Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Un colpo preciso
Un colpo preciso
Un colpo preciso
E-book184 pagine2 ore

Un colpo preciso

Valutazione: 5 su 5 stelle

5/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La sua vita non fu mai né semplice, né comoda. L’infanzia felice della protagonista si era conclusa con i difficili anni Novanta della Russia. E le toccò quindi buttarsi a capofitto nell’atmosfera di quel periodo complicato. Dalle stalle alle stelle e ritorno, dai soldi facili alle tasche vuote, dall’amore perfetto al tradimento... Ma è riuscita a sopravvivere, là dove gli altri si sono arresi o addirittura non ce l’hanno fatta. E tutto questo con il sottofondo della musica dei gruppi rock cult.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita2 giu 2020
ISBN9781071545140
Un colpo preciso

Correlato a Un colpo preciso

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Un colpo preciso

Valutazione: 5 su 5 stelle
5/5

1 valutazione0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Un colpo preciso - Elena Viaggi

    Mio padre aveva giocato per tutta la vita. Aveva centinaia di passatempi, ai quali si dedicava completamente nel tempo libero. Da giovane andava in montagna con la tenda da campeggio. Suonava la fisarmonica e il pianoforte. Collezionava libri. Si dilettava di fotografia.

    Ritornava dall’ennesimo viaggio e se ne stava delle ore in bagno a sviluppare le fotografie. Si era anche fatto una lampada nera con una cupola, che sembrava venire da Marte. Disponevamo dei giornali sul pavimento della grande stanza, e vi disponevamo le fotografie bagnate. Il gatto alla vista dei giornali fu preso dall’entusiasmo e con una rincorsa fece un balzo proprio in mezzo. Lo chiusero da qualche parte. Io tuttora non sono ancora riuscita a capire come impostare l’otturatore e il diaframma, ma una volta facevo le foto con una vecchia FED.

    Mio padre mi portava alla Sala Esposizioni del Maneggio a vedere le mostre di artisti contemporanei. Nell’enorme salone bianco erano appese delle insulse tele noiose. Ho sempre amato la vecchia pittura. Come Dürer, in particolare l’Autoritratto con pelliccia dove lui, trentenne con una criniera fiammante da leone, si è ritratto come signore del mondo. Le immagini nitide sulle tele di Cranach. Le piccole figure di olandesi che pattinano sul canale ghiacciato. Le diavolerie fantasmagoriche di Bosch e l’orologio a uovo fritto di Dalì. Picasso mi è sempre sembrato rozzo. Mi turbavano i girasoli aggressivi e i paesaggi inquieti di Van Gogh. I personaggi appassionati e scioccanti di Toulouse-Lautrec. La follia fiabesca sulle tele di Vrubel’. Gli schizzi esotici e ipersessuali dei costumi di Bakst e del suo magnifico ritratto di Sergej Djagilev. Il freddo e raffinato Serov, e il solare, allegro Konstantin Korovin. Le delicate Madonne di Petrov-Vodkin al di là dello specchio tintinnante della rivoluzione. Col tempo, venne la comprensione del sottile psicologismo di Kramskoj e del genio dei personaggi di Repin. Il rosso chiassoso di Makovskij. La malinconia penetrante della natura russa di Levitan.

    Mio padre mi teneva la mente occupata con le sue attività. Potevo passare delle ore a guardare come univa i dettagli o dipingeva a olio. Quante alternative per scegliersi un percorso di vita.

    La mamma cercava con fatica di inculcarmi le doti di casalinga. Mi affidava compiti semplici, come cucinare la pasta. Al suo arrivo a casa la pasta era traboccata, prosciugata e bruciata sul fornello.

    E nel frattempo io disegnavo fumetti o danzavo davanti allo specchio.

    Dimenticavo di metter il sale nel cibo, di spegnere le luci in bagno, di chiudere a chiave la porta d’ingresso, quando arrivavo al negozio, mi dimenticavo cosa dovevo comprare. Me ne stavo vicino al bancone finché la commessa non mi chiedeva cosa mi servisse. La mamma iniziò a scrivermi dei bigliettini.

    Però avevo una fervida immaginazione. All’inizio immaginavo che sarei stata una ballerina, poi una cantante in un abito sfavillante, poi una grande pianista. Perché una pianista dovrebbe essere capace di cucinare la pasta?

