferma in cantina, lascia le scarpe e indossa gli stivali per andare a fare la sua seconda giornata in campagna, è infaticabile. Ma appena ne ha la possibilità il Pinot risponde al richiamo della musica, e allora prende la chitarra e accompagna Francesca che canta per lui e i figli.

    La vita della famiglia Allifranchini procede così, strappando con i denti e con le unghie un po’ di serenità in un paese che sta scivolando sempre più verso un’altra guerra, un paese con sempre meno libertà e oppresso da una dittatura che si fa sentire anche nei piccoli centri. In questo clima Guerrino inizia le scuole, ma decodifica quella realtà coi suoi occhi di bimbo: per i suoi sei anni il fascismo sono le divise e le mostrine luccicanti in contrapposizione alla polvere delle strade di Romagnano e ai vestiti inzaccherati di terra della gente comune, e poi le marce militari, le esercitazioni in cortile e tutto il bagaglio retorico della propaganda che urla dai libri di scuola.

    Quindi Guerrino non ha dubbi: lui è fascista!

    In famiglia l’approccio è un po’ diverso, il padre è sempre stato di sinistra (come dice Guerrino nessuno sarebbe mai riuscito a strappargli il primo maggio dal cuore) e il fascismo è visto per quel che è.

    Se poi dovessero avere qualche dubbio in proposito, gli basterebbe affacciarsi alla finestra e guardare dall’altra parte della strada, a quel vicino, quel poveraccio che ogni due per tre viene caricato su una camionetta per passare qualche notte in carcere a Novara, prendersi la sua razione di botte e olio di ricino e tornarsene a casa ad aspettare la prossima volta.

    Quello è il fascismo per gli Allifranchini!

    Perciò, se non ci fosse la zia Carolina, Guerrino resterebbe un povero Figlio della Lupa frustrato.

    Ma la zia ci crede, e ci crede davvero!

    Quando, qualche anno dopo, passerà il Duce per le vie di Romagnano sarà lei che lo accompagnerà, vestita di tutto punto. Lui ancora se la ricorda statuaria in un plastico saluto romano da manuale.

    La zia Carolina… lei sì che gli darà soddisfazioni, mica suo padre che quel giorno glorioso si metterà gli stivali e se ne andrà in campagna, il più lontano possibile da quella buffonata, come dice lui.

    Guerrino adora gli zii per molti motivi: in primo luogo perché, velleità imperialiste a parte, sono delle brave persone, e poi se la passano bene e gli fanno spesso dei regalini. Guerrino li adora anche perché lo zio Pipin, il marito di Carolina, suona la fisarmonica e non sa mai dirgli di no, quando gli chiede di suonarla per lui, e poi è elettricista e a Natale fa i più bei presepi che abbia mai visto.

    Quando compie otto anni l’Italia è già in guerra e quel giorno la zia Carolina lo invita nella sua bella casa nel centro di Romagnano, ha un regalo da dargli. Guerrino entra con bramosia in quel bell’appartamento, le farfalle nello stomaco. Lei gli consegna un pacco voluminoso, lui lo soppesa, lo tasta e poi lo apre con impazienza, dentro c’è una divisa, quella divisa. I pantaloncini corti, la camicia nera, le mostrine, la fascia bianca e poi il fez con l’aquila romana.

    L’emozione è tale che, senza neppure sapere il perché, il bimbo si ritrova in piedi sul tavolo della cucina e con gesti sicuri dirige una fanfara immaginaria cantando a squarciagola Giovinezza.

    Di fronte a lui Carolina, commossa, piange senza freni.

    *

    Siamo nel suo appartamento, chiacchieriamo di queste cose davanti ad un registratore, da quando ho deciso di scrivere questo libro lo facciamo spesso. Guerrino ride raccontandomi questo aneddoto e poi, senza dare troppa importanza alla cosa, mi dice che tanta era la gioia per quella divisa che ogni sabato la indossava per andare a scuola, ne era davvero orgoglioso.

