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Soul to soul. Storie di musica vera
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E-book345 pagine5 ore

Soul to soul. Storie di musica vera

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Info su questo ebook

Dalla penna di Alberto Castelli - tra i maggiori conoscitori della black music in Italia - un viaggio nel tempo attraverso città come Chicago, New York, Philadelphia, Memphis, Detroit, Londra, Kingston per celebrare, con il ritmo di un programma radiofonico, stili, artisti, canzoni e album diventati classici della musica 'african american'. Un racconto appassionato e corale nel cuore della black music contemporanea, dal jazz al blues, dal gospel al rhythm'n'blues, dal soul classico degli anni Sessanta alla stagione funk del decennio successivo. Dallo ska al rocksteady al reggae, al dub, all'hip hop. Una collezione di ritratti di artisti come Otis Redding, Bob Marley, Quincy Jones, Michael Jackson, Al Green, Anita Baker, Prince, e campioni dello sport, quali Kareem Abdul-Jabbar, Muhammad Ali e tanti altri. Una sorta di diario dell'educazione sentimentale per una passione diventata professione attraverso luoghi, incontri, interviste - alcune pubblicate per la prima volta - amicizie. L'omaggio definitivo a una musica che ha saputo sprigionare e trasmettere rabbia e sensualità, gioia e dolore, orgoglio e passione. Un patrimonio da rispettare; un suono universale che è diventato la colonna sonora per generazioni diverse. Perché, come cantava Bob Marley "una delle cose belle della musica, è che quando ti colpisce, tu non senti dolore". Prefazione di Federico Traversa.

 
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2020
ISBN9791280133205
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    Anteprima del libro

    Soul to soul. Storie di musica vera - Alberto Castelli

    PREFAZIONE: IO AD ALBERTO LO CHIAMO MAESTRO

    Se oggi scrivo di musica, con un occhio particolare alla black music e, entrando nello specifico ancora più specifico, al reggae, il merito è di due persone in particolare, forse tre.

    La prima è indiscutibilmente Bob Marley.

    La forse terza è Michael Jackson.

    La seconda, senza ombra di dubbio, risponde al nome di Alberto Castelli. Con i suoi programmi in radio e le accorate recensioni di incredibili dischi che profumavano di jazz, blues, reggae e soul, il vecchio mods romano mi ha spalancato le porte di un mondo magico che mi ha portato altrove.

    Dopo averlo letto e ascoltato per anni, ho timidamente approcciato l’autore di questo libro 10 anni fa, dopo aver terminato la prima stesura di Bob Marley In This Life. Gli scrissi una lunga mail dove lo supplicavo di leggere il mio libercolo su Tuff Gong e, se lo riteneva meritevole, scriverne una postfazione. Non me la sentivo di approcciarmi a Marley senza il beneplacito di uno dei più profondi conoscitori italiani del profeta del reggae. E Alberto quella simbolica benedizione me la diede, sottoforma di un paio di cartelle che con gioia inserii nel libro. E fece di più, accettando di presentare il volume con me nella suggestiva Reggae University, all’interno del Rototom Sunsplash, senza ombra di dubbio il festival reggae più bello e seguito d’Europa, che allora si teneva ad Osoppo, nel verde più verde, ed era uno spettacolo di balli, tende, musica e colori. Quello che non sapevamo, né io né Alberto, è che quella sarebbe stata l’ultima edizione di quella manifestazione in Italia, e che dall’anno successivo il Rototom si sarebbe scandalosamente trasferito in Spagna per via dei soliti impedimenti, burocratici e non solo, con cui è costretto a combattere chi cerca di organizzare qualcosa in questo paese. Ma non divaghiamo.

    Quel pomeriggio incontrai per la prima volta Alberto di persona, l’immancabile basco in testa, gli occhiali da sole e il sorriso caldo di chi, come dice lui, "cerca di vivere elegantemente in circostanze difficili".

    Ero emozionato ma lui mi guidò in una bella chiacchierata che iniziammo davanti a un pubblico di una quarantina di persone, ed eravamo già belli soddisfatti. Poi ci distraemmo un attimo, un aneddoto sul king di qua, uno su Lee Scretch Perry di là, e quando alzammo la testa la sorpresa: il tendone che ospitava la Reggae University era stracolmo, non c’era un posto libero, mentre una marea di gente continuava a entrare restando in piedi. Il gasamento per essere capaci di simili sold out svanì quando ci rendemmo conto del motivo di quella ressa. Dietro di noi stavano – in attesa di iniziare una conferenza che non era stata annunciata ma volata di bocca in bocca grazie al passaparola proprio per evitare troppo afflusso – Chris Blackwell e Bunny Wailer.

