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Stili Caratteriali: Come uscire dalla prigione del proprio carattere
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E-book501 pagine6 ore

Stili Caratteriali: Come uscire dalla prigione del proprio carattere

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Info su questo ebook

In questo suo libro, Stephen Johonson si dedica ad un'appassionata esplorazione dei più profondi misteri psicologici, domandandosi cosa determini il comportamento umano ed in che modo si possa intervenire sulle sue manifestazioni distruttive. Per rispondere a queste domande, egli si serve degli strumenti offerti da vari approcci psicologici, quali la psicoanalisi, la teoria delle relazioni oggettuali, la psicologia del sé e la bioenergetica. I nomi utilizzati dall'autore per individuare le diverse strutture caratteriali - il bambino odiato, il bambino abbandonato, il bambino posseduto, il bambino disciplinato - non solo collegano le esperienze infantili alla personalità ed alla psicopatologia dell'adulto, ma rendono più umana la diagnosi psichiatrica.
LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2017
ISBN9788871835303
Stili Caratteriali: Come uscire dalla prigione del proprio carattere

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    Anteprima del libro

    Stili Caratteriali - Stephen M. Johnson

    INTRODUZIONE

    Questo è il libro di cui avrei voluto disporre quando iniziai a studiare psicologia, più di trent’anni fa. Come molti giovani, mi avvicinavo a questa dottrina con domande di ampia portata, precise e significative: quali sono le molle del comportamento? Perché molti di noi sono così folli? Cosa si può fare al riguardo? Otto anni dopo, con un dottorato in mano, sapevo molte più cose su programmi sperimentali, statistiche e apprendimento di parole prive di senso che sulle domande che mi avevano spinto a iniziare i miei studi. Dovettero passare altri sei anni prima che io, diventato professore ordinario in uno stimato dipartimento di psicologia, grazie alla libertà di un anno sabbatico ritornassi finalmente su quelle fondamentali questioni. Questo compito esigeva l’abbandono della limitativa ristrettezza allora richiesta dalla psicologia accademica classica riguardo alle forme di conoscenza valide. Le nozioni empiriche, acquisite obbedendo ciecamente alle norme legittimate in un particolare periodo storico, non erano né sono sufficienti per far fronte a quelle domande. Capii che le risposte dovevano includere più modelli cognitivi e l’integrazione di vari apporti, spesso indipendenti tra loro.

    Portare a termine il presente libro rispondendo proprio alle domande che a suo tempo mi avvicinarono alla psicologia, mi ha permesso di chiudere un ciclo, facendomi in un certo senso tornare al punto di partenza. Alcune risposte provengono dalla psicologia classica, altre da modelli esterni a essa. In questo testo troverete quindi il prodotto di intuizione, teoria, esperienza, deduzione e, sì, anche di una notevole quantità di ricerca empirica.

    Chiedersi quali sono le molle del comportamento? equivale a porsi una domanda altrettanto ampia e importante: Qual è la natura umana? A mio parere, la ricerca e la teoria dello sviluppo cercano essenzialmente di rispondere a questa domanda. L’osservazione dei neonati e dei bambini nella prima e nella seconda infanzia consente di riflettere sulla natura fondamentale dell’essere umano, all’inizio così impotente, anche se potenzialmente completo. A volte, è necessaria un’osservazione attenta e programmatica per scoprire quanto in realtà nei primi anni di vita sia già completo. Le teorie sono molto utili se usate nel tentativo di porsi le domande giuste.

    La teoria e la ricerca dello sviluppo ci hanno fornito una descrizione sempre più ampia, e nello stesso tempo sempre più precisa, della natura umana. In particolar modo per quel che riguarda i bisogni primari e i tipi di ambiente necessari allo sviluppo del pieno potenziale umano. Parimenti, l’osservazione dei bambini nella fase evolutiva ci fa vedere cosa accade se questi bisogni vengono sempre frustrati o se non viene creato l’ambiente necessario. Anche in questo caso, le teorie indicano cosa cercare e mostrano i rapporti fondamentali tra ambiente originario e conseguente sviluppo.

    Ho sempre creduto che l’applicazione più affascinante di queste conoscenze basilari includa la risposta alla seconda delle mie domande: Perché siamo così folli? È ovvio che, se non fosse per la nostra pazzia, nel mondo ci sarebbero assai meno sofferenza e distruzione. Gli esseri umani sono in grado di risolvere problemi assai meglio di qualunque altra forma di vita, ma la nostra follia interferisce in gran misura con questo processo, a ogni livello. Nella famiglia, sul lavoro e in politica, assistiamo al colossale spreco e alla sofferenza provocati dalla nostra inclinazione alla disfunzionalità distruttiva.

