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Fuoritempo
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E-book323 pagine4 ore

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Info su questo ebook

In una New York su cui aleggiano ancora i fantasmi dell’11 settembre, Hunter Preda, batterista jazz della scena Downtown, riceve la visita del suo vecchio amico Mark, che non vede da anni. Mark ha una tragica notizia: Nan, sua moglie nonché amica e compagna di studi di entrambi, si è suicidata dopo anni di lotta contro la depressione. In omaggio a Nan i due decidono di recarsi in Italia, in quella Versilia che le è sempre stata cara; con loro portano Stephanie, la figlia quattordicenne di Mark.
La calda estate versiliana diviene così sfondo di una sofferta vicenda. Un legame profondo e controverso tiene uniti e al tempo stesso separati i tre personaggi. Mark e Hunter cercano di riportare alla luce ciò che anni prima li legava e che adesso sembra difficile se non vano rievocare. Stephanie è invece alle prese con l’inizio dell’adolescenza e la scoperta della sessualità. Suo malgrado, Hunter si accorge presto di essere attratto da lei, una ragazzina, la figlia dei suoi amici. E Stephanie sembra assecondarlo. Forse lo fa per gioco, forse perché è davvero innamorata di lui.
Gli accadimenti cambieranno radicalmente la vita di tutti, e li seguiranno al loro ritorno a Manhattan, portando le imprevedibili conseguenze di una scoperta, di un’ammissione, di una fuga, di una resa. E di una crescita.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2015
ISBN9788868991364
Fuoritempo
Autore

Stefano Bortolussi

Stefano Bortolussi, poeta, romanziere e traduttore, è nato a Milano nel 1959. Fuor d’acqua è il suo primo romanzo; uscito nel 2004 per peQuod, ha avuto una prima edizione in inglese (traduzione di Anne Milano Appel) nella collana “Italian Voices” dell’editore americano City Lights Books (Head Above Water, 2003). Sempre con peQuod ha pubblicato Fuoritempo (2007), e con Fanucci Editore Verso dove si va per questa strada (2013). Tre le raccolte di poesie, l’ultima delle quali, Califia, è andata alle stampe nel 2015 (Jaca Book). Il suo poemetto “Il moto ondoso del cercare” è stato incluso nell’antologia Bona Vox, curata da Roberto Mussapi (Jaca Book, 2010). È inoltre co-autore di due serie di libri per ragazzi, Le indagini di Dick Rabbit e Le avventure di Miss Marmot (Dami Editore/Giunti).

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    Anteprima del libro

    Fuoritempo - Stefano Bortolussi

    Estate

    1

    Hunter Preda stava improvvisando.

    La musica non era un problema. La musica badava a se stessa. Era ridiventata un piacere spontaneo da quando, quasi un anno prima, in seguito a una certa, serena mattina di settembre in cui la sua città ferita era sembrata chiedergli aiuto, Hunter aveva cancellato la registrazione del suo secondo disco per una delle grandi multinazionali e aveva deciso di riprendere a suonare.

    Era stato più facile del previsto. Qualche telefonata, una serie di spiegazioni, una salva di insulti dall’altro capo del filo.

    Un batterista in meno per la Scena, si era detto Hunter. Un musicista in più per la realtà, per angosciante che fosse. Era stufo del relativo, inutile sfarzo del jazz incravattato. Voleva semplicemente fare musica. Tornare in quel mondo sotterraneo di club e di jam che impregnava Downtown New York City, quella Downtown che giungeva quasi ad affacciarsi sulla voragine e che proprio per questo voleva far sentire la propria voce in modo ancora più chiaro e squillante del solito.

    Nei mesi successivi, Hunter Preda aveva fatto ricorso alle sue origini italiane: con una sovrabbondanza di estroversione e doppi baci sulle guance, aveva rappezzato e rinnovato relazioni che in precedenza aveva messo colpevolmente nel dimenticatoio.

    Addio scarpe inglesi, bentornati sandali.

    E aveva funzionato. Aveva funzionato perché Hunter Preda percuoteva i suoi tamburi seguendo un ritmo interiore, e perché quel ritmo ormai spezzato e irregolare raccontava il mondo in cui si ritrovava a dover vivere. Perché nel vuoto apparente dello sgomento aveva ancora qualcosa da dire, e sapeva come dirlo.