    "Mamma mia" disse Alberto mentre salutavamo un pubblico molto generoso con noi nell’applauso e incassavamo pure il sorriso benevolo di Chris che, abbronzato, con la camicia di jeans e il cappellino verde militare, ricordava vagamente Vasco Rossi, però un po’ più magro. Ma non lo era. Era invece l’uomo che aveva fondato la Island, lanciato Bob Marley fra il pubblico bianco, messo sotto contratto gli U2 e tanti, tanti altri. Bunny, vestito di bianco, con bastone d’ordinanza e occhiali a specchio, al contrario sembrava un re che non regalava sguardi e cenni a nessuno, molto meno affabile dell’ex capoccia della Island.

    La conferenza fra i due fu al fulmicotone. Il pacifico Chris cercava di mantenerla leggera, condividendo ricordi e curiosità divertenti. Peccato che Bunny non fosse di quell’idea; iniziò a andarci giù pesante, accusando la Island di avergli fregato dei soldi, Blackwell di essere un truffatore, eccetera eccetera. Fu davvero pazzesco e probabilmente anche ingiusto, se si considera quello che ha fatto Chris per la diffusione del reggae nel mondo.

    Ecco come andò il mio primo incontro col maestro Castelli che da allora – e da quando è nata Chinaski Edizioni, la casa editrice che cerco di dirigere con l’aspirazione di creare una piccola Trojan della letteratura musicale – sogno di pubblicare. E dopo anni il mio desiderio è stato esaudito con il libro migliore che si potesse realizzare, quello che meglio si addice alle caratteristiche di Alberto, che è uno storyteller nato, un bluesman della parola e del racconto, capace di portarci con stile in un lungo viaggio attraverso gli anni d’oro della musica black, dove il groove che suona è motore e carezza per l’anima. Un orgoglio nero che passa con nonchalance da Otis Redding a Bob Marley, da Quincy Jones a Gil Scott Heron, Da Muhammad Ali a Marvin Gaye, dal southern soul ad Amy Winehouse, dalla Motown alla Stax, da Kareem Abdul-Jabbar ad Al Green.

    Capito che roba?

    Questo non è solo un libro, è un pezzo fondante di storia della musica, una radio distorta e lontana, quasi magica, che vi consiglio di leggere (o sentire? Boh, ve l’ho detto, è magica) la notte, accompagnata dall’ascolto dei brani che racconta. Possibilmente amandovi alla fine di ogni capitolo. Da soli, in coppia, in gruppo, come vi aggrada.

    Probabilmente se spargessimo nell’aria una playlist con una piccola parte delle canzoni citate in questo libro il tasso delle nascite aumenterebbe del 300%. E anche quello delle rivolte contro le funeste maglie del potere... dai, sto di nuovo divagando.

    Davvero, questo è il libro giusto scritto dallo scrittore giusto sugli artisti giusti che hanno scritto le canzoni giuste.

    Ve l’ho detto, io ad Alberto lo chiamo maestro. E Soul to Soul è la lavagna su cui ci impartisce la lezione, un sunto della mitica storia della black music e dei suoi protagonisti, un enorme jam session che passa di città in città e racconta di amori tormentati, treni perduti, flusso naturale e mistico che attraversa l’aria mentre ce ne stiamo seduti a riflettere sulla banchina del porto e un pastore della chiesa di Memphis ci assolve cantando Let’s Stay Together.

    Ecco, sto ancora divagando...

    Tanto quello che dovevo dire l’ho già detto. Questo libro è un blues che ti porta via. Castelli è un bluesman che ti porta via. Gli artisti raccontati in questo libro ti portano via.

    Leggetelo con gioia e moderazione, possibilmente mantenendo una certa eleganza nonostante i momenti difficili.

    Federico ‘Sandman’ Traversa

    - Mi sono perso qualcosa?

    - Solo il tempo risponderà alla tua domanda, ragazzo. Ricordati sempre che è una sola, unica, grande storia. Una sola, unica grande storia.

    (Da un film dei primi anni ’90 ambientato a New York, di cui ricordo solo questo. Tutto il resto l’ho dimenticato)

    INTRO

    "All’inizio del mondo Adamo aveva i blues perché era solo. Allora Dio venne in suo aiuto e creò la donna; e ora tutti hanno i blues". Trovai questa dichiarazione di Willie Dixon – uno che suonava il contrabbasso come pochi, figura chiave nel suono blues della Chess Records e autore di un bel numero di classici – in un vecchio libro dedicato al blues¹.

    Dopo averla letta, e dopo aver sorriso, decisi che dovevo ascoltare quella musica. Così, cominciai a comprare un numero impressionante di dischi blues. Anche perché ai tempi erano quasi tutti fuori catalogo e quindi costavano poco.

    In realtà, cominciai a sentire (in questo caso meglio sentire di ascoltare) il blues perché quelli che frequentavo in quel periodo – 1977 e non c’è bisogno di aggiungere nulla – e molte delle persone di cui mi fidavo per quanto riguardava la musica, dicevano sempre la stessa cosa:

    "… Certo, anche loro hanno preso tutto da Muddy Waters, da Chuck Berry e dai grandi musicisti blues, perché se non ci fossero stati loro…". La frase mi colpiva, mi piaceva e quindi mi avvicinai al blues, quello vero. Mi sembrava la cosa giusta da fare. Inoltre, particolare da non sottovalutare, avevo la sensazione che quelli veri del blues vero erano molto più avanti di tutti, nonostante fossero uomini e donne che appartenevano a un altro mondo rispetto al mio. Letteralmente un altro mondo.

    Tutto, per me, è cominciato con il blues. Lo so, è una frase che avete letto decine di volte e che è stata detta da tante persone molto più importanti di me. Grazie a quelle dodici battute ho avuto la fortuna di trasformare l’amore per la musica in un lavoro. Con il tempo ho scoperto altri stili e altri artisti incredibili. E canzoni che quando le ascoltavo per la prima volta, mi sembrava di conoscere da sempre. E ritmi che mi colpivano. E voci che mi emozionavano. E storie, che se non ci fossero state per davvero, sarebbe stato doveroso inventarle. Storie belle. Storie brutte. Tutto quello che viene chiamato vita. Storie di uomini e donne coraggiosi. Persone d’altri tempi. Come l’unica, la sola Big Mama Thornton: "Dopo aver registrato Hound Dog mi diedero cinquecento dollari e poi per quella canzone non ho più visto un solo dollaro, mi ero perfino dimenticata di averla incisa. Un giorno ero in un negozio e qualcuno ha acceso la radio e ho sentito una voce che diceva: E ora Hound Dog, il grande successo di Big Mama Thornton. Sentirla alla radio fu talmente bello che andai a comprare il disco. Poi mi resi conto che non avevo un giradischi e così comprai anche quello. Mi ricordo che quella sera avevo un concerto da qualche parte e passai diverse ore in camerino a sentire quella canzone, la mia Hound Dog. Fu bellissimo! Ero proprio io quella che cantava! Era proprio la mia voce. Poi è arrivato quel ragazzo, quell’Elvis di Memphis, come lo chiamavano Leiber e Stoller e, come dire, mi ha rubato la canzone! Così va il mondo…".

    Andava così il mondo per Big Mama Thornton, cantante, armonicista, batterista. Sempre a testa alta. Era lei. Era il blues e le sue storie. Improvvisazione: che poi il produttore della Hound Dog di Big Mama (quella vera) era Johnny Otis, il padre di Shuggie, che suonava la chitarra, cantava, aveva un gran talento. Buttato. Uno dei preferiti di Prince, del giovane Prince. Fine dell’improvvisazione, per ora.

    E ancora a proposito di quel tipo, ‘Elvis da Memphis’, come lo chiamavano gli autori Jerry Leiber e Mike Stoller. L’affascinante Ruth Brown era una cantante con stile e personalità. Più volte aveva ricevuto l’applauso del pubblico (terribile) dell’Apollo Theatre, ad Harlem, New York. Un giorno, l’affascinante Ruth Brown, con il consueto stile disse: "Poi quando è arrivato Elvis Presley, abbiamo scoperto che la nostra musica si chiamava Rock’n’ Roll".

    Ruth Brown aveva un nipote: William Griffin. Viveva a Long Island, New York. Parlava poco. Ascoltava i tanti dischi della collezione di suo padre, che comprendeva ovviamente anche quelli dell’affascinante Ruth Brown. Comincerà a giocare con le parole, con le rime, con il jazz, quel William Griffin. Diventerà Rakim, o se preferite Rakim Allah, la sua autobiografia in musica è stata celebrata da un certo Nasir Jones, meglio conosciuto come Nas, figlio del chitarrista Olu Dara.

    Tutte queste cose, e molte altre ancora, fanno parte di un mondo di parole, segni, suoni, ritmi che da anni conosciamo come Black Music. Un termine che per me spiegava tutto. Era la chiave per passare dalla voce di Muddy Waters a quella di Sam Cooke, dal blues al soul, dal funk al reggae, al rap. Era il motivo per cui dovevo sapere tutto sulla Motown, sulla Stax e sulle altre etichette del soul classico.

    Black music: immaginavo una big band straordinaria, un film lunghissimo e appassionante, con Robert Johnson e Nat King Cole, Bob Marley e Marvin Gaye, Aretha Franklin ed Erykah Badu, Charlie Parker al sassofono, James Brown che urlava "I’m black and I’m proud", Thelonious Monk che picchiava sui tasti del pianoforte, Miles Davis che suonava al fianco di Prince, Fela Kuti che parlava con Jimi Hendrix, Chuck D che giocava a basket con Kareem Abdul Jabbar, Clement Coxsone Dodd, il fondatore della Studio l, la Motown della Giamaica, che registrava un brano degli Skatalites, Quincy Jones che dava il tempo a Ella Fitzgerald, King Curtis che rispondeva con il suo sax alla voce di Aretha Franklin, Ray Charles che trasformava un vecchio gospel in qualcosa di nuovo ed eccitante, Julian Cannonball Adderley che diceva semplicemente "Mercy, Mercy, Mercy"... E tutti questi suoni, tutti questi ritmi, rimbalzando dall’Africa a Bahia, accompagnavano Muhammad Ali che, pungendo come un’ape e volando come una farfalla, ballava sul ring, o il Reverendo Martin Luther King mentre diceva alla sua gente che aveva avuto un sogno, e James Baldwin che scriveva il suo blues e Rakim che trovava rime a getto continuo ... E poi Kendrick Lamar, D’Angelo…

    Insomma, l’avrete capito, ero molto confuso. Era la mia versione, ingenua e romantica, di quella che immaginavo come la grande musica nera. Però sentivo che in qualche modo tutte quelle immagini avevano gli stessi colori e le stesse sfumature. Con il tempo, naturalmente, ho scoperto che molte di quelle affinità erano solo deliri miei. La realtà, spesso, era tutta un’altra cosa. Il gospel era la musica di Dio e il blues quella del diavolo, ad esempio. Ai protagonisti dell’hip hop non importava quasi nulla del blues. E il jazz non era certo una canzone da tre minuti o poco più. In quanto ai maestri del soul, appartenevano ormai al passato. Eppure, nonostante tutto, quella sensazione ha continuato ad accompagnarmi, a guidarmi. Quando leggevo che il funk faceva ballare e quindi era come la disco music, provavo una certa irritazione. Quando proponevo trasmissioni radiofoniche e arrivava sempre la stessa domanda – "ma che cos’è questa black music?" – capivo che non era proprio il caso di insistere, ma un giorno, prima o poi...

    Quel giorno, fortunatamente, è arrivato. Anzi, ne sono arrivati tanti e ho passato momenti bellissimi davanti a un microfono a parlare dei miei musicisti preferiti. La tecnica e la voce non erano proprio il massimo ma, come dire, c’era tanta buona volontà. E la musica: voci e canzoni che dicevano tutto, ma proprio tutto. In alcuni momenti lo scenario cambiava completamente, quasi all’improvviso. Grazie a Bob Marley molte persone in Italia, nel pieno degli anni Settanta, hanno scoperto il reggae (per quanto possa apparire strano, quello che Marley tenne allo stadio San Siro di Milano è stato il concerto con il maggior numero di spettatori di tutta la sua carriera), per poi avvicinarsi a quella che sarà definita world music. Altri, sempre in quel periodo, hanno scoperto il ritmo in levare della musica giamaicana grazie ai Clash o ai Police. Per non parlare di quelli, che molti anni prima, erano arrivati alla Motown e alla Stax, ai Temptations e a Otis Redding, partendo da Lucio Battisti.

    Sentire le loro dichiarazioni d’amore per classici come What’s Going On di Marvin Gaye o Songs In The Key Of Life di Stevie Wonder è ancora più bello e suggestivo perché, in fondo, tutti quei tesori appartengono a loro, solo a loro. Noi, per molti aspetti, apparteniamo a un altro mondo. Però, come ha detto il buon vecchio Solomon Burke, c’è il potere segreto della musica, che riesce ad avvicinare mondi e generazioni e colori e linguaggi diversi. A questo potere è dedicato questo libro.

    Quello che (spero) leggerete non è un saggio sulla black music degli ultimi quarant’anni. Non è un libro che ricostruisce fedelmente la storia del soul, la vicenda del funk, o quelle del reggae e del rap. Non è nemmeno un saggio scritto con la precisione dello storico, o il freddo e necessario distacco del critico. In esso troverete una serie di ritratti dedicati ad artisti che hanno trasmesso e diffuso "il potere segreto della musica". Persone che hanno sofferto, che hanno vissuto cercando di combattere i demoni con le canzoni e con il talento.

    Questa musica ha amplificato il dolore, la gioia, l’orgoglio e la consapevolezza di una comunità. Ha contribuito in maniera decisiva alla nascita del rock. Ha risposto al razzismo e alla violenza.

    Queste canzoni hanno invocato il Signore e celebrato l’amore più passionale. Hanno parlato di salvezza e perdizione. Hanno sprigionato sensualità ed energia. Hanno catturato l’essenza di un momento. Hanno scandito il suono di tante città e di tante generazioni. Sono passate da padre a figlio e da fratello a sorella. Hanno fatto piangere e sorridere. Sono state realizzate in minuscoli studi di registrazione e pubblicate da piccole etichette.

    Canzoni che hanno preteso rispetto, che hanno mostrato la strada e che sono diventate la colonna sonora nella lotta, ieri come oggi, contro la violenza delle polizia e lo sfruttamento. Il suono di una comunità, che da padre in figlio, soul to soul, ha reagito all’ignoranza e al potere regalando a tutti, a qualsiasi latitudine, momenti di gioia, indimenticabili e preziosi.

    Progressivamente, ho cominciato a inserire nel testo ricordi personali, dei flashback o delle piccole licenze a cui ho dato anche il titolo di Rewind, una parola che risuona spesso durante le serate dei sound system reggae. A quel punto il ‘selecter’ fa ripartire la base sulla quale il dj improvviserà nuove rime e nuovi interventi. Tutto, spesso, comincia con una frase: "Brothers and Sisters". La stessa che urlano i predicatori neri, picchiando il pugno sul pulpito o agitando una vecchia copia della Bibbia. La cosa che mi ha sempre colpito è che quella frase risuonava con la stessa forza emotiva sia in una chiesa che su un palco. Del resto, quasi tutti gli interpreti del soul classico hanno cominciato proprio cantando durante le funzioni religiose, e non hanno mai dimenticato quei giorni. Così come, nella vicenda della musica nera tutte le "cose nuove", anche quelle più radicali e dirompenti, sono scaturite dal dialogo continuo con la tradizione. E soprattutto hanno preso forma da improvvisi e vertiginosi cambiamenti di ritmo.

    Accadde nel 1965, quando James Brown incise Papa’s Got A Brand New Bag o alla fine degli anni Ottanta, quando il produttore Teddy Riley elaborò la progressione del new jack swing, riprendendo e amplificando quella del funk più diretto e sensuale. E ancora: lo stile prepotente e acceso degli Outkast deve molto al funk totale di George Clinton.

    In qualche modo il battito continuo di quel grande ritmo ha accompagnato la mia passione per questa musica e per i suoi grandi protagonisti. E per tutte quelle storie che erano legate a quel suono. Storie che cominciavano con il tentativo di ottenere 800 dollari. Fu questa la somma che un certo Berry Gordy, un tipo sveglio di Detroit, ricevette in prestito dalla famiglia per realizzare il suo sogno: fondare una casa discografica destinata a cambiare la storia della musica. O meglio, costruire qualcosa legato alla musica, fondato sulla musica, mantenendone il controllo. Con ogni mezzo necessario. A qualsiasi costo.

    Per tutti gli anni ‘60, la Motown – abbreviazione di Motor Town, la ‘città dei motori’, Detroit, appunto – dominerà la scena musicale. Berry Gordy e la sua squadra di autori, compositori, musicisti e cantanti lanceranno il "Suono della giovane America": una grande emozione, uno stile inconfondibile, unico e irripetibile. Certo, per quanto riguarda il soul in quel periodo ci furono anche altre case discografiche, tutte indipendenti, di straordinaria importanza, come la Stax di Memphis e la Atlantic di New York, ma nessuna riuscì a sedurre il grande pubblico – quello nero, quello bianco, quello statunitense, quello europeo – con la classe e la bellezza dell’etichetta di Gordy.

    Nella canzoni della Motown non c’erano il sangue, il sudore e le lacrime di quelle della Stax, e nemmeno la perfezione espressiva di quelle della Atlantic, ma una gioia e un’innocenza che stregavano. E anche quando si piangeva, c’era sempre qualcosa che nascondeva le tracce di quel pianto. Per l’America di quel periodo era perfino inconcepibile che un nero potesse parlare inglese in maniera corretta e tanto meno avere successo. Gli artisti della Motown, seguendo la strada aperta da Nat ‘King’ Cole, Harry Belafonte e Sam Cooke, dimostreranno che quello era solo e soltanto un pregiudizio. Gordy organizzò per loro dei corsi di buone maniere, durante i quali quei giovani – quasi tutti nati e cresciuti nel ghetto di Detroit – impararono a muoversi con stile, a vestirsi elegantemente, a ballare, a esprimersi in un inglese forbito e colto. Quando cominciarono a frequentare i programmi televisivi di successo e a salire sui palchi dei locali alla moda, quando arrivarono al cuore dello show–business statunitense, gli artisti della Motown sembravano esclamare: "Yes, we can", come Barack e Michelle Obama.

    Più in generale con il soul degli anni Sessanta dimostrarono anche che erano perfettamente in grado di abbattere tutte le divisioni, le barriere, il razzismo che pervadevano il mondo dello spettacolo e dell’industria discografica. Con il soul esclamarono: "Possiamo farlo, possiamo avere successo proprio come voi. Siamo come voi, anche meglio".

    Con il decennio successivo invece urlarono: "Ora facciamo la nostra cosa!". Era arrivato il funk!

    Come ha ricordato William Smokey Robinson, il leader dei Miracles, autore di tanti classici della musica popolare del Novecento: "Il primo giorno di lavoro alla Motown Records c’erano solo cinque persone negli uffici, di cui una ero io. Berry ci chiamò per una riunione e disse: Noi qui non faremo black music, faremo musica per tutti. Ci parlò di creare brani che avessero dei beat potenti e delle storie indimenticabili da raccontare. Ci disse che dovevamo fare musica che chiunque avrebbe amato."

    Beat potenti e storie incredibili da raccontare: come il rap!

    Anche io ho fatto questo: ho ascoltato dei beat potenti e ho delle storie per voi. Storie di musica vera.

    1 Blues, Robert Neff, Anthony Connor, Blues, Priuli & Verlucca, Ivrea, 1977

    1. Ero in fila alle due del mattino

    La notte del 23 settembre del 1973 poteva, doveva essere uguale a tante altre. Una di quelle che dimentichi facilmente, perché non hai nessun motivo particolare per ricordarla. Soprattutto se vivi in una piccola città inglese di provincia chiamata Wigan, nel Lancashire, ma spesso, anzi sempre, hai l’impressione di trovarti nel bel mezzo del nulla. I tuoi genitori fanno e dicono sempre le stesse cose. Prima o poi dovrai trovarti un lavoro. Quella ragazza continua a non guardarti e fuori continua a piovere.

    È sabato, ovviamente la tua squadra ha perso, a pensarci bene il calcio è un gioco veramente stupido, e tra qualche ora sarai completamente ubriaco e poi arriverà un’altra domenica e un altro lunedì.

    23 settembre 1973: non sai perché, ma alle due del mattino ti trovi a Station Road e fai la fila per entrare nel vecchio Wigan Casino. È un locale grande e decadente che ha conosciuto giorni migliori. Proprio come te. La cosa strana è che non sei solo. C’è una fila lunga, non proprio ordinata, non proprio inglese, e qualcuno comincia a urlare.

    Finalmente entri. Nel giro di qualche secondo ti arriva una botta forte allo stomaco e poi alla testa. Non hai mai sentito una musica e un ritmo e un suono così potenti, forti, belli. È come la prima volta che hai fatto davvero l’amore. Come quando la tua squadra ha segnato proprio all’ultimo secondo, e tu hai capito che, a pensarci bene, il calcio è il gioco più bello del mondo. È come se tutti i cantanti della Motown e della Stax e della Atlantic fossero davanti a te e ti stessero sorridendo.

    Sei uno di quelli che era al Wigan Casino per il primo all-nighter e hai ballato per ore la musica più bella del mondo: il Northern Soul.

    Mi piace immaginarla così quella notte. Non c’ero, ma forse le cose sono andate proprio in quel modo. Una cosa è certa: quella serata andò avanti fino alle otto del mattino e fu solo l’inizio. Per otto anni migliaia e migliaia di persone ballarono e sudarono e urlarono ascoltando una colonna sonora frenetica, sensuale e impetuosa fatta in gran parte di canzoni soul interpretate in prevalenza da cantanti e gruppi sconosciuti e pubblicate da minuscole etichette indipendenti.

    Il Wigan Casino non era stato il primo locale a organizzare un cosa del genere e quel termine, Northern Soul, non fu ideato in quell’occasione. Però, il Wigan Casino e il Northern Soul sono come il Brasile e il calcio, Muhammad Ali e il pugilato, Magic Johnson e il basket, Bob Marley e il reggae. Tutte emozioni che non puoi dividere. Una cosa sola.

    Ora, lasciatemi raccontare tutta la vicenda dall’inizio.

    Sembra sia stato Dave Godin a ideare la definizione di Northern Soul per quella scena che è stata anche una vera e propria club culture, quando il termine ancora non c’era. È sicuro che Godin, scomparso nel 2004 all’età di 68 anni, sia stato, non necessariamente in questo ordine, un vero galantuomo, un fervente ateo, un pacifista nobile, uno sempre pronto a prendere posizione, ideatore di campagne contro la violenza sugli animali e contro la censura nel cinema. E un devoto, fedele, umile servitore della musica.

    Quando frequentava la Dartmore Grammary School, nel Kent, dove si era trasferito da Londra con la sua famiglia, Godin incontrò uno studente di quella scuola che rimase colpito dalla sua conoscenza del blues e soprattutto dalla sua imponente collezione di dischi: si chiamava Mick Jagger.

    Qualche anno dopo quel Jagger chiese al suo vecchio mentore e amico se poteva presentarlo a Marvin Gaye che era in procinto di tenere dei concerti in Inghilterra e che Godin conosceva bene. Fanculo, presentati da solo rispose Godin, perché a volte anche quelli come lui possono innervosirsi, soprattutto quelli come lui. Negli anni successivi tornerà sull’argomento, chiarendo ancora meglio i termini della questione: È decisamente ironico che lui sia diventato quello che è diventato anche grazie a me. Soprattutto grazie a me e ai miei dischi. La differenza sostanziale tra me e lui in quel periodo è che io facevo quello che facevo perché ero spinto dalla mia passione e perché volevo che gli artisti che amavo fossero sempre più conosciuti e rispettati. Per questo curavo i loro interessi e le loro carriere in Inghilterra. Ho sempre avuto la sensazione che invece Jagger abbia curato solo i suoi di interessi. E questo non potevo accettarlo.

    Spinto dalla passione, come tanti altri prima e dopo di lui. È come se Godin si fosse sentito in debito nei confronti di quella splendida musica che aveva cambiato la sua vita e per questo decise di fare in modo che altri potessero vivere quell’esperienza; era un tesoro che voleva condividere, un patrimonio che voleva difendere.

    Era questo il senso degli articoli che scriveva per Home Of The Blues, che più tardi diventerà Blues & Soul Magazine: le parole servivano per trasmettere la sua passione, per farla scoprire a tante altre persone. Non si trattava soltanto di lavoro.

    Nel 1964 ebbe una prima grande idea: da diverso tempo aveva perso la testa per il "Suono della giovane America", quello della Motown. Così, dopo averci pensato a lungo, decise che c’era una sola cosa da fare. Prese l’aereo, arrivò a Detroit e si catapultò alla sede dell’etichetta per incontrare il boss, Berry Gordy.

    Io quell’incontro me lo immagino così: Godin che racconta di aver perso la testa per le canzoni della Motown e poi cerca di far capire di non essere certo un dilettante; così comincia a elencare numeri di catalogo, nomi di artisti, musicisti e produttori, titoli di singoli che la Motown non aveva ancora pubblicato, ma che erano stati comunque registrati, di questo era sicuro. Lui

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