    Nel tentativo di rispondere alla seconda domanda, ho trovato particolarmente utile studiare i modelli più comuni e le sindromi in cui si esprime la nostra follia. Tali modelli sono stati ottimamente descritti dagli psicologi clinici che hanno tentano di curarne le rispettive patologie. Tra questi, si sono spesso rivelati i più sagaci quelli che hanno dedicato la propria attenzione alle strutture, agli stili o ai disturbi del carattere. Le sindromi del carattere così elaborate hanno retto bene ai test del tempo e della pratica clinica, rispondendo relativamente bene anche all’analisi di una ricerca più sistematica. Nelle loro forme più estreme, tali classificazioni dei disturbi del carattere o della personalità sono ampiamente usati in tutto il mondo a scopi diagnostici.

    Ora, per rispondere alle nostre domande, abbiamo bisogno dell’integrazione di due modelli cognitivi. Gli studi sullo sviluppo o sulla natura umana si adattano eccezionalmente bene ai modelli descrittivi della follia. Inoltre, questi modelli non sono presenti solo nelle forme più gravi di malattia mentale, ma sono stati ampiamente riscontrati nella popolazione normale e in gruppi patologici di non particolare gravità. Io ritengo vi siano diversi utili continuum nella disfunzione umana, dal più grave al meno grave, che riflettono le strutture fondamentali della nostra natura. Credo di avere scoperto sette di queste strutture, attorno alle quali si organizzano la personalità e le psicopatologie. Possono esservene altre.

    Essenziale per l’inserirsi di ognuno di noi lungo uno qualsiasi di questi continuum è l’interazione. Quest’interazione avviene tra l’individuo, con i suoi mutevoli ma fondamentali bisogni, e il variare della capacità dell’ambiente di soddisfarli. Questo processo è alla base della personalità e causa la psicopatologia. In un’epoca in cui le nostre scienze basilari, in particolare la fisica, sostengono che la materia stessa è fatta di interazioni, siamo maturi per comprendere ed esperire la nostra personalità e la nostra patologia personale come prodotti dell’interazione.

    La prospettiva interazionale in psichiatria è ben lontana dall’essere una novità. Fairbairn (1974, ma la prima edizione è del 1952) e Guntrip (1968, 1971) hanno dato i primi, più chiari e rilevanti contributi in proposito. Questi studiosi rappresentano una parte di quella che è nota come Scuola Inglese della Teoria delle Relazioni Oggettuali, che sottolinea il ruolo del rapporto genitore-figlio nello sviluppo della personalità e della psicopatologia. La loro è una variante della teoria psicanalitica, e pone l’accento sulle dimensioni teoreticamente derivate dello sviluppo infantile e della psicopatologia fondata sulle prime interazioni.

    In genere, il carattere non è l’interesse centrale di questi teorici, benché se ne occupino, e le loro teorie non sono fondate su, né modificate da, la ricerca sullo sviluppo infantile. Per una più profonda comprensione delle domande essenziali è quindi necessaria l’integrazione tra processo dello sviluppo, fattori interazionali e sindromi caratterologiche.

    Benché tutti gli elementi costitutivi di questa integrazione siano già noti da tempo, solo ora cominciano, sporadicamente, a essere collegati gli uni agli altri. Questo è stato l’intento anche dei miei libri precedenti, rivolti a terapeuti già praticanti e in formazione (Johnson, 1985, 1987, 1991). Ogni testo esamina uno o due modelli caratterologici, con un’enfasi sulla terapia. Ho cercato di scrivere ognuno di quei libri senza usare un linguaggio eccessivamente tecnico, in modo che anche una persona estranea alla professione e dotata di sufficiente cultura potesse leggerli. Ma resta il fatto che il nucleo centrale di ognuno di essi è rivolto specificamente ai terapeuti, e qualsiasi studente ben motivato dovrebbe mettere insieme tutti i miei libri e quelli di altri autori per avere un quadro completo. Il presente volume raccoglie in sé il contenuto dei precedenti, innanzitutto per presentare il modello teorico-empirico generale, che integra sviluppo, carattere e interazione. Inoltre, il libro descrive esaustivamente ognuna delle sette strutture del carattere che riflettono le sette problematiche essenziali della vita.

    Mi auguro che questo mio lavoro possa essere utile agli studenti universitari più maturi, e che possa aiutare voi lettori a rispondere alle vostre domande sulla natura e la follia umane. Spero che vi serva a gettare le basi per capire come affrontare la follia non solo in psicoterapia, ma anche nella vita quotidiana e nei rapporti personali. Confido inoltre nel fatto che anche voi, come me, lo consideriate un lavoro in fieri. Certi interrogativi sono troppo complessi, e certi problemi troppo complicati, per poter arrivare a un’ultima parola o a una soluzione definitiva. Le diverse forme di conoscenza, empirica, intuitiva, deduttiva, esperienziale e così via, continueranno a fornire la base e i motivi di correzione al nostro lavoro.

    Le risposte alla terza domanda, quella relativa a cosa si può fare nei riguardi della follia umana, sono, a mio parere, le più difficili da stabilire con certezza e univocità. Continueranno sicuramente a evolversi, e ci giungeranno da campi differenti, dalla psicofarmacologia all’ecologia, e da altri che non riusciamo ancora a immaginare. Ciononostante, ho seguito la strategia dei miei libri precedenti, conservando per ogni carattere una sezione sugli obiettivi terapeutici. In essa, mi rivolgo direttamente ai professionisti del settore, ma le considerazioni svolte sono applicabili anche al proprio, individuale sviluppo personale e a quello degli altri.

    I primi quattro capitoli di questo libro descrivono il modello teorico generale. Sono stati pubblicati originariamente nel mio Il Carattere Simbiotico (Astrolabio, 1994), e dal secondo al quarto riconsiderano questo modello in relazione ai sette principali problemi dell’esistenza e alle loro espressioni caratterologiche. Il lettore non specialista li può saltare, almeno all’inizio, perché rispetto ai capitoli successivi sono maggiormente orientati alla ricerca.

    Quelli dal quinto in poi, a loro volta, descrivono ognuno un problema esistenziale e la sua eziologia, la modalità di espressione e gli obiettivi terapeutici relativi al carattere che prende forma dalla cattiva gestione di quel problema. Ho preso i capitoli descrittivi dalle mie opere precedenti, in minima parte riveduti e corretti. I capitoli 5 e 6 vengono da La Trasformazione del Carattere (Astrolabio, 1986), il capitolo 7 da Il Carattere Simbiotico (Astrolabio, 1994), e il capitolo 8 da Humanizing the Narcissistic Style (Johnson, 1987). I capitoli dal 9 all’11 sono stati scritti espressamente per questo volume, per completare la descrizione di tutti e sette i tipi di carattere.

    In linea di massima, ogni capitolo è un’unità completa e indipendente, e il libro può essere letto in qualsiasi ordine. In ogni caso, il capitolo 1 espone la teoria generale, ed è quindi utile per avere una migliore comprensione di quelli successivi. Inoltre, grazie a esso i lettori che conoscono già i disturbi della personalità vedranno come la mia trattazione faccia riferimento alla loro più recente categorizzazione.

    Lettori esperti dell’argomento mi hanno qualche volta chiesto cosa presentasse di nuovo e diverso il mio approccio. La risposta è che non c’è molto di particolarmente nuovo. La differenza sta invece in questo: non è un testo di psicanalisi, né di relazioni oggettuali, né di psicologia del sé o di psicologia dell’Io. Non è un testo caratterologico, evolutivo, interattivo o fenomenologico. Non è teoretico, empirico, esperienziale, intuitivo o deduttivo. È un insieme di tutto questo, e molto di più. Vuole rispondere a domande fondamentali utilizzando tutte le informazioni disponibili. Chiunque sia seriamente interessato a queste problematiche deve procedere in questo modo. Questa è la mia risposta. Mi auguro che possa esservi utile.

    Parte Prima

    UNA TEORIA DELLA FORMAZIONE DEL CARATTERE

    1

    UNA TEORIA CARATTEROLOGICO-EVOLUTIVA

    In questi capitoli iniziali cercherò di integrare quel che sappiamo sullo sviluppo umano con le teorie riguardanti le comuni costellazioni del carattere. Benché la nostra conoscenza tanto del carattere che dello sviluppo sia in continua evoluzione, e determinata dalla nostra prospettiva culturale, credo che questa visione integrata ci fornisca la più utile mappa del territorio della personalità e della psicopatologia. Un approccio alla comprensione e all’aiuto degli altri, che si fondi sui principali problemi dello sviluppo, ci dà una mappa generalizzata che rileva il territorio essenziale: una mappa abbastanza generale eppur specificamente mirata, in grado di rispondere all’obiettivo cui è preposta. Una prospettiva caratterologico-evolutiva, soprattutto se rimane aperta all’evoluzione delle conoscenze e della cultura, può fornire una visione che integra i risultati del potenziale evolutivo umano con gli effetti delle condizioni ambientali, e che rivela come le potenzialità incidono sull’apprendimento e come entrambi possono essere deviati dal loro corso ottimale.

    La psicologia psicanalitica evolutiva, una sorta di definizione ombrello che copre la psicologia delle relazioni oggettuali, quella dell’Io e quella del sé, è stata di grandissima utilità clinica per molti di noi, perché insiste con fermezza su alcune domande essenziali: quali sono i bisogni e le pulsioni basilari del bambino? Di cosa ha bisogno il bambino per raggiungere lo sviluppo ottimale? Come fa un individuo ad acquisire un senso di sé strutturato e coerente? In che modo avviene lo sviluppo cognitivo, e come si rapporta al carattere e alla psicopatologia? Come influiscono l’indulgenza, il trauma o la frustrazione cronica sullo sviluppo dell’essere umano? Ci sono periodi critici per lo sviluppo di determinate qualità umane? E se sì, quali? L’essere umano interiorizza i fattori ambientali? E se sì, come?

    Una mappa cognitiva che serva da supporto a questo lavoro deve includere anche le più diffuse costellazioni della personalità e della psicopatologia. L’attuale Diagnostic and Statistical Manual della American Psychiatric Association (1994) fornisce sicuramente il punto di partenza per questa ricerca, benché sia ateoretico e non segua una linea di pensiero dominante. Nei miei precedenti scritti (Johnson, 1985, 1987) sostenevo che una prospettiva insieme caratterologica e analitica fornisse una visione molto simile, benché teoreticamente fondata, delle costellazioni della personalità e della psicopatologia. Inoltre, se questo approccio è supportato da prospettive di tipo più evolutivo e interpersonale, è possibile ricavarne un modello clinicamente valido che accoglie un’ampia gamma di tecniche terapeutiche e ne suggerisce la corretta applicazione.

    In questa prospettiva caratterologico-evolutiva, ogni struttura del carattere è il prodotto di un fondamentale problema esistenziale. Ogni problema è essenziale per l’esperienza umana ed esige una continua rielaborazione nell’arco di tutta la vita. Ciononostante, è possibile prevedere dei periodi della vita in cui ogni problematica assume particolare rilievo. Il primo momento in cui viene affrontata può rivelarsi di fondamentale importanza, soprattutto nell’eventualità di un’esperienza profondamente traumatica. In questo caso, le prime modalità di soluzione del problema tendono a cristallizzarsi. In altre parole, il modello corrente non è quello dello sviluppo passo dopo passo, nel quale i problemi fondamentali vengono risolti in una fase precisa della vita affinché il bambino possa passare a risolverne altri nelle fasi successive. Si tratta infatti di questioni estremamente importanti, che non possono essere affrontate in questo modo. Anzi, l’idea prospettata è che questi fondamentali problemi umani vengono affrontati molto presto nella vita, e alcuni tentativi iniziali di risolverli sono inficiati da strumenti e conoscenza del mondo limitati. Inoltre, di fronte a eventi traumatici, i primi tentativi di soluzione tendono a cristallizzarsi e opporsi al cambiamento. In questa prospettiva, le reazioni iniziali sono dei tentativi di adattamento abbastanza efficaci, considerando i limiti dell’ambiente e delle capacità individuali, ma danno spesso vita a una fuga imperfetta dal trauma.

    Lo studio di Solomon e Wynne (1954) ha documentato la fortissima resistenza all’estinzione di una reazione appresa in un paradigma condizionante di fuga. In questi esperimenti, dei cani imparavano a sottrarsi a una scarica elettrica se questa veniva in qualche modo segnalata. Una volta stabilita, questa reazione di fuga non cessava più, e veniva riproposta in tutte le situazioni analoghe (ogni volta, cioè, che si ripresentava il segnale, indipendentemente dal fatto che fosse o meno succeduto dalla scossa). Fu abbandonata solo quando i cani vennero riportati nella gabbia originaria e con un forte grado di resistenza ed emozionalità. La rigidità di soluzioni create in questo modo può spiegare il carattere e la psicopatologia degli esseri umani che si affidano a una psicoterapia. Spesso le persone devono imparare che lo shock è stato eliminato, e le loro originarie soluzioni di fuga non sono più necessarie.

    Il modello caratterologico-evolutivo è particolarmente efficace come mappa cognitiva di questa realtà, perché offre una soluzione a uno dei conflitti basilari della teoria psicanalitica. Questo conflitto è stato descritto nel modo migliore da Greenberg e Mitchell (1983), che sostengono la fondamentale inconciliabilità tra la classica teoria pulsionale della psicoanalisi, che postula la derivazione dei conflitti inconsci dalle pulsioni istintuali e dalle inibizioni sociali, e il modello interpersonale, che considera tutti i contenuti psichici di derivazione interpersonale. In quest’ottica, il conflitto dinamico tra due o più aspetti interiorizzati di una persona deriva da altri individui della matrice interpersonale.

    L’attuale modello analitico del carattere comprende il riconoscimento delle pulsioni istintuali primarie, come la sessualità e l’aggressività, ma assegna identica importanza alla risposta ambientale agli impulsi e ai bisogni dell’individuo. Fatto ancora più importante, questa teoria asserisce che la definizione del carattere, e della risultante psicopatologia, deriva anche dai modi individuali di gestire la naturale reazione organismica alle frustrazioni ambientali dei bisogni istintuali. Quindi gran parte del carattere, e di ciò che origina la psicopatologia, è letto nei termini della complessa reazione dell’individuo alle frustrazioni dell’ambiente. Il conflitto è di derivazione interpersonale, ma si fonda su qualcosa di innato all’essere umano.

    I teorici contemporanei sono sempre più inclini a riconoscere tanto il bisogno strettamente umano di rapporti (ad esempio, Fairbairn, 1974; Mitchell, 1988; Stern 1985), quanto quello a volte conflittuale di individuazione (ad esempio, Mahler, Pine e Bergman, 1975; Masterson, 1976, 1981). Tenendo sempre presenti questi due istinti, è possibile concettualizzare efficacemente le costellazioni della personalità e della psicopatologia come derivanti dalle problematiche esistenziali della vita umana: dalla misura in cui queste vengono tollerate, frustrate o risolte e dalle reazioni dell’individuo alla loro frustrazione continua. Lo studio delle fasi evolutive, relativo non solo all’età infantile ma all’intero arco della vita umana, ci mostra tanto le differenti espressioni di ogni problematica, quanto la natura evolutiva degli strumenti a nostra disposizione nelle varie fasi della vita e degli errori e delle distorsioni, cognitive e di altro tipo, cui andiamo incontro nell’intero corso della nostra esistenza (vedi, ad esempio, Kegan, 1982).

    Questo approccio caratterologico-evolutivo offre poi ulteriori vantaggi pratici alla psicoterapia. Primo tra questi è l’effetto benefico che questa ristrutturazione terapeutica può produrre, nel terapeuta e nel paziente. Rispetto a quest’ultimo, va detto che di solito tale ristrutturazione è accettata con facilità, poiché il comportamento, gli atteggiamenti e i sentimenti problematici dell’individuo appaiono a esso stesso molto immaturi. Se presentata nel modo giusto, può avere effetti positivi sul processo di autodefinizione, stimolando compassione e comprensione per se stessi al posto dell’autodenigrazione. Come nel caso di qualunque altra operazione ermeneutica che funzioni, si ha la soddisfazione di capire il problema e, quindi, di poter esercitare su esso un certo controllo. Ma la ristrutturazione terapeutica evolutiva può fare molto di più. Nel caso in cui debbano essere acquisite nuove conoscenze e sia necessario stabilire le modalità per ottenerle, può mettere in luce ciò che non è stato ancora compreso o risolto e mostrare il contesto e i processi cognitivi necessari per la crescita e l’evoluzione.

    Questi stessi vantaggi – compassione, comprensione e controllo – toccano anche il terapeuta. Di particolare rilevanza in questo senso, è il supporto che gli forniscono nello stabilire e mantenere la distanza dalle proprie reazioni personali negative. Ad esempio, il paziente narcisista, in grado di relazionarsi solo attraverso l’idealizzazione e in definitiva la svalutazione, o usando l’altro come pubblico per la propria grandiosità, susciterà prevedibilmente reazioni non proprio terapeutiche. Ma un terapeuta che sa vedere il bambino nell’adulto e che capisce come quel modo di rapportarsi sia l’unico di cui al momento dispone, placherà le proprie reazioni e potrà trovare utili risposte. È fondamentale che il terapeuta ricordi sempre che questo modello evolutivo è, appunto, un mero modello della realtà, una sua analogia, che può sia generare sia giustificare una moltitudine di risposte terapeutiche. Infine, l’approccio caratterologico-evolutivo non solo dirige l’attenzione su alcune delle problematiche più importanti, ma offre anche un modello per la loro risoluzione.

    Nella misura in cui è esatta la nostra conoscenza dei processi basilari di risoluzione nel bambino o nell’adolescente, possiamo aiutare il paziente a comprenderli. La ricerca evolutiva su temi quali, ad esempio, le capacità percettive e la costanza dell’oggetto ha dimostrato che la capacità di percepire l’altro o di provare simultaneamente sentimenti contrastanti verso un oggetto si ottiene attraverso un certo numero di iterazioni nel corso dello sviluppo cognitivo ed emozionale. Un giovane adulto può percepire l’altro a un livello molto più sofisticato di un bambino nel periodo di latenza, che a sua volta è in grado di provare empatia a livello molto maggiore di un bambino di diciotto mesi che abbia già mostrato di avere questa capacità. Allo stesso modo, quando un paziente adulto ha bisogno di acquisire tale capacità, la sua fase di apprendimento non sarà la stessa di un bambino piccolo, di un bambino nel periodo di latenza o di un adolescente, ma alcuni dei processi basilari saranno identici. In una buona psicoterapia evolutiva, lo scambio terapeutico, i processi cognitivi e il livello di concettualizzazione saranno appropriati all’età e alla situazione, ma la conoscenza di quanto avviene in ogni interazione documentata non può che essere utile.

    La formulazione di Kohut (1971) dei transfert arcaici di fusione, gemellaggio, rispecchiamento e idealizzazione ci offre un altro valido esempio di questo processo iterativo di maturazione. Se, da un lato, questi comportamenti da transfert definiscono per Kohut il disturbo della personalità narcisistica, sono anche le fondamenta della sua concettualizzazione dello sviluppo del sé. Kohut sostiene che il bisogno di questi rapporti con l’oggetto-sé continua per tutta la vita, ma con la maturazione psicologica dell’individuo maturano anche i bisogni dell’oggetto-sé; l’individuo ha quindi bisogno di altri individui e di ideali da rispettare, di rapporti con altri simili a lui che lo ammirino eccetera. Visti in questo modo, gli effetti terapeutici di questa prospettiva evolutiva sono riparatori ma non regressivi, in quanto riconoscono la natura analogica del modello e le capacità fattuali del paziente.

    Secondo la teoria che presento in questo libro, la personalità e la psicopatologia si strutturano in specifiche costellazioni in conseguenza dell’interazione tra una gamma, ampia ma finita, di bisogni istintuali dell’individuo e la capacità o l’incapacità dell’ambiente di soddisfarli adeguatamente. Questi bisogni istintuali vanno molto al di là delle pulsioni orali, anali e falliche postulate da Freud, e includono il ben documentato bisogno dell’infante di attaccarsi o legarsi a chi principalmente lo accudisce (vedi Bowlby, 1969); il bisogno del bambino di individuazione attraverso l’esplorazione, l’attività autodeterminata e la creazione di confini psichici (Mahler, 1968); il bisogno di espressione autodeterminata (ad esempio Kohut, 1971, 1977; Lowen, 1958, 1983); e quello di un armonioso rapporto sé-altro (Kohut, 1971; Stern, 1985). Secondo questa costruzione teorica, la natura della personalità e della psicopatologia di un individuo è quindi ampiamente determinata dal tipo di frustrazioni interpersonali che egli incontra, nel corso del proprio sviluppo, quando cerca di soddisfare quei vari bisogni. La personalità e la psicopatologia sono ulteriormente definite tanto dalle sue naturali reazioni istintuali alla frustrazione quanto dai metodi che adotta per affrontare, regolare o reprimere queste stesse reazioni naturali. La scelta delle strategie adattative è inoltre determinata dalle capacità strutturali al suo livello dello sviluppo nel momento della frustrazione, e dalle eventuali manovre create o accettate dall’ambiente interpersonale. È questa interrelazione dei bisogni istintuali con l’impatto dell’ambiente interpersonale che rende questa teoria realmente integrativa.

    I teorici dell’analisi del carattere (vedi Levy e Bleecker, 1975) hanno diviso lo sviluppo del carattere in cinque stadi: 1) autoaffermazione, l’espressione iniziale del bisogno istintuale; 2) risposta ambientale negativa, il blocco o la frustrazione di quel bisogno da parte dell’ambiente sociale; 3) reazione organismica, la reazione naturale innescata in risposta alla frustrazione ambientale: di solito l’esperienza e l’espressione di un forte sentimento negativo, soprattutto di rabbia, terrore e angoscia da perdita.

    Questi primi tre stadi sono relativamente lineari. È in quelli finali che si forma il carattere. 4) Il quarto stadio è definito autonegazione. In questo modo più elaborato di rivolgersi contro se stesso, l’individuo imita l’ambiente sociale bloccando l’espressione della sua originaria pulsione istintuale e la reazione istintuale, a quel blocco. È questa identificazione che lo mette contro se stesso, gli fa interiorizzare il blocco dell’espressione del sé e origina la psicopatologia. È l’inizio di un conflitto interno, che può protrarsi per tutta la vita, tra l’irreprimibile bisogno istintuale e la reazione da un lato, e il blocco interiorizzato di bisogni e reazioni dall’altro.

    Wilhelm Reich, Alexander Lowen e altri terapeuti di orientamento energetico hanno sottolineato come i blocchi dell’espressione del sé siano letteralmente presenti nel corpo, rappresentati da una tensione muscolare cronica che può sfociare in una distorsione della postura. Questo blocco, o negazione, del sé in origine serviva a evitare il dolore e la frustrazione derivanti dall’esperienza frustrante indotta dall’ambiente. Esso continua a seguire questo scopo, e oppone quindi forte resistenza al cambiamento. Il blocco a livello fisico è semplicemente il modo dell’organismo per non sperimentare il bisogno originario e la sgradevole reazione alla sua frustrazione. Inoltre, elude l’inevitabile angoscia del sentirsi nuovamente vulnerabili e del temere la nuova ferita prevista.

    La posizione di Fairbairn (1974) è perfettamente in linea con quanto detto, e vi apporta nuovi elementi. Fairbairn ritiene che queste originarie espressioni organismiche (istinti, pulsioni libidiche ecc.) siano ricerche dell’oggetto. Se gli oggetti (gli altri) sono frustranti o bloccanti, l’individuo li interiorizza rendendoli in questo modo inconsci. Tanto le pulsioni originarie quanto quelle che Fairbairn definisce reazioni aggressive dell’individuo alla frustrazione, diventano poi inconsce. Il nuovo contributo di Fairbairn (che vedremo più dettagliatamente nel capitolo 9) è l’enfasi sui rapporti inconsci e fissi con l’oggetto interno che ne derivano, responsabili della conseguente psicopatologia stabilizzata e della resistenza a nuovi rapporti, alla comprensione e al cambiamento. Resistenza al cambiamento che viene opposta non solo perché esso potrebbe provocare la riemersione degli oggetti cattivi interiorizzati e degli impulsi repressi nei loro confronti (una condizione psichica intollerabile, prima causa della repressione), ma anche a causa dell’attaccamento dell’individuo a questi stessi oggetti in quanto interiorizzati. È soprattutto il bisogno che il bambino ha dei suoi genitori, per quanto cattivi gli possano sembrare, che lo spinge a interiorizzare oggetti cattivi; e poiché questo bisogno rimane legato a essi nell’inconscio, il bambino non riesce a separarsene (Fairbairn 1974).

    In altre parole, il processo di autonegazione è relazionale e totalmente personalizzato in ogni singolo caso. Le formulazioni che sottolineano le scissioni del sé e spiegano la patologia e la resistenza in termini, per esempio, di un oggetto interiorizzato che reprime l’espressione libidica, sono clinicamente molto utili. Gran parte della terapia gestaltica si basa su procedimenti che portano queste scissioni alla coscienza, le attualizzano e ne mettono in scena le interrelazioni.

    5) Il quinto e ultimo stadio della sequenza ipotizzata dai teorici dell’analisi del carattere, chiamato processo di adattamento, consiste essenzialmente nel fare l’uso migliore degli stadi precedenti. Ciò include la creazione di un numero indefinito di compromessi nel tentativo di risolvere l’irrisolvibile conflitto. È analogo alla nozione di Sullivan di manovra di sicurezza o al falso sé di Winnicott. In questa concettualizzazione, un potenziale narcisista, ad esempio, che non riesce a ottenere con le sue naturali espressioni del sé la desiderata approvazione delle persone che lo accudiscono, si identificherà con l’immagine di se stesso che queste richiedono, e farà di tutto per corrispondervi. Così facendo potrà ottenere qualcosa di vagamente simile all’armonizzazione speculare che desidera. Allo stesso tempo, eviterà il riprodursi di dolorose ferite narcisistiche, risultato della sua vera espressione del sé. A misura della sua capacità di adeguarsi o meno alle aspettative dell’ambiente, il compromesso gli sembra funzionale, e questo spiega in parte perché il narcisista davvero di successo è notoriamente difficile da cambiare.

    Il processo di autonegazione determina ciò che bisogna negare o reprimere, quello di adattamento indica cosa amplificare. Le parti del vero sé che l’individuo reprime e quelle che amplifica ne determinano succintamente il carattere come viene discusso in questo libro. La psicopatologia è relativa alla repressione, l’esagerazione o, il più delle volte, la reazione naturale dell’individuo a questo abituale, innaturale adattamento volto a evitare il dolore mantenendo nello stesso tempo il contatto.

    Gli apporti della teoria psicanalitica dello sviluppo e della ricerca evolutiva (sia quella basata sull’osservazione, alla Mahler, sia quella sperimentale, alla Stern) arricchiscono e aggiornano continuamente questo modello dello sviluppo del carattere. Queste fonti forniscono dati sull’esatta natura dell’originaria espressione organismica del sé (gli istinti) e ne documentano la prima apparizione nell’osservazione oggettiva e nella ricerca sperimentale. Inoltre, classificano le frustrazioni socio-ambientali e le reazioni a esse da parte del neonato o del bambino. Descrivono infine le capacità e incapacità strutturali che si stabiliscono in tutto l’arco della vita e forniscono gli strumenti di base per i processi di autonegazione e di adattamento. Benché contengano entrambe una mescolanza di fatti empiricamente rilevati e di teoria induttiva e deduttiva, queste fonti presentano una significativa convergenza riguardo ai processi fondamentali, nonostante l’apparente disaccordo sulla loro collocazione temporale e i dibattiti su ciò che è innato e ciò che è appreso. Inoltre, i fatti empiricamente derivati dai dati forniscono, senza bisogno di troppe interpretazioni, solide fondamenta alla teoria caratterologico-evolutiva.

    La prospettiva della psicologia dell’Io può essere utile, anche solo a livello descrittivo, perché ci aiuta a concepire un continuum psicopatologico. Assieme ad altri studiosi di questo campo (ad esempio, Masterson, 1976, 1981; Meissner, 1988), ho suggerito uno spettro di psicopatologie basilari. Ritengo che la dimensione centrale soggiacente a questo spettro comprenda la funzionalità strutturale (spesso chiamata Io) dell’individuo. Questo modello postula che la stessa fondamentale problematica caratterologica soggiacente possa essere espressa lungo tutto questo spettro.

    Come altri hanno studiato personalità borderline o narcisistiche ad alto, medio o basso grado di funzionalità, io ho suggerito una demarcazione di tipo simile per altre dimensioni caratterologiche. Poiché ritengo che queste dimensioni caratterologiche riflettano le problematiche esistenziali, questa categorizzazione rifletterà il grado di disfunzionalità psichica e comportamentale in relazione a ogni problematica. Ritengo che si possano capire meglio le persone in relazione a queste problematiche esistenziali, riconoscendo che possono agire a livelli diversi di integrazione strutturale a seconda del problema cui sono di fronte. Ad esempio, una persona che agisce solitamente a un alto livello di integrazione può sperimentare diversi gradi di disintegrazione o regressione se sottoposta a minacce alla sicurezza o all’autostima, a minacce di abbandono da parte dell’altro e così via. Questo modello è vicino a quello di Gedo e Goldberg (1973), secondo il quale differenti modelli della mente psicanalitici vanno applicati alla comprensione di tipi diversi di funzionalità psicopatologica.

    La Tavola 1 fornisce al riguardo la mappa più completa che ho potuto rinchiudere nei limiti di una tabella. Ogni problema caratterologico è classificato in uno dei tre periodi di sviluppo considerati dalla ricerca e dalle teorie evolutive: attaccamento/legame, sviluppo del sé e dell’altro e sviluppo del sé in sistema. Vengono riassunte le sei problematiche fondamentali e le loro rispettive espressioni nel comportamento e negli atteggiamenti. Nella parte destra della tabella è illustrato il continuum dello sviluppo strutturale suddiviso in tre punti: disturbo della personalità, nevrosi del carattere, e stile del carattere. Il continuum riflette una disgregazione discendente della funzionalità della struttura o dell’Io, riferita specificamente a quel particolare problema caratterologico.

    Se consideriamo ad esempio la problematica schizoide (la sicurezza), il disturbo della personalità al suo massimo grado sarà caratterizzato da un livello estremamente basso di sviluppo strutturale e da alta disgregazione della funzionalità, soprattutto in relazione a problemi di coinvolgimento