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Diffidare è bene o fidarsi è meglio? Dalla fenomenologia all'etica della fiducia
Diffidare è bene o fidarsi è meglio? Dalla fenomenologia all'etica della fiducia
Diffidare è bene o fidarsi è meglio? Dalla fenomenologia all'etica della fiducia
E-book589 pagine7 ore

Diffidare è bene o fidarsi è meglio? Dalla fenomenologia all'etica della fiducia

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Forse a tutti, prima o poi, capita di domandarsi se sia meglio fidarsi o no. La saggezza popolare ha creato il proverbio "fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio". Che cosa può dire la filosofia a questo proposito? Perché siamo spesso tentati di diffidare e nello stesso tempo sentiamo un bisogno profondo di dare fiducia e di essere considerati degni di fiducia? Questo libro intende porsi questi problemi. Nella prima parte si spiegano i presupposti filosofici che sono utili per indagare il tema della fiducia, nella seconda si presentano i diversi fenomeni legati alla fiducia, ad esempio la distinzione tra fiducia come risposta, propensione a fidarsi, fiducia come relazione reciproca, clima di fiducia, crisi della fiducia. In seguito, si esaminano diversi tipi di fiducia, quella in sé stessi, quella verso le entità impersonali, quella verso gli altri e quella nelle organizzazioni. Nella terza parte, invece, si cerca di dimostrare che il problema se fidarsi o no si può affrontare solo se si intende la fiducia come un fenomeno che ha un peso morale. Solo in questo caso, è possibile comprendere il significato etico delle crisi della fiducia e del tentativo di ripararle e quali siano le qualità morali che favoriscono la fiducia. La conclusione alla quale si può giungere, dunque è che la fiducia è un bene, ma fragile. Imparare a fidarsi richiede di sviluppare abilità cognitive e affettive e la fiducia manifesta le capacità della persona di trascendere sé stessa e donarsi agli altri. Solo al termine di questo percorso si può sostenere la tesi del titolo: diffidare può essere bene, ma fidarsi è un bene superiore, perché la fiducia è un cardine fondamentale della vita della persona.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2021
ISBN9791220349192
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    Anteprima del libro

    Diffidare è bene o fidarsi è meglio? Dalla fenomenologia all'etica della fiducia - Paola Premoli De Marchi

    PARTE I

    PROLEGOMENI

    CAPITOLO 1

    LA FENOMENOLOGIA DEGLI ATTI UMANI

    COME PREMESSA

    DI UN’ANALISI FILOSOFICA DELLA FIDUCIA

    La conclusione più ovvia alla quale si giunge se ci si avventura a leggere anche una piccola parte della quantità sterminata di ricerche sulla fiducia esistenti, è che essa è un fenomeno estremamente complesso. Per riuscire a orientarsi in questa complessità è assolutamente essenziale avere dei punti di riferimento. Mi sembra che la ricostruzione della distinzione tra i diversi atti umani fatta dalla fenomenologia da Husserl in poi ci possa offrire un valido aiuto al proposito. Questo capitolo è dedicato proprio a disegnare la mappa che ci guiderà nelle analisi successive. Chiediamo, perciò, al lettore un po’ di pazienza, anzi, un atto di fiducia, riguardo al fatto che lo sforzo di comprensione che gli chiederemo nelle prossime pagine verrà premiato in seguito.

    Sensazioni, stati vitali e stati d’animo

    Iniziamo col distinguere, all’interno delle esperienze che possiamo fare, ciò che ci capita, che sperimentiamo passivamente, da ciò in cui siamo più o meno attivi. Prendersi l’influenza fa parte del primo tipo di esperienze, andare in farmacia ad acquistare un antipiretico, del secondo. Le esperienze in cui siamo passivi o recettivi comprendono quei fenomeni che possiamo chiamare «stati», o anche sensazioni. Essi abbracciano una categoria diversificata di dati. In primo luogo, abbiamo le percezioni sensoriali (che attingono direttamente ai nostri cinque sensi) e sono corporee e localizzate. Poi ci sono gli stati vitali, che emergono da una percezione più globale di benessere o malessere corporeo e sono ad esempio il sentirsi stanchi, affamati o eccitati. Nella scala che connette il corporeo allo psichico, troviamo poi gli stati d’animo o umori, che riguardano la nostra situazione psicologica, ad esempio di euforia o depressione, paura o serenità, inquietudine o calma. La fiducia può essere percepita come uno stato o un umore, una condizione psicologica di confidenza, ottimismo o almeno speranza, che ci permette di vincere la paura di fronte ai pericoli o all’incertezza. Quando, pur essendo in una situazione critica, posso affermare «mi sento fiducioso», faccio riferimento proprio a questo fenomeno, della fiducia come stato d’animo. Tuttavia, la fiducia non è mai semplicemente un umore; piuttosto, quando proviamo questo stato d’animo esso è sempre la conseguenza di qualcos’altro. Anzi, può avere cause e motivi molto differenti. È differente, ad esempio, il sentirsi fiducioso del bambino di tre anni che infila una rampa di scale col triciclo, dallo stato d’animo che prova un chirurgo nel lavorare con dei colleghi molto esperti. Questa differenza di esperienze ci suggerisce che, anche se la fiducia può essere uno stato d’animo, non si può assolutamente ridurre a uno stato d’animo.