    E così Hunter ci aveva dato dentro. Aveva suonato, a volte meglio e altre peggio, ma sempre, e ovunque, aveva fatto musica. Le note generate in quelle serate erano parse semplificare la sua esistenza, riducendola a una scarna piattaforma di bisogni e doveri, il più importante dei quali era quello che aveva nei confronti di se stesso: il dovere di essere vero, di essere autentico, di – come dire? – tenersi a bacchetta.

    Ma c’era un tranello, e questo tranello aveva un corpo e una mente. Quella che non aveva era una buona opinione nei riguardi di una vita di piaceri semplici, specialmente se questi escludevano in partenza qualsiasi possibilità di carriera.

    Il tranello aveva anche un nome, una professione e un ruolo nel mondo. Si chiamava Clara Zhetkin, quasi come la dimenticata rivoluzionaria del secolo passato. Per liberarsi dello scherzo di dubbio gusto che le avevano giocato i suoi genitori, immigrati tedeschi, si faceva chiamare Chlora Z., sigla con la quale era nota in tutta Manhattan come un’artista di grande talento. Il suo talento, in realtà, consisteva principalmente nel negare i propri misteriosi dipinti a gran parte delle gallerie cittadine, creando in tal modo un’aura di inaccessibilità che lei stessa smentiva con l’ubiquità fisica della festaiola di razza. Tutto ciò non sembrava preoccupare il mondo dell’arte: un celebre critico era perfino arrivato a decretare che il suo vero capolavoro fosse la bellezza stessa del suo corpo.

    A tutto ciò Hunter assisteva divertito. Clara era attraente, brillante e passionale, e se la Scena ci teneva a farsi abbindolare, che si accomodasse. Ma Clara aveva anche le idee ben chiare rispetto a quello che voleva dalla vita, e la colonna sonora a cui obbediva non era certo il free jazz. I suoi passi seguivano un ritmo più regolare, una sorta di metronomico due quarti che tendeva a escludere a priori l’improvvisazione.

    E un giorno, inevitabilmente, Clara lo aveva lasciato. Si era autocancellata dalla vita di Hunter con l’abilità dell’esperta pittrice.

    La prima reazione di Hunter non era stata quella che si sarebbe aspettato. Si era sorpreso a provare una sorta di rilassamento dei sensi, un abbandono. Vero, Clara l’aveva lasciato; ma in ciò non c’era nulla di drammatico. Era un fatto della vita, alla stessa stregua della propria rinuncia alle glorie del jazz paludato. Il superamento di una piacevole, ma a lungo andare dispersiva, deviazione di percorso. No, la cosa che più lo turbava era dover suonare un motivo a cui non era più abituato. Per tutta la sua vita adulta Hunter aveva sempre avuto accanto una presenza femminile, una voce con cui riempire i vuoti che la musica si lasciava dietro non appena si spegneva la sua eco. La convivenza era per lui una condizione naturale, come se il suo corpo non riuscisse a concepire l’idea di non urtare contro un proprio simile negli angusti spazi del suo tipico appartamento newyorkese.

    Ora, all’improvviso, Hunter Preda doveva fare i conti con una realtà che col tempo gli era diventata praticamente ignota. Era come se si trovasse nel bel mezzo di un assolo, e a differenza del solito non aveva idea di dove questo l’avrebbe condotto.

    2

    A casa, a quanto pareva – quanto meno per il momento.

    Dopo l’ultimo colpo sui piatti, l’applauso esausto del pubblico e il momento di silenzio che sembrava sempre seguire un concerto particolarmente intenso, Hunter percorse i quattro cadenti isolati che separavano il locale dal suo appartamento, un microscopico monolocale al quarto piano di una vecchia palazzina in Ludlow Street. In strada c’erano pochi superstiti, i veterani della Lower East Side, e Hunter ne conosceva la maggior parte: quell’angolo di New York City si era rivelato più simile di quanto avrebbe mai potuto credere alla sua idea di un antico villaggio italiano. Ma quella sera Hunter non era di umore particolarmente loquace.

    Hunter Preda poteva anche non essere stato innamorato di Clara, ma di sicuro provava una sorta di privazione fisica, simile alla fastidiosa percezione di un arto fantasma. Clara era stata parte di lui, nel bene e nel male; ma le conseguenze della sua autocancellazione dovevano essere sperimentate in solitudine. Perché era da solo, Hunter lo sapeva, che un uomo reimparava l’alfabeto dei sentimenti, cominciando non con la A, come un alunno dell’asilo, ma con la R sfuggente del rispetto di sé. Lo stesso rispetto di sé che in quel momento lo faceva sorridere alla vista del suo stipatissimo appartamento, quattro mura prese d’assedio da una gran collezione di cose del passato: vecchi dischi, vecchi libri e riviste, pagine tratte da fonti disparate, scritte sulle pareti e altre superfici. Oggetti per l’anima, li considerava Hunter.

    E in mezzo a tutto ciò, una segreteria telefonica. Che lampeggiava come una richiesta di soccorso.

    Hunter stava per raggiungerla quando il suo piede lo tradì, scivolando su qualcosa di piatto in agguato sul pavimento. Riprese l’equilibrio, abbassò lo sguardo e vide il colpevole. Era la copertina di un vecchio LP ormai introvabile, Crisis, di Ornette Coleman.

    Un brutto colpo per il rispetto di sé.

    Hunter si sedette su una vecchia poltrona di pelle e premette il tasto Play della segreteria. Non sapeva cosa aspettarsi, in realtà non prevedeva niente di peggio di un messaggio di Clara a conferma del loro nuovo grado di separazione.

    Ma Clara non aveva chiamato.

    George l’aveva fatto: cosa pensava Hunter di un concerto venerdì sera all’Old Office insieme a lui e Bill?

    Hunter pensava che fosse un’ottima idea.

    Il custode del palazzo, Mr Herrera, era spiacente di informarlo che qualcosa nel suo bagno perdeva, e che aveva causato una chiazza scura sul soffitto del piano inferiore.

    Hunter pensava che fosse spiacevole.

    La voce ghiaiosa di Homey avrebbe gradito fare un paio di serate con la Big Band al Fad? Chiamare la direzione per conferma.

    Hunter pensava che avrebbe gradito.

    Poi una scarica di statica: qualcuno l’aveva chiamato da un cellulare e aveva deciso di lasciar parlare la strada al posto suo.

    O qualcuna, pensò Hunter mentre il nome Clara gli zigzagava nel cervello.

    Ancora statica. No, una voce. Una voce maschile, sconosciuta. O forse no: c’era qualcosa di familiare nella lenta inflessione della frase d’esordio…

    «Aahh, pronto, Hunt. O almeno spero che sia tu…»

    Certo che sono io, rispose silenziosamente Hunter. Chi sei tu, questo è il problema.

    Aveva appena formulato la domanda quando la voce fornì una risposta, non senza una punta di indecisione. «Sono… sono Mark. Sono in strada, come forse potrai sentire…»

    Mark. Il suo vecchio amico Mark Donner. Il suo compagno di college. Insieme a cui Hunter aveva spremuto le ultime gocce degli anni Settanta e aveva resistito per gran parte degli Ottanta.

    «Mark?» disse Hunter.

    In quel preciso istante il telefono emise un ronzio attutito. Hunter lo pescò da sotto un cuscino e rispose.

    «Pronto?»

    «Hunt?»

    Di nuovo quella voce: Mark. E di nuovo la strada. Il clacson di un’auto, un coro di risposte meccaniche.

    «Mark? Dove… come stai?»

    «Non ti sento, Hunt… ci …ei? …onto?»

    «Sì, ci sono. Ma cosa…»

    Hunter non si era mai abituato allo speciale andirivieni delle conversazioni al cellulare; era straordinariamente attento al ritmo di tutto ciò che lo circondava, e nel flusso irregolare delle voci trasmesse via etere c’era qualcosa che ogni volta lo disorientava.

    Mark. Quanti anni erano passati: dieci? No, di più. Quindici, per la precisione, come Hunter avrebbe dovuto ricordare molto bene.

    «Devo… devo dirti una co… …ibile», balbettò Mark. All’improvviso la sua voce si era fatta roca e incrinata, e la crudele frattura delle ultime due parole non fece che accentuarne la cupezza. E in quell’istante la consapevolezza colpì Hunter come uno schianto di piatti.

    Nan.

    «Che è successo?» chiese in un filo di voce.

    Mark non rispose subito. Hunter credette di poterlo vedere, fermo sul marciapiede, una mano a reggere il minuscolo apparecchio all’orecchio, l’altra a tormentarsi un taglio sulle labbra screpolate.

    «Nan», disse finalmente Mark, e il nome risuonò come uno sparo nell’orecchio di Hunter. «Nan è morta.»

    3

    Il loro abbraccio non parlava soltanto di dolore. Raccontava anche qualcos’altro, qualcosa a cui Hunter, nella confusione e nel dolore, si sorprese ad aggrapparsi. Era la consapevolezza di quello che c’era stato fra loro, del prima e dopo della loro amicizia, intensificata da quindici anni di silenzio: una realtà concreta contro la quale, per un istante, le ondate di dolore parvero infrangersi e vaporizzarsi.

    Ma fu soltanto un attimo.

    Poi giunsero gli andirivieni per la stanza, le domande e risposte, il commercio di informazioni che gli individui trovano necessario quando la morte colpisce improvvisa. E alcune di quelle informazioni Hunter non avrebbe mai voluto conoscerle.

    Mark aveva fatto ingresso nel suo appartamento e ne aveva a malapena varcato la soglia quando i due vecchi amici si erano ritrovati uno nelle braccia dell’altro. Dopo un minuto abbondante di silenzio, si staccarono all’unisono e si spostarono sul divano. Mark vi si sedette con fare indeciso, come se, pensò Hunter, si vergognasse delle proprie mancanze fisiche. Seguì un altro silenzio, e Hunter si ritrovò a rimpiangere il potere protettivo della musica. In quel momento moriva dalla voglia di udire il grido dolente di Albert Ayler.

    «Com’è successo?» domandò. «Era… era malata o cosa?» Doveva chiederlo. Certe parti del loro passato comune non erano estranee al rischio del contagio.

    Mark spostò lo sguardo sulla collezione di dischi dell’amico, come se anche lui rimpiangesse di non potervi fare affidamento. Poi rabbrividì. «No, non era malata. Non come potresti pensare.»

    Non ci stavo pensando, fece per protestare Hunter, ma si trattenne. Ci aveva pensato, e non poteva negarlo.

    «Ma sì, era malata», riprese Mark. «La conosci, Hunt. La conoscevi bene.»

    Lo sguardo di Hunter era già abbastanza esplicito, ma le sue labbra lo dissero ugualmente. «Depressione.»

    Mark annuì, poi fece un sospiro. «Si è uccisa.»

    No, pensò Hunter. Gliel’avrebbe gridato in faccia, ma gli mancò la voce per farlo. «Come?» sussurrò.

    Mark gli scoccò un’occhiata incuriosita. «Pillole», rispose. «Zoloft. Lo stesso cazzo di farmaco che avrebbe dovuto aiutarla», soggiunse in un vibrato rabbioso.

    «In un mondo perfetto», disse Hunter, rammentando le utopistiche nottate che lui, Mark e Nan avevano trascorso a parlare, fumare e sognare per combattere la natura distopica dei loro tempi.

    Mark gli rivolse un sorriso inaspettato che parve sfilacciarsi nell’istante stesso in cui sorgeva.

    «Quando è successo?»

    «Ieri sera. Ero al Franny’s, Steph era andata a dormire da un’amica, e…» La sua voce si smarrì nel silenzio.

    «Non sapevo», sbottò Hunter con una punta di rimostranza nella voce. Nessuno mi aveva informato, diceva in realtà il suo tono. E perché mi hai chiamato adesso? Represse le domande deglutendo.

    Ma Mark sembrava averle udite suo malgrado. Gli rivolse una strana occhiata, poi disse in tono sommesso: «Non lo so, tutt’a un tratto… stavo riflettendo sulle cose da fare, le persone da chiamare… e ho pensato a te.»

    Il disagio di entrambi era evidente, e Hunter sentì di dover dire qualcosa. Scelse un’altra domanda stupida. «Ma perché?»

    Mark spostò lo sguardo fuori dalla finestra, sui mattoni luridi dell’edificio di fronte. Sublime art rules, gridava un tag a caratteri cubitali rossi. Aggrottò la fronte.

    «Mi chiedi perché», rispose. Percorse la stanza con un movimento circolare del braccio, un gesto lento e rispettoso. «Se c’è uno che potrebbe capirlo, sei tu.»

    Ma Hunter non capiva. Era smarrito, troppo prostrato dalla sorpresa e dal dolore per collegare il gesto dell’amico a una qualsiasi forma di realtà.

    «La sua musica», soggiunse Mark con un’occhiata implorante. Sembrava voler dire qualcos’altro, ma le parole gli si bloccarono in gola. Tossì.

    Hunter lo guardò confuso. «La sua musica era magica

    Era vero. Hunter non aveva mai smesso di seguirla a distanza. Nan e i suoi imprevedibili slalom fra regole e forme, la sua voce di madreperla, le sue delicate avventure nel regno della canzone e della melodia. In più di un’occasione aveva evitato a malapena di ritrovarsi sul palco insieme a lei. Il mondo dei club newyorkesi, per vitale che fosse, era anche incestuoso: era praticamente impossibile che due persone che volevano evitarsi riuscissero a farlo. Hunter ci era riuscito, ma ripensandoci non sapeva come. Sapeva perché, e ne era dispiaciuto.

    Mark lo guardava con attenzione, nei suoi occhi un fantasma del senso di colpa di Hunter.

    «Magica», ripeté. «Certo, per te. E per una decina di altre persone.»

    Dunque è così, pensò Hunter. Un’altra vittima della logica di mercato. Lo sapeva ancora prima di dirlo, ma scelse di farlo ugualmente. «La sua etichetta l’aveva scaricata.» Non era una domanda.

    «La sua etichetta l’aveva scaricata», gli fece eco Mark strofinandosi gli occhi. «E i locali… Sai quant’era difficile, quant’era… imprevedibile

    Hunter lo sapeva eccome. Nan Drake, la bellissima Nan Drake dalla voce cristallina, era famosa tanto per la sua timidezza patologica quanto per la sua urticante autoironia. Ogni volta che portava sul palco il suo strano repertorio, quei due aspetti della sua personalità sembravano alimentarsi a vicenda. I risultati erano vertiginosi e variegati. Una sera poteva andare avanti a suonare per ore, sospesa in un refolo di intangibile leggerezza; la sera successiva era capace di interrompersi a metà canzone, a metà ritornello, ruotare sui tacchi e abbandonare il palcoscenico. Faceva parte della sua mistica. Ma non era una mistica per tutti, e ciò, a quanto pareva, era stata la sua rovina.

    «E poi qualcuno, un cretino, un qualche stronzo in doppiopetto di L.A.», proseguì Mark, «ha cominciato a parlare di sfortuna.»

    «Sfortuna?»

    Annuì agitato. «Sì. Anzi no. La voce che ha cominciato a girare fra le case discografiche era che Nan menasse gramo. Che fosse, non so, pericoloso suonare con lei. Avere a che fare con lei.»

    Hunter era incredulo. «Che menasse gramo», ripeté. Non ne aveva mai sentito parlare, ma non era questo che lo sconcertava. A differenza della scena live, l’industria discografica – la stessa da cui lui era recentemente fuggito – era organizzata come una serie di gabbie non comunicanti. Compartimentalizzata. No, ciò che lo lasciava senza parole era la pura e semplice crudeltà della cosa. La sua assoluta stupidità. Appiccicare un’etichetta simile a un’artista, a un’autrice fragile e a una cantante di preziose miniature sonore come Nan Drake, equivaleva a condannarla a un oblio forzato, equivaleva…

    «L’hanno uccisa», disse Mark dando forma all’ultimo, insostenibile pensiero di Hunter. «Non ce la faceva più. Steph e io, noi le siamo stati sempre vicini, ma a quanto pare…» La voce gli si spezzò. «A quanto pare non siamo bastati.»

    Eravate tutto per lei, avrebbe voluto dire Hunter. Lo sapeva perché conosceva Nan. Lo sapeva perché la ricordava. È che la musica è ciò che abbiamo dentro. E quando ce la tolgono, ci ritroviamo senza vita. L’atto concreto del suicidio, quello è un semplice gesto meccanico.

    Hunter avrebbe voluto dire questo al suo vecchio amico, ma non lo fece. All’improvvisò provò un impulso più violento. Balzò in piedi, spaventando Mark; gli strinse la mano come se fosse un salvagente, scavalcò lo schienale del divano, si sporse fuori dalla finestra e vomitò.

    4

    Una breve storia dell’amicizia

    Hunter e Mark si conoscono al liceo. Vengono entrambi da Brooklyn.

    Parlano. Studiano. Fanno i bagordi. Fanno i romantici. Si istruiscono.

    Poi incontrano Nan.

    Lei viene da Purgatory, Maine. Una città testuale.

    Vanno all’università tutti insieme.

    Parlano. Studiano. Scopano. Litigano. Si incasinano.

    Hunter e Nan. Nan e Mark. Hunter e Nan – di nuovo. Nan e Mark – di nuovo e per sempre.

    Hunter prosegue i suoi studi al Berklee. Mark prosegue i suoi studi alla facoltà di economia. Nan prosegue per il Village.

    Si scrivono. Si mancano. Si vedono a New York.

    Hunter pesta sui tamburi. Nan scrive e canta. Mark apre Franny’s, una trattoria sulla West Side.

    La musica di Hunter è un successo. Le canzoni di Nan sono un insuccesso di culto. Il ristorante è un successo di massa e raddoppia: Zooey’s, sulla East Side.

    1986: Hunter e Nan si vedono dopo un concerto. Parlano. Ridono. Bevono. Fumano.

    Scopano – di nuovo. Si incasinano – di nuovo.

    Non si rivedono più.

    Fanno di tutto per evitarsi.

    Ce la fanno.

    Passano quindici anni.

    E ora Nan è morta.

    5

    Lo trovarono tutti commovente.

    Era stata un’idea di Hunter: un set acustico di canzoni di Nan. Un memoriale, forse, anche se per lui era qualcosa di diverso: il loro primo concerto insieme, il loro primo e ultimo incontro musicale. In ritardo di una vita, pensò Hunter mordicchiando uno dei panini di Franny’s. Ma era il minimo che potesse fare, e così l’aveva fatto. Per se stesso, in realtà, più che per chiunque altro. Ed era stato bellissimo: il giovane trombettista l’aveva stupito con la sua lirica comprensione delle melodie in minore di Nan.

    La bellezza è davvero cosa rara, si disse Hunter osservando i dolenti aggirarsi per lo spazioso salotto dell’appartamento. Fuori dalla finestra, il fiume arrancava sotto il sole biancastro di luglio mentre il New Jersey si stagliava in lontananza, più minaccia che promessa.

    La cerimonia era stata breve, spezzata da singhiozzi incorporei che avevano attraversato la chiesetta come invisibili stelle filanti. Dopo, tutti si erano riversati a casa di Mark e Nan alla ricerca di una conclusione. E ora sembravano soddisfatti: mangiavano e si scambiavano sorrisi tristi come se nel profondo di loro stessi avessero trovato un luogo in cui relegare quella strana sensazione.

    L’assenza di Nan.

    Erano tutt’altro che numerosi: una ventina di persone, calcolò Hunter. Una cerchia di amici, si disse udendo le loro voci senza ascoltarle. Sufficiente, in teoria, a prevenire proprio ciò che era successo. Ma se gli anni gli avevano insegnato qualcosa, era che i cerchi tracciati dalla vita non erano mai perfetti. Non si chiudevano mai, e a causa di quei piccoli scarti diventavano più simili a spirali: avvolti su loro stessi e sempre indeterminati. E a volte le persone si smarrivano fra una voluta e l’altra.

    «Magnifico», gli disse qualcuno – e non per la prima volta. Era il bello dei funerali: riducevano i discorsi di tutti al minimo indispensabile. Tragedia. Accettazione. Ricordo. Naturalmente, nessuno aveva detto nulla sul fatto che Nan si fosse tolta la vita. Sarebbero state necessarie troppe parole.

    Hunter decise di avvalersi di un altro dei dubbi vantaggi di un funerale: il diritto di non rispondere. Si voltò lentamente, vide Mark intento a parlare con lo chef croato di Zooey’s (un genio della fusione balcanica, aveva inneggiato con una certa ingenuità una rivista cittadina) e si incamminò verso la porta che dava sul corridoio. Un nodo familiare stava cominciando a farsi sentire nel suo stomaco. Nel giro di pochi minuti, lo sapeva, si sarebbe ritrovato in bagno, intento a vomitare con entusiasmo il rinfresco. Era il suo modo di gestire il dolore, lo era sempre stato: come se il suo organismo, satollo di emozioni, rivendicasse i propri limiti rigettando tutto ciò che non considerava necessario. Cibo, bevande e tutto il resto: liberate l’area, fate spazio alla sofferenza.

    Chino sul gabinetto, scosso dai brividi, Hunter era nel bel mezzo di un conato quando udì qualcosa. Una voce femminile, delicata e sfibrata, quasi stonata ma non proprio. Nan. If orange was the color of her dress, cantava, why then blue? Era il primo brano del suo secondo album, quello che

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