    E allora, da padre, mi sono chiesto quanto il Pinot, quel signore schivo e lavoratore, quella persona semplice ma con le idee chiare, quanto dovesse voler bene a suo figlio? Certo forse non glielo disse mai perché non erano tempi di smancerie sentimentali quelli. Non riesco ad immaginare però quanto imbarazzo dovesse dargli vedere il proprio bimbo andare a scuola vestito da fascista perfetto, sapere che tutti in paese lo avrebbero visto e ne avrebbero parlato.

    Quante volte avrà considerato, con la rabbia stretta tra i denti, l’idea di vietargli di indossare quella mostruosità, quante?

    Ma non lo fece mai, perché in fondo era un buon padre il Pinot e immagino debba aver considerato che quel suo disagio non dovesse poi essere un costo troppo alto per il sorriso e la felicità di un figlio.

    4

    Finite le elementari Guerrino fa l’esame di ammissione alle medie e lo supera iniziando così un anno davvero particolare. Particolare perché siamo, ancora una volta, in un momento critico della storia. C’è stato l’otto settembre e tutto è precipitato nel caos: Mussolini arrestato, Mussolini liberato, il nord in mano ai tedeschi e i repubblichini a dar loro manforte. A Romagnano c’è un accasermamento della Wehrmacht ed un presidio con militari della Folgore che hanno scelto come sede il Collegio Curioni, cioè la sede amministrativa delle scuole. Quindi Guerrino va a scuola in mezzo a quelle tensioni e non sarà certo stato facile concentrarsi e pensare ai compiti mentre la pressione aumentava di giorno in giorno per le vie del paese.

    Davanti a casa sua, a pochi passi dalla finestra dietro la quale, mille anni dopo, ci ritroveremo ogni mercoledì per provare gli arrangiamenti del Quintetto Denner, c’è un posto di blocco con una mitragliatrice a sbarrare la strada. I tre ragazzotti di guardia, quelli che fanno tremare ogni passante e che sottopongono ogni convoglio ad accertamenti sommari, non arrivano con tutta probabilità neppure ai diciott’anni.

    Sono lì a presidiare quella via strategica come volontari della Repubblica Sociale perché, e ne sono convinti, la guerra sta svoltando, in Russia va tutto alla grande e i nazisti stanno per prendere il potere anche là. Presto poi i tedeschi ricacceranno gli alleati dall’Italia e allora sì che si respirerà un’altra aria. Loro lo sanno perché ogni sera la radio di regime porta ottime notizie dal fronte.

    Al di là della strada invece, in casa Allifranchini, la convinzione è tutt’altra.

    Per prima cosa il Pinot ha una radio, è il suo orgoglio, l’ha comprata perché voleva ascoltarsi l’opera in santa pace senza essere costretto ad andare dal vicino per poterlo fare, e ogni tanto infatti l’opera la ascoltano davvero, tutti assieme. Ma quando scende la sera, quando in strada non c’è più nessuno, beh allora si chiudono le imposte, si abbassa il volume, ci si stringe tutti attorno a quella scatoletta e… tatatatam tatatatam parte radio Londra col suo Colonnello Buonasera, e lì è davvero tutta un’altra musica.

    Radio Londra a parte comunque, che le cose in Russia andassero male già da un pezzo gli Allifranchini lo sapevano da una fonte diretta. Sì perché il fidanzato di Valeria, Giovanni, era là, e ogni tanto arrivavano le sue lettere. Giovanni, o meglio il Nino Nero, prima di partire, sapendo che le lettere dei soldati sarebbero state censurate per evitare fughe di notizie, aveva stabilito un codice con Valeria: se nelle lettere, descrivendo i suoi pasti, avesse parlato di patate, avrebbe voluto dire che si stava avanzando, ma se avesse parlato di cipolle, beh allora significava che le cose stavano precipitando.

    D’accordo non è esattamente il codice Rebecca, ma nelle sue ultime lettere prima di essere dichiarato disperso, erano mesi che il Nino non mangiava altro che cipolle…

    È pomeriggio e i vetri delle finestre al piano superiore iniziano a tremare: sta passando un convoglio in strada. Iole, la sorella di Guerrino, incuriosita si affaccia alla finestra del primo piano e vede una colonna di corazzati tedeschi fermi al posto di blocco che attendono di entrare dalla provinciale per Novara. Alla testa del convoglio una macchina scoperta con due ufficiali impettiti nei sedili posteriori. Iole non si attarda più di tanto, ma quanto basta per incrociare lo sguardo di uno degli ufficiali.

    La sera stessa qualcuno bussa al portone degli Allifranchini.

    L’ufficiale entra chiedendo permesso, e questo non è esattamente una prassi in quei tempi, vorrebbe conoscere quella bellissima ragazza che ha visto nel pomeriggio, ha un regalo per lei. Iole viene chiamata e l’ufficiale viene fatto accomodare. In casa si respira un’atmosfera sospesa, è un momento storico particolare quello, l’abbiamo detto, scordatevi la società di diritto, scordatevi la giustizia e le buone maniere, qui i tedeschi hanno diritto assoluto su ogni cosa e molto spesso per un capriccio o un’irritazione momentanea si sono consumati gli atti più ignobili ed atroci della storia del paese. Iole scende le scale rigida, non sa cosa aspettarsi, e incrociando lo sguardo dei suoi famigliari capisce che lì, in casa, nessuno lo sa.

    Il Maresciallo Maggiore però è gentile, sembra una brava persona, ha portato qualche scatola di carne, vorrebbe parlarle. Si siedono tutti intorno al tavolo e per un attimo sembra quasi che la violenza della guerra, i morti e le atrocità siano un po’ più distanti. Parla un italiano abbastanza fluido, racconta della sua famiglia, di Vienna e della sua vita da civile, è da subito evidente che anch’esso è una vittima, imprigionato in una guerra che non capisce più e che, a lui come a tutti, non lascia scampo.

    Quello sarà il primo di numerosi incontri, ogni volta il tedesco è gentile, garbato, ogni volta porta del cibo e ogni volta vuole vedere Iole, si sta innamorando.

    Alcune volte invita Guerrino e il cugino Antonio a seguirlo alla caserma, dove dà loro qualche scatoletta, un po’ di zucchero e altri generi di conforto.

    Un giorno invece bussa al portone, e questa volta senza neppure chiedere permesso, entra in casa. Non è solo, alle sue spalle ha un graduato delle SS, l’ufficiale entra in casa e, prima che chiunque possa fiatare dice a denti stretti, sottovoce

    È visibilmente teso e anche se l’SS è di grado inferiore sembra temerlo, ne è spaventato. Quell’altro entra in casa senza degnare di uno sguardo la famiglia, prende una sedia e si siede a tavola: padrone.

    Poi sgancia una granata dalla cintura e la appoggia rumorosamente sul tavolo urlando

    Mamma Francesca esce di corsa, non le piace lasciare quell’animale con la gente che ama, non si può mai sapere.

    Raccoglie tutto ciò che è in grado di mettere assieme, soprattutto patate e uova, anche le vicine la aiutano. L’SS divora tutto con voracità, in silenzio. Poi si alza e, con la bocca chiusa e il disprezzo negli occhi, se ne va, seguito dall’ufficiale visibilmente sollevato.

    5

    Le visite, quelle gentili intendo, continuano e alcune volte pare che la guerra non esista proprio nei discorsi di quell’ufficiale. Altre volte invece si lascia andare in considerazioni ardite, compromettenti. Sostiene che sia da folli continuare, che tutto è perduto e solo un pazzo non capirebbe che gli alleati stanno arrivando, la guerra è persa. Gli Allifranchini annuiscono senza mai prendere parte attiva, trattando ogni argomento con cautela, come si maneggia qualcosa di pericoloso.

    È proprio alla fine di uno di quegli sfoghi che l’ufficiale scopre le sue carte: vorrebbe sposare Iole. Sì sposarla e portarla con sé in Austria, a Vienna. L’esercito

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1