    Tormentavo il vecchio pianoforte con folli improvvisazioni, fino a quando in casa non impazzivano.

    Allora mio padre si sedeva al piano e suonava a memoria l’ouverture della Prima Sinfonia di Čajkovskij.

    Non mi insegnarono le note: evidentemente avevano capito che era inutile. Quindi il grande Schnittke[2] e Karavajčuk[3] possono dormire sonni tranquilli.

    Li convinsi a comprarmi una chitarra. E fui persino in grado di imparare un paio di accordi, ma le dita iniziarono a farmi male.

    Mi mancava ovviamente la perseveranza.

    Di conseguenza, verso i 16 anni sapevo molte cose, ma non sapevo fare quasi nulla.

    Passavo da un hobby all’altro, non riuscivo a concentrarmi su qualcosa a lungo e non finivo quello che cominciavo. Dopo una pesante giornata di studi, la mattina dopo potevo svegliarmi con disgusto per la materia stessa o per l’intero mondo che mi circondava. Non so se era per il mio carattere o per gli ormoni, ma i periodi di grande entusiasmo si concludevano con attacchi di depressione.

    Nel 1985 andai con mio padre nella regione di Vologda per degli studi di fotografia. Lui con una vera macchina fotografica, io con una scatola di pastelli colorati. Dopo essermi sistemata con la lavagnetta da disegno in un angolo pittoresco, notai gli studenti dell’Accademia delle Arti che erano usciti per dipingere all’aperto.

    Ero attratta da uno di loro, con un buffo cappello a tamburello di feltro. Poteva passare ore a disegnare l’esile sagoma di una chiesetta su una collina. Più lo guardavo, più mi innamoravo e la voglia di disegnare mi passava.

    Mio padre cercava di distrarmi, ma il mal d’amore si era impadronito di me.

    Quando tornammo in città, abbandonai del tutto il disegno. Mi piaceva sempre di più il sesso opposto.

    Dovevo assolutamente divertirmi con qualcosa di nuovo.

    Allora un’amica mi trascinò al circolo della musica. I ragazzi suonavano la chitarra e noi cantavamo al microfono. Ovviamente solo il repertorio sovietico consentito, niente roba straniera. Tra gli artisti sovietici, andava di moda Vladimir Kuz’min. Bello e bravo.

    La mia amica del circolo della musica iniziò a uscire con un ragazzo del gruppo che mi piaceva, e lei lo sapeva, e ogni volta faceva apposta a mettermi al corrente dei dettagli dei loro appuntamenti, divertita. Quando me la presi, scrollò semplicemente le spalle: Be’, ci siamo solo tenuti per mano e basta.

    Il mio primo amore sono stati i Beatles. Me li aveva fatti conoscere Il figlio di amici di papà, più grande di me. Il ragazzo era malaticcio e lasciava raramente la camera. Il suo scopo nella vita era collezionare musica. Ascoltava solo i Beatles. Ricordo come con trepido orgoglio mi mostrava i nastri e un vinile raro. Gli intenditori credono che i Beatles siano pop. Bene, sarà anche vero, ma che pop!

    La mamma di una compagna di classe ci aveva procurato i biglietti per il concerto di Alla Pugačëva alla grande sala da concerti Oktjabr’skij.

    La prima donna dominava la scena, vestita con un caffettano sgargiante. I suoi brani di successo erano: Ajsberg, Paromščik, Million alych roz. La sala singhiozzava in adorazione. Un tuono di applausi, montagne di fiori, non volevano lasciare andare Alla, continuavano a richiamarla sul palco.

    Nella casa di campagna, ebbi una storia d’amore con un vicino di casa dall’altra parte della strada.

    Fumavamo di nascosto una foglia di betulla essiccata avvolta in un pezzo di giornale. Restavamo abbracciati nei tramonti d’estate. Facevamo il bagno nel fiume, ci tuffavamo con la rincorsa giù dalla riva sabbiosa nell’acqua fredda.

    Ce ne andavamo in bici nei campi: sdraiati nel prato guardavamo lo sconfinato cielo azzurro pallido con le nuvole dalla forma strana, bianche come la neve. Il disco solare restava impresso sulla retina e se chiudevamo gli occhi, potevamo vedere i cerchi ultravioletti.

    La mattina presto, io e mio fratello andavamo allo spaccio alimentare locale a prendere il latte. Mio fratello pedalava tenendo un bidoncino del latte per mano. Io gli tenevo dietro con la mia biciclettina, con una borsa a rete piena di pane e pan di zenzero. E per colazione mangiavamo pane nero caldo dalla crosta croccante e latte appena munto.

    La fine dell’estate, con le sue prime fredde giornate d’agosto, mi metteva sempre una tristezza insopportabile.

    Nell’aria c’era l’odore delle foglie che appassivano. L’odore diceva che domani è il primo di settembre e bisogna tornare a scuola. Gli ultimi weekend andavamo alla casa in campagna a prendere i fiori. I teneri astri erano stati sferzati dalla pioggia e si piegavano tristemente sotto il peso delle gocce.

    Non mi piaceva il mio compleanno in autunno, perché pioveva sempre e faceva buio presto. Il tempo era sempre brutto. Non c’era ancora la neve, ma non c’erano nemmeno i miei fiori primaverili preferiti. Da piccola mi regalavano sempre e solo crisantemi autunnali.

    Dalla depressione mi salvarono gli amici.

    Passeggiavo allegramente con mio fratello e i suoi amici: Miša[4], che ora è autore di storielle sul pronto soccorso, e suo fratello, il futuro tastierista dei primi album del gruppo rock Splean. Organizzavamo concerti in casa: il piano, la chitarra e le nostre grida facevano disperare i vicini di casa.

    I ragazzi portavano l’attrezzatura per il gruppo rock DDT, che allora si esibiva nel centro ricreativo del distretto di Krasnogvardejskij. E il barbuto Ševčuk saltava freneticamente per il palco, ruggendo nel microfono.

    L’ultima settimana di dicembre, nessuno riusciva a studiare. La scuola era in fermento: i preparativi per l’albero di Natale o per il ballo, la realizzazione degli abiti e dei regali. Tutti si pregustavano un qualche miracolo.

    Il romanticismo era nell’aria. L’insegnante di applicazione tecnica, un trentenne con la faccia rossa come un eroe dei western, aveva ricavato nel laboratorio una stanzetta con un divano dove si appartava con una ragazza inglese.

    La discoteca della scuola la organizzavano i ragazzi più grandi. Tra questi c’era il futuro Dj Loveski. Amavano Elvis e il rock and roll. Mettevano musica su nastri degli anni Sessanta e Settanta, di qualità orrenda. I compagni di classe più evoluti ballavano la break dance. La cosa più bella era saltare al centro del cerchio e girare come un elicottero. Ai pantaloni di chi la ballava si strappavano le cuciture e la gente si accalcava intorno, guardando entusiasta.

    Il mio outfit era composto dalla minigonna rossa di mia madre, dalla giacca da sposo di papà con le spalle scivolate e dalle classiche scarpe da tennis della Adidas per una migliore presa sulla pista da ballo.

    Per far stare i capelli come volevo, prima di andare a dormire mi arrotolavo le ciocche e le fissavo con degli elastici. Al mattino mi facevo la pettinatura e spruzzavo senza pietà la lacca sovietica a fissaggio extra forte Fascino. Addirittura anche con i brillantini. Una volta sono stata cacciata dalla classe, perché l’intera classe guardava solo me.

    Raramente mi invitavano a ballare. Quindi, ero io la prima a invitare. Finché una volta il mio amico Alekseev mi ha trascinato a ballare un lento. Fui sorpresa perché eravamo solo amici. E qui mi confidò il suo segreto. Praticamente gli piaceva una stangona della classe parallela, di un pezzo più alta di me. Ma aveva paura di invitarla. Ne so qualcosa, pensai.

    Io e la mia amica andavamo ai concerti del gruppo rock Alisa al club della cultura dei ferrovieri.

    Il giovane e muscoloso Kostja Kinčev in un body nero si muoveva con maestria e destrezza. Provocava, sconcertava, cantava:

    Lo sperimentatore dei movimenti su-giù

    Vede uno spazio là dove io vedo un muro.

    Crede di avere ragione, è sicuro della sua idea, raggiunge il fondo in ogni processo.[5]

    La sala scandiva entusiasta:

    — Siamo insieme!

    La mia generazione guarda in basso,

    La mia generazione ha paura del giorno,

    La mia generazione preferisce la notte

    E al mattino si divora[6].

    La folla aggressiva ci trascinò fuori in strada, noi siamo corse a casa urlando frammenti di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1