    C’è infatti un aspetto che è importante mettere in luce fin da subito. Gli stati, siano sensazioni, stati vitali o umori, hanno sempre delle cause. Se abbiamo camminato molto, questo causa in noi la sensazione di stanchezza. Quando siamo sottoposti a un periodo di stress costante, questo causa in noi uno stato d’animo ansioso o depresso. Ebbene, nell’essere umano esiste anche una sfera – estremamente importante – di fenomeni che non sono semplicemente causati, ma hanno una «ragione» per cui si presentano, e quella ragione o è in noi consapevole, o in linea di principio lo può diventare: esplicitamente o implicitamente, qualcosa di significativo rende ragione di quel fenomeno. È questo il caso del sentirsi fiducioso del chirurgo, rispetto a quello del piccolo intrepido in triciclo. Nelle esperienze motivate il soggetto non è semplicemente passivo, ma si attiva, con le sue capacità tipicamente personali, nei confronti di qualche dato di esperienza che lo muove a prendere una posizione. Ecco che entriamo in una categoria del tutto nuova di esperienze, che è quella degli atti umani. Per cogliere l’essenza di questi atti è necessario comprendere il concetto di intenzionalità.

    La relazione intenzionale tra l’uomo e il mondo

    Franz Brentano (1838-1917) può essere considerato come uno dei precursori della fenomenologia perché ha il merito di aver colto che ciò che caratterizza tutti gli atti psichici è l’intenzionalità.¹ Questo termine indica, innanzi tutto, il tipo di presenza che ciò che pensiamo assume nella nostra mente: quando prendiamo coscienza di qualcosa, l’oggetto delle nostre percezioni, dei nostri ricordi, dei nostri ragionamenti, etc., è sempre presente in noi in un modo immateriale. Ebbene, per indicare questo tipo di esistenza mentale, distinta da quella fisica delle cose materiali, si utilizza proprio il termine intenzionale.

    Inoltre, la caratteristica degli atti psichici è quella di essere sempre la «coscienza di» qualcosa. Giudicare, desiderare, rallegrarsi e sdegnarsi sono atti differenti, però hanno in comune il riferimento a un oggetto, per quanto diverso in ciascun caso. Per comprendere la natura degli atti umani, allora, è necessario studiare non solo gli atti stessi, ma anche le caratteristiche essenziali degli oggetti ai quali tali atti si rivolgono: così, per capire che cos’è l’intuizione estetica, bisogna cogliere quali caratteristiche hanno gli oggetti che la possono suscitare, o per capire che cos’è una promessa, bisogna comprendere che cosa si può promettere e che cosa invece non può essere oggetto di questo particolare atto umano. Ebbene, la fenomenologia ha messo in luce che esiste una relazione di «riempimento» tra gli atti umani e gli oggetti che sono loro propri. Non ogni oggetto può essere il correlato intenzionale di tutti gli atti, infatti, posso vedere un colore e udire un suono, ma non posso vedere un suono e udire un colore. Esiste quindi una generale correttezza degli atti intenzionali, essenziale per comprenderne davvero la natura. Edith Stein, sulla base delle Idee di Husserl, accosta l’intenzionalità al concetto di motivazione. Ella, infatti, afferma che tutti gli atti intenzionali sono «motivati». Ciò significa che gli oggetti richiedono che il soggetto prenda posizione rispetto ad essi, e tale presa di posizione deve essere adeguata ai contenuti ai quali si riferisce. La Stein aggiunge che la presa di posizione «spetta di diritto» all’oggetto interessato.² Potremmo anche dire che l’oggetto di un atto intenzionale deve essere «degno» dell’atto che gli viene rivolto.

    Se applichiamo quanto detto al tema che ci interessa, possiamo iniziare a osservare che tra i vari fenomeni nei quali sperimentiamo la fiducia c’è anche la consapevolezza del fatto che ci stiamo fidando di qualcuno o di qualcosa. In questi casi la fiducia ci si presenta chiaramente come un atto umano, un atto intenzionale. Dovremo allora esaminare sia di che tipo di atto si tratta, sia a quali oggetti si può rivolgere, per essere autentica fiducia. D’altra parte, abbiamo anche esperienza del fatto che a volte la fiducia è inconsapevole. Ad esempio, quando un amico ci tradisce, possiamo renderci conto del fatto che ci eravamo fidati di lui, ma fino ad allora non ne eravamo consapevoli. Un altro problema sarà allora chiarire se e come sia possibile la fiducia inconsapevole.

    A tale scopo, è opportuno ricordare che nelle opere tarde di Husserl e in diversi altri fenomenologi, come Fink, Merleau-Ponty e Levinas, si parla di una seconda forma di intenzionalità, accanto all’«intenzionalità d’atto» che abbiamo appena presentato. Esiste infatti una sfera delle nostre esperienze che non è esplicitamente consapevole, ma implica un riferimento a degli oggetti che possono essere resi oggetto di riflessione in un secondo tempo e che costituisce lo sfondo, l’orizzonte, di ogni nostra esperienza. Opera al di sotto dell’io «vigile», influenzando le nostre esperienze consce, dunque ha una funzione conoscitiva, anche se non ne siamo consapevoli. È presente nel nostro contatto vissuto col mondo, ma appartiene alla dimensione più recettiva e passiva della nostra esperienza, che sfugge del tutto al controllo della nostra volontà. Ebbene, anche se inconsapevole, questa forma di esperienza può essere considerata intenzionale, perché implica il riferimento a degli oggetti conoscibili. La chiameremo «intenzionalità latente».³

    Le categorie di atti umani

    Dopo aver spiegato che gli atti psichici sono caratterizzati dall’intenzionalità, Brentano distingue le attività della mente umana in tre categorie: a) gli atti di apprensione, nei quali un oggetto diventa presente alla coscienza, ad esempio la percezione dei sensi, il richiamare alla memoria, l’intuizione intellettuale, l’immaginazione; b) gli atti di giudizio, nei quali il soggetto afferma come vero, o nega come falso quanto ha appreso; c) gli atti del sentimento, che implicano un valutare, ad esempio la stima, il desiderare e il volere.⁴ Husserl, diversamente da Brentano, considera le due categorie degli atti di apprensione e di giudizio come appartenenti a una sola, quella degli atti «oggettivanti», che fanno sì che qualcosa diventi presente alla coscienza come un «oggetto». Di questi si occupa la logica, che offre le regole per formulare giudizi veri ed evitare quelli falsi. Ci sembra che accorpare le prime due categorie sia opportuno anche ai fini della nostra indagine, perché ci indica che esiste un’affinità tra gli atti cognitivi. Inoltre, dovremo esaminare le differenziazioni interne agli atti del sentimento, che comprendono gli atti della volontà e gli atti affettivi, perché, come vedremo, la fiducia riguarda in modo diverso tutte queste sfere della persona.

    Gli atti di apprensione, gli atti di giudizio e le risposte teoretiche

    Gli atti cognitivi includono tutti quegli atti grazie ai quali l’essere umano conosce. Nel percorso attraverso il quale acquistiamo una nuova conoscenza c’è in primo luogo il contatto intenzionale con un oggetto. Possiamo chiamare questo primo momento della conoscenza «apprensione», «cognizione» o «presa di conoscenza». Il contatto può avvenire, ad esempio, attraverso una percezione sensibile o un ricordo, oppure con l’intuizione intellettuale di un concetto. Nell’apprensione un oggetto (sia esso una cosa materiale, un concetto astratto, un’entità ideale, etc.) diventa presente alla coscienza, viene rappresentato. Si tratta di un momento recettivo, nel senso che in questa prima tappa della conoscenza il soggetto è passivo, anche se può indirettamente favorire o ostacolare l’apprensione, ad esempio prestando poca attenzione a quanto vede, legge o ascolta. Ciò che gli è richiesto di attivo è che sia disponibile ad accogliere ciò che l’esperienza gli presenta. Il nostro contatto con i dati di esperienza si trasforma in conoscenza se seguiamo alcuni criteri, il primo tra tutti è che ciò che ci si presenta deve essere preso così come ci è dato e nei limiti in cui ci è dato.⁵ Questo significa che dobbiamo limitarci a ciò che apprendiamo, evitando assolutizzazioni o generalizzazioni ingiustificate, ma anche, per quanto possibile, esaminare se ciò che percepiamo davvero corrisponde alla realtà, ha un fondamento nelle cose.

    Come abbiamo visto, la seconda categoria di atti psichici per Brentano è costituita dagli atti di giudizio. In questo tipo di atti il soggetto non è meramente recettivo, non si limita a prendere coscienza di ciò che l’esperienza gli offre, ma diventa più esplicitamente attivo, perché prende posizione rispetto a ciò che ha appreso, e in particolare si pronuncia rispetto alla verità o falsità dell’oggetto. A questo punto, insomma, formula un giudizio. Dietrich von Hildebrand ha messo in evidenza un tipo ulteriore di atti psichici intellettuali, che sono le risposte teoretiche, come il dubbio, l’assenso, la supposizione. Esse vanno oltre il giudizio come atto di oggettivazione, sono una sorta di giudizio di secondo grado, ma hanno in comune con i giudizi la presa di posizione riguardo alla verità o alla falsità di ciò che abbiamo appreso.

    Quando siamo consapevoli della fiducia che conferiamo (o che riceviamo) sono sempre coinvolti gli atti cognitivi dell’apprensione e del giudizio, ma anche delle risposte teoretiche. Pensiamo al caso in cui qualcuno ci chiede se ci fidiamo e quanto ci fidiamo del nostro medico curante. Nel dare la nostra risposta, faremo riferimento alle informazioni che nel corso del tempo abbiamo acquisito sull’affidabilità di quella persona, al tipo di giudizio che abbiamo formulato nei suoi confronti (ad esempio di fiducia piena o parziale, oppure di sfiducia) e alla risposta teoretica che accompagna tale giudizio, ad esempio una convinzione, la certezza, il dubbio, etc.

    Gli atti del cuore e del volere

    Per la fenomenologia, accanto all’esperienza che fonda la nostra conoscenza intellettuale e coinvolge tutto ciò che è in qualche modo intelligibile, esiste anche l’esperienza degli oggetti che ci si presentano come dotati di importanza. Anche questi ci sono dati in modo intenzionale, però coinvolgono direttamente le nostre dimensioni affettive perché li cogliamo come dotati di un valore positivo o negativo, in virtù del quale gli oggetti ci attraggono o proviamo repulsione verso di essi.

    La nostra sfera affettiva coniuga una dimensione recettiva, che d’ora in poi indicheremo come «sentire», e una dimensione «tendenziale», che si manifesta secondo una gamma che va dalle pulsioni, ai desideri, alle aspirazioni e alle volizioni vere e proprie. Di entrambe ci occuperemo nella parte restante di questo capitolo, con l’intenzione di mettere in luce somiglianze e differenze tra questi atti umani.

    La percezione assiologica

    In ambito cognitivo, leggo una notizia sul giornale e mi sembra infondata, perciò rispondo col dubbio; oppure, vedo una persona in lontananza e la riconosco come la mia vicina di casa, diventando sempre più certa via via che si avvicina. Ebbene, un processo simile avviene anche nella sfera affettiva. L’esperienza affettiva inizia con il contatto con qualcosa che ci commuove, ci tocca emotivamente, in senso positivo o negativo. Possiamo indicarla come «percezione affettiva», per distinguerla da quella dei sensi, o anche «sentire» o «sensazione affettiva», perché in essa riceviamo un oggetto dotato di importanza e lo «sentiamo» affettivamente.⁷ Possiamo dunque «sentire» la piacevolezza di una brezza leggera sulla pelle, la grazia di una ballerina, ma anche la dignità nel modo di vestire di una persona che ha scarsa disponibilità economica o la volgarità degli slogan urlati in una manifestazione. Anche se la percezione affettiva generalmente si serve dei nostri cinque sensi, il dato al quale si dirige trascende le informazioni sensoriali. Infatti, persone differenti possono avere accesso agli stessi dati sensoriali (ad esempio vedere la ballerina o ascoltare gli slogan), ma essere toccati affettivamente in modo molto diverso. La percezione affettiva fa cogliere il carattere di bene e di male della realtà, mentre le sfugge ciò che è irrilevante, neutrale. Gli aspetti valoriali che percepiamo suscitano infatti in noi una reazione positiva, di attrazione o diletto, o negativa, di ripulsa o sofferenza. Per questo motivo, si può anche parlare di percezione assiologica.

    Un problema molto rilevante, anche per la questione della fiducia, è stabilire da che cosa dipende la capacità di percepire le qualità valoriali delle nostre esperienze. Se la nostra percezione affettiva dipendesse esclusivamente dalle nostre tendenze psichiche, che reagiscono in modo puramente soggettivo alle stimolazioni che riceviamo, dovremmo concludere che essa è del tutto individuale e priva di qualsiasi fondamento nella realtà, per cui non sarebbe possibile stabilire alcun orientamento oggettivo riguardo a ciò che sperimentiamo come importante: non solo ognuno avrebbe la propria esperienza, fatto indiscutibile, ma non sarebbe in alcun modo possibile valutare se una percezione è errata, può essere migliorata, o è miope. Questa è la conclusione alla quale giungono i filosofi morali che aderiscono all’emotivismo, ma anche coloro che affermano che le valutazioni estetiche sono solo questione di gusti personali o che le valutazioni etiche sono irriducibilmente diverse perché ciascuno si crea i propri criteri valoriali. La fenomenologia, però, si oppone a questa visione. Essa ritiene che un atto di violenza su un bambino o la bellezza dei Notturni di Chopin dovrebbero essere colti da chiunque come dotati, rispettivamente, di un grave disvalore etico e di un elevato valore estetico, perché «oggettivamente» sono il primo un male (etico) e il secondo un bene (estetico). Perché, allora, non tutti coloro che vedono un uomo che aggredisce un bambino sentono sorgere lo sdegno dentro di sé e l’impulso a intervenire, oppure non tutti coloro che ascoltano i Notturni di Chopin suonati su un pianoforte collocato in una stazione ferroviaria, si fermano incantati ad apprezzarne la bellezza? La risposta del fenomenologo è che non sono quei valori ad essere relativi, ma lo è la capacità dei singoli, dei gruppi, delle società, di percepirli.

    Anche per la percezione affettiva/assiologica, come per ogni tipo di esperienza umana, sono infatti possibili l’insensibilità, l’errore e l’illusione. Così come posso convincermi del fatto che la persona vista da lontano è un mio conoscente e poi accorgermi, quando mi passa accanto, che mi ero sbagliata, è possibile provare ammirazione per un farabutto o sdegnarsi senza un motivo adeguato. Dobbiamo accettare il fatto che possiamo sbagliare, tuttavia non si tratta di una condizione sempre invincibile. Così come se vediamo un bastone spezzato perché è immerso a metà nell’acqua, ma avvicinandoci e guardandolo con più attenzione è possibile scoprire che si trattava di un’illusione ottica, anche per il sentire ci sono casi in cui è possibile individuare le percezioni illusorie. L’aumento del contatto con la realtà, così come la riflessione o il confronto con la percezione degli altri ci possono aiutare a rettificare le nostre percezioni assiologiche inadeguate e a sviluppare la nostra capacità di sentire.

    Più in generale, possiamo parlare della possibilità di educare le nostre capacità affettive, a partire proprio dalla capacità di «sentire». Addirittura, potremmo dire che questa in fondo è la radice di ogni vera educazione: aiutare l’altro a sviluppare una sensibilità sempre più adeguata ai valori, siano essi ontologici, estetici, intellettuali, ma soprattutto morali. Accanto a questa educazione, e conseguente ad essa, si pone l’educazione della capacità di formulare giudizi di valore e risposte adeguate agli oggetti rilevanti che percepiamo. Ad esempio, si impara a percepire la bellezza di un capolavoro della pittura, ma anche a stimarlo come tale (giudizio) e a rispondere con l’entusiasmo quando possiamo ammirarlo dal vero (risposta). In positivo, dunque, l’educazione affettiva consiste nella maturazione della persona, sia a percepire, sia a rispondere ai valori. In negativo, invece, se non intraprendiamo alcun percorso educativo, le illusioni nel sentire possono intorpidire la nostra sensibilità, fino a renderci ciechi rispetto alle qualità valoriali di una certa categoria di beni o a sentirle con tonalità affettive inadeguate oppure contrarie alla loro natura, così come l’artista che deforma i propri canoni estetici fino a percepire come bello ciò che è deprimente, deforme o corrotto. Dire che la strutturazione del sentire è essenziale nella maturazione della persona equivale a dire che tale crescita è fondamentale per rendere la persona sempre più sé stessa, perché determina la capacità della persona di percepire la rilevanza del mondo, ma anche di rispondervi adeguatamente. Se ci soffermiamo sulla sfera etica, tale sensibilità determina l’identità morale della persona perché struttura le sue motivazioni.

    Gli atti del sentimento in generale

    Come accennato, la nostra dimensione affettiva include il momento recettivo del «sentire», che abbiamo anche chiamato della percezione assiologica, e l’insieme di tutti quegli atti nei quali la persona prende posizione rispetto a ciò che ha percepito come rilevante. Abbiamo anche visto che per Brentano questi atti sono compresi in un’unica categoria, che egli chiama dagli atti del «sentimento», o anche valutativi o estimativi. Questi comprendono gli atti di stima, nei quali si attribuisce un valore a qualcosa, gli atti di desiderio, nei quali si spera che qualcosa che per noi ha valore venga all’esistenza, e il volere, nel quale intendiamo portare all’esistenza qualcosa che sia ha un valore per noi, sia è in nostro potere. Il fatto che egli non distingua questi atti in categorie differenti (cosa che invece noi faremo) si spiega perché ci sono almeno quattro caratteristiche che li accomunano.

    In primo luogo, gli atti di stima, di desiderio e della volontà sono tutti intenzionali, come lo sono gli atti cognitivi. Inoltre, e questa è la seconda caratteristica, tutti gli atti di questa categoria considerano l’oggetto come amato o odiato. Per Brentano questi termini sono utilizzati in un senso ampio, a indicare ciò che ci attrae (perché lo stimiamo, lo desideriamo o vogliamo realizzarlo, ad esempio), oppure ciò che ci respinge (perché lo disprezziamo, ci disgusta o ci dispiace). In terzo luogo, questi atti hanno sempre come oggetto qualcosa di importante, dotato di un valore, di non neutrale. Sono atti intenzionali proprio perché non sono semplicemente causati (ad esempio da un istinto), ma sono motivati proprio dall’importanza positiva o negativa del loro oggetto. Gli oggetti neutrali, indifferenti, sono incapaci di motivare atti affettivi o volontari. Infine, Brentano ritiene che la volontà e le tendenze affettive o istintive appartengano alla stessa categoria anche perché è assai difficile separare nettamente tra atti esclusivamente volontari e atti esclusivamente emotivi: piuttosto, gli atti di questo tipo possono essere collocati su una scala, ai cui estremi ci sono, da una parte, gli atti più sentimentali e meno volontari, e dall’altra, quelli meno sentimentali e più volontari. Vedremo che questo si applica anche alla fiducia: esistono forme di fiducia più affettive e spontanee, come quella verso chi amiamo profondamente, e forme di fiducia più fredde e razionali, come quella che guida un dirigente d’azienda nella scelta dell’ingegnere migliore per progettare l’impianto elettrico di uno stabilimento.

    Abbiamo già menzionato il fatto che in base all’esperienza dell’attrazione e della ripulsa possiamo stabilire che gli atti del sentimento (di stima, desiderio o della volontà) possono avere una connotazione positiva oppure negativa. In uno scritto pubblicato nel 1913, Alexander Pfänder già osservava che mentre gli atti che hanno una connotazione affettiva positiva tendono a promuovere, conservare e affermare il loro oggetto, gli atti che sono connotati in senso negativo tendono a negarlo, a distruggerlo. I primi creano una vicinanza tra il soggetto e l’oggetto, i secondi producono separazione e rifiuto. Inoltre, Pfänder ha messo in luce che la colorazione affettiva di questi atti può avere diversi gradi di intensità, come possiamo vedere nelle relazioni di amicizia o nelle diverse forme di rancore. Infine, gli atti di sentimento procedono dal centro della persona, la coinvolgono nella sua totalità, in un modo che non si presenta negli atti meramente intellettuali.⁹ Abbiamo già accennato alla corrispondenza che la fenomenologia ha mostrato esserci tra gli atti umani e il loro oggetto. Anche per gli atti di sentimento esiste questa relazione essenziale. Ciò significa che a ciascun sentimento corrisponde un determinato correlato oggettivo che lo soddisfa. In altre parole, ogni sentimento deve essere motivato dall’oggetto che gli è proprio, altrimenti è scorretto, insensato. Dunque, la gioia deve essere motivata da un oggetto diverso da quello che può motivare il disgusto. Così come l’apprezzamento estetico non può essere rivolto a un oggetto orribile, o la venerazione a una persona ignobile. Anche il desiderio e la volontà seguono questa regola: dovrebbero essere rivolti a ciò che è bene, ossia degno di essere desiderato e voluto a causa delle sue qualità positive. Solo gli oggetti adeguati possono «riempire» o «portare a compimento» l’atto corrispondente. Husserl ritiene che la scienza che stabilisce quali condizioni garantiscano la corretta corrispondenza tra gli atti del sentire e i loro oggetti si chiama teoria del valore o assiologia.¹⁰ Essa si estende a tutti i tipi di atti che hanno per oggetto dei valori, siano essi vitali, etici, estetici o di qualsiasi altro tipo. Avremo modo di chiarire che cosa intendiamo per «valore» nel corso di questo stesso capitolo. Prima però è opportuno completare l’analisi degli strati della nostra sfera affettiva.

    Gli atti di stima

    Tra gli atti del sentimento o affettivi, distinguiamo gli atti di stima o di attribuzione di un valore, gli atti del desiderare e gli atti del volere. Gli atti di stima hanno una connotazione più intellettuale e meno emotiva di altri atti affettivi (ad esempio, delle risposte come l’amore e la gelosia). Implicano degli atti di valutazione, ossia di attribuzione di importanza positiva o negativa. La stima, allora, richiede la capacità di cogliere e apprezzare ciò che ha valore. Gli atti di stima o attribuzione di valore possono riguardare l’essenza di un oggetto (ad esempio, apprezzo il valore morale della generosità o il valore estetico della musica di Chopin) o un oggetto esistente (apprezzo un atto di elemosina da parte di una persona poco abbiente, mentre lo vedo, o i Notturni di Chopin suonati da Pollini, mentre li ascolto). Nel caso degli atti di stima rivolti a beni e a mali che esistono, proprio per il fatto che esistono, essi assumono la forma del rallegrarsi e del rattristarsi. La gioia, infatti, si rivolge all’esistenza di beni o alla non esistenza di mali; la tristezza, al contrario, si rivolge all’esistenza di mali o alla non esistenza di beni. Se amo la musica di Chopin, nel momento in cui ascolto qualcuno che la suona con maestria, mi rallegro. Non solo c’è una corrispondenza contingente tra l’esistenza del bene e la contentezza, ma dovrebbe essere così, è conveniente che sia così. Rallegrarsi di fronte a un male o rattristarsi di fronte a un bene sono atti inadeguati, che implicano una disarmonia. Esiste però anche un significato più specifico di stima, che è diretta solo a ciò che percepiamo come dotato di importanza positiva. Questo significato emerge in espressioni come «professionista stimato», oppure «ti sei guadagnato la mia stima». Nel caso della stima come risposta al valore positivo, essa si contrappone alla disistima o al disprezzo.

    Se la stima e il disprezzo devono essere rivolti a ciò che ha un valore, si pone il problema cruciale della loro adeguatezza: per essere una risposta corretta, il destinatario della stima deve esserne degno, deve possedere effettivamente le caratteristiche positive che motivano l’apprezzamento, e la risposta di stima deve essere adeguata al suo oggetto. Lo stesso vale per la disistima o il disprezzo. Questo principio di adeguatezza delle risposte, elaborato dalla fenomenologia, ci permette di elaborare alcune regole formali di correttezza della stima. Possiamo innanzi tutto dire che ciò che è degno di stima «dovrebbe» ricevere apprezzamento, mentre ciò che non è degno di stima, «non dovrebbe» ricevere questa risposta, o dovrebbe ricevere la risposta contraria, il disprezzo. In generale, dunque, un oggetto può a) essere degno di stima o di disprezzo, e ci devono essere delle ragioni che motivano l’uno o l’altro, oppure può b) non essere né degno di stima, né di disprezzo, perché è neutrale, non ha né importanza positiva, né negativa. Una seconda regola formale riguarda gli atti di preferenza e prescrive che, di fronte a più oggetti degni di stima, quello che ne è più degno dovrebbe essere preferito a quelli che gli sono inferiori. Ad esempio, se devo decidere tra diversi candidati per conferire un’onorificenza, che è un attestato di stima, il candidato più degno dovrebbe ricevere il premio. Queste regole valgono anche per la fiducia: ci dovremmo fidare di ciò o di colui che ne è degno, e chiamiamo questo valore «affidabilità», mentre non dovremmo fidarci di ciò o di colui che è inaffidabile. Inoltre, tra più alternative, dovremmo preferire ciò o colui che è più degno di fiducia, rispetto a ciò o colui che lo è di meno.

    Gli atti del desiderare e gli atti del volere

    Come abbiamo accennato, per Husserl gli atti del sentimento semplici (che si contrappongono a quelli di preferenza) sono di tre tipi: a) gli atti di stima o di attribuzione di valore, dei quali abbiamo parlato, b) gli atti del desiderare e c) gli atti del volere. Abbiamo anche già anticipato che gli atti del desiderare e del volere hanno in comune il fatto di presupporre il sentire, implicano un atto di stima e considerano il bene come qualcosa da realizzare; inoltre, implicano un tendere verso l’oggetto. Ciò che percepiamo come importante ci attrae o ci respinge, a seconda che lo percepiamo come piacevole, ammirabile, amabile, etc., oppure come spiacevole, disgustoso, odioso, etc. Per questo diciamo che ci motiva, può muovere la nostra affettività a una risposta del cuore, o la nostra volontà all’azione. Nel desiderare, l’oggetto è stato già valutato con la stima che si rivolge all’essenza dell’oggetto ed è stato conosciuto come non esistente: desiderare consiste infatti nel ritenere l’oggetto come degno di esistere e nell’aspirare al fatto che venga all’esistenza. Anche gli atti di volere hanno come oggetto qualcosa che non esiste ed è considerato degno di esistere, dunque come qualcosa da realizzare, anzi, di degno di essere desiderato. Però, caratteristica del volere è la consapevolezza del fatto che l’oggetto può venire all’esistenza grazie alla mia azione, dunque che la sua realizzazione è in mio potere.¹¹

    Dato che uno dei problemi che dovremo affrontare è se la fiducia sia volontaria o non lo sia, dunque se si può a buon diritto dire che decidiamo di fidarci, o se invece il fidarsi (o il non farlo) è legato a degli impulsi che sfuggono dal nostro potere o è un sentimento spontaneo, è utile soffermarsi brevemente sulle analisi di Husserl riguardo alla volontà.

    La differenza tra decisione e azione

    In primo luogo, è utile ricordare la distinzione proposta da Husserl tra decisione e operare sulla base della decisione. Il secondo presuppone la prima, ma non coincide con essa.¹² La decisione è un inizio, si dà in un istante preciso, invece il volere che porta a compimento dura nel tempo e mantiene come proprio fine la decisione. Possiamo deciderci a fare qualcosa, ma poi non trovare il coraggio di farla. La decisione in questo caso non ci conduce al «volere operante» e resta incompiuta.

    Analogamente Alexander Pfänder, in Motivi e motivazione, distingue tra atto del volere e azioni volontarie: il primo è un atto interiore, coincide con la volontà o proposito e include la consapevolezza di un progetto di azione e la volontà di agire, che è l’atto con cui la persona determina sé stessa. Le azioni volontarie, invece, riguardano l’esecuzione di ciò che è voluto.¹³ Ebbene, l’atto con cui il soggetto determina sé stesso, quale è l’atto di volere, deve essere distinto nettamente dalle tendenze che non scaturiscono dal centro della persona, ma da un suo «io» più periferico, legato al corpo, perché solo l’atto di volere è libero.

    Hildebrand esamina la questione della differenza tra il volere che caratterizza la libertà originaria della persona e il volere che inizia nuove catene causali, intervenendo nel mondo, dal punto di vista delle capacità della volontà stessa. Distingue infatti tra due perfezioni della volontà: la prima consiste nella capacità di prendere posizione rispetto a ciò che sperimentiamo, dunque di decidere, mentre la seconda è la capacità di comandare atti, ad esempio di agire. La prima è la fonte della libertà umana, perché non può essere soggetta a coercizione esterna. Finché l’uomo è capace di intendere, è anche capace di decidersi, di prendere posizione a favore e contro ciò che la realtà gli presenta. Invece, la seconda perfezione può essere impedita nel suo esercizio da cause esterne (ad esempio qualcuno ci fa prigionieri e limita la nostra libertà di movimento), o interne alla persona (ad esempio dalla stanchezza o da una patologia che ci impedisce di realizzare quanto abbiamo deciso). Prima che come capacità di comandare atti, insomma, la volontà è in primo luogo una capacità di prendere posizione, senza essere determinati da cause esterne, rispetto a ciò che l’esperienza ci presenta. Questa presa di posizione può essere una risposta in senso positivo, e in tal caso la volontà asseconda ciò che ci si presenta, oppure in senso negativo, e in questo caso la volontà ripudia interiormente ciò che ci si presenta. Tale atto di conferma e ripudio spiega il ruolo della nostra volontà rispetto a ciò che non possiamo causare, ad esempio un moto della sfera affettiva o un evento che ci accade senza che lo abbiamo in qualche modo causato. Anche rispetto a questi vissuti possiamo prendere posizione liberamente, nonostante il fatto che non possiamo causarli volontariamente.¹⁴

    Le distinzioni che abbiamo riportato ci sono utili soprattutto perché mettono in luce la differenza tra gli atti volontari che sfociano in azioni, dunque sono osservabili all’esterno, e gli atti interiori della volontà, rappresentati dalle nostre prese di posizioni libere, dalle nostre decisioni. Come vedremo, la fiducia si manifesta negli atti esteriori che ne conseguono, ad esempio il fatto di prestare una macchina fotografica costosa a un amico dimostra che mi fido di lui. Tuttavia, la vera fonte della fiducia precede questi atti, perché essa è in primo luogo una risposta interiore.

    La differenza tra volere deliberato e volere spontaneo

    Una seconda distinzione husserliana importante per comprendere la fiducia è quella tra il volere che è frutto di una decisione consapevole e il volere spontaneo, che non è frutto di riflessione. Già Aristotele nell’Etica Nicomachea aveva intuito che gli atti volontari non sono tutti uguali, ma possono essere frutto di autodeterminazione secondo gradi diversi. L’esperienza ci mostra che i bambini fin da piccoli manifestano forme elementari di volontà, ad esempio quando protestano rumorosamente perché non vogliono essere legati nel passeggino o desiderano essere presi in braccio da un genitore e non dall’altro. Anche alcuni animali sembrano manifestare delle forme elementari di autodeterminazione, ad esempio quando un cavallo si rifiuta di saltare un ostacolo o un cane si oppone alla direzione impressa dal padrone al suo guinzaglio. Solo gli esseri umani che hanno raggiunto un certo grado di maturità, però, sono capaci di scelte deliberate, dunque pienamente volontarie. Analogamente, Husserl afferma che noi vogliamo in senso stretto solo nel caso della decisione, che è frutto di un processo che ci conduce a scegliere in modo pienamente consapevole. Tuttavia, anch’egli ritiene che non ogni volere ha il carattere della decisione: ci sono anche atti del volere che rispondono semplicemente a uno stimolo, privi di una riflessione o ponderazione. Ad esempio, quando vedo la mia colazione, sono affamato e dico: «voglio fare colazione».¹⁵ In questo caso la volontà sembra passiva. Eppure, non si possono escludere dagli atti umani tutti quelli che sono compiuti in questo modo, senza una decisione esplicita, automaticamente, inavvertitamente, per abitudine, sia perché ci sono casi in cui restiamo liberi di opporci alla loro realizzazione, sia perché restano atti di quella persona e delle loro conseguenze essa può essere ritenuta responsabile. Avremo modo di vedere come questa distinzione vale anche per la fiducia, che può essere sia una risposta spontanea, sia una risposta deliberata.

    Volere positivo, volere negativo e incertezza del volere

    Un’altra distinzione che Husserl introduce rispetto agli atti del volere riguarda il volere positivo, il volere negativo e l’incertezza del volere. Il volere positivo coincide con il volere in senso stretto, in modo certo, determinato, con un’affermazione che possiamo esprimere con un «sì, lo voglio». Suo opposto è il volere negativo, che equivale ad affermare, in modo altrettanto certo e determinato: «no, non voglio». Entrambi includono la convinzione che, grazie al mio volere, qualcosa diventerà o non diventerà reale. Il volere negativo include, ad esempio, l’omettere, cioè il non volere qualcosa che potremmo fare, e il rinunciare, cioè lo smettere di volere quanto avremmo voluto.¹⁶ Tra il volere positivo e il volere negativo possiamo trovare molti gradi intermedi, che Husserl comprende sotto la categoria dell’incertezza del volere. Ad esempio, possiamo desiderare qualcosa, ma essere incerti riguardo alla possibilità di poterlo realizzare, dunque volerlo in modo incerto. Lo stesso accade in molte situazioni nelle quali siamo chiamati a dare fiducia: esse possono condurre alla decisione più o meno ferma di fidarsi, così come possono contemplare la decisione di non fidarsi, di fidarsi solo in parte, o di smettere di fidarsi di fronte al mutare delle circostanze.

    La differenza tra atti puntuali della volontà e disposizioni abituali

    Una quarta distinzione introdotta da Husserl riguarda la differenza tra singoli atti della volontà e disposizioni abituali. È importante osservare qui che per tutte le capacità tipicamente umane, ma anche per gli atti istintivi dell’uomo, è possibile questa doppia manifestazione in atti specifici, attuali e temporanei, oppure in atteggiamenti più generali, duraturi, stabili. Posso essere sempre affamato o avere appetito in questo momento; posso sapere le tabelline o studiare la tabellina del sette questo pomeriggio; posso adirarmi con una persona molesta o rimanere adirata per settimane. L’essere umano, insomma, è capace sia di atti della volontà puntuali, collocati in un preciso istante, sia di prendere posizione in modo duraturo rispetto a degli oggetti o delle categorie di oggetti. Alcune nostre decisioni cambiano in modo permanente (anche se spesso non irrevocabile) la nostra esistenza, perché diventano delle disposizioni che influiscono su tutti i nostri comportamenti successivi. Pensiamo al matrimonio contratto con piena consapevolezza, a una vocazione religiosa o a una scelta professionale che orienta tutta la nostra vita. Ci sono persone che in generale sono più salde e ferme negli atti della volontà, altre meno. Ma ci sono anche persone che sono più stabili e ferme nelle loro disposizioni abituali, per cui risultano più o meno tenaci.¹⁷ In ogni caso, sperimentiamo in noi di continuo la distinzione tra decisioni limitate all’istante e decisioni che sfociano in disposizioni del volere più durature. Ci sono esperienze e atti che toccano in modo temporaneo la nostra persona, altri che invece la modificano in modo duraturo. Ciò vale anche per la fiducia, che può sia essere una singola risposta, sia una disposizione abituale della persona. Se affermo che mi fido dei miei genitori o del mio migliore amico, questo non si riferisce a una decisione presa in un certo momento e limitata a una certa situazione. Indica piuttosto una disposizione abituale, un continuare a fidarsi, che ha avuto un inizio, ma perdura nel tempo.

    La differenza tra libertà diretta, indiretta e cooperativa

    Abbiamo accennato al fatto che Hildebrand descrive la distinzione tra decisione e volere operante alla luce delle due perfezioni della volontà e che grazie a queste mette in luce dove sta la fonte della libertà umana. Questa distinzione è anche utile per comprendere in che modi si può esercitare la libertà a seconda delle diverse sfere della nostra influenza sul mondo.¹⁸ Da una parte, infatti, vi è la sfera di tutto ciò che è in nostro potere, dunque di ciò sul quale possiamo esercitare un comando diretto, come accade tipicamente con le azioni. Decidiamo di comprare un frullatore e ci rechiamo al negozio di elettrodomestici, decidiamo di imparare ad attaccare un bottone e prendiamo lezioni dalla nonna. Esiste però anche l’ambito di ciò che non è in nostro potere diretto realizzare, ma che possiamo portare all’esistenza favorendo le condizioni che ne permettono la realizzazione. Ad esempio, mantenerci in salute e creare un’amicizia non sono in nostro potere in senso stretto, ma non è insensato considerarli come obiettivi da raggiungere, perché possiamo favorire la realizzazione di questi propositi indirettamente, per il primo, curando la nostra dieta e facendo esercizio fisico, per il secondo, dimostrando interesse e attenzione verso l’altra persona, aiutandola nelle difficoltà, condividendo interessi con lei e mantenendo vivi i rapporti nel tempo. L’ambito dei fenomeni di questo tipo, insomma, cade sotto la sfera della nostra libertà indiretta. Infine, esiste un ambito di eventi che ci capitano, senza che li possiamo comandare, ma verso i quali possiamo esercitare la libertà attraverso la nostra presa di posizione rispetto ad essi, così da assecondarli e farli nostri, o da rifiutarli ed emanciparci da essi. Le contrarietà che ci accadono, così come i nostri stati d’animo e le nostre emozioni, sono soggetti a questo tipo di libertà, che possiamo chiamare cooperativa. Rispetto agli eventi che cadono nell’ambito di questa sfera, infatti, siamo liberi di allinearci con essi (cooperando con essi e dunque facendoli nostri con il nostro centro personale) o di ripudiarli, distaccandoci da essi. Questa distinzione tra libertà diretta, indiretta e cooperativa ci aiuterà a capire come la fiducia possa essere una risposta libera.

    Possiamo iniziare a intravvedere che rapporto hanno la sfera cognitiva e quella volontaria con l’affettività. La nostra dimensione cognitiva entra in relazione con l’affettività nel «sentire», che conduce alla «coscienza del contenuto affettivo» alla quale rispondiamo con la risposta affettiva. La volontà invece entra in relazione con l’affettività attraverso un atto che ratifica, sanziona: di fronte ai moti affettivi di cui siamo coscienti, la volontà può intervenire con un atto positivo, di conferma, oppure con un atto negativo, di rifiuto. Nel primo caso il centro spirituale della persona si schiera a favore del moto affettivo, lo asseconda, lo fa proprio, cosicché la risposta diventa davvero una sua risposta. Nel secondo caso il centro spirituale della persona si «emancipa» dal moto affettivo, può continuare a subirlo, ma senza volerlo. Per questo il contrario dell’atto di conferma è l’atto di ripudio.

    I sentimenti, le emozioni e le passioni

    Dopo aver esaminato le caratteristiche della volontà, torniamo a rivolgerci alla sfera affettiva per completare quanto detto con l’accenno ad altre tre categorie di fenomeni, ossia i sentimenti, le emozioni e le passioni.

    La dimensione affettiva più tipicamente personale riguarda quello strato delle nostre esperienze e attività che hanno come destinatari altri esseri personali e sono tipicamente rappresentate dai sentimenti. Gli esempi più paradigmatici di sentimenti, sia perché sono i più fondamentali e totalizzanti per la persona, sia perché in base ad essi tutti gli altri possono essere classificati e compresi, sono l’amore e l’odio. I sentimenti in senso stretto presuppongono la percezione affettiva degli altri e dei loro valori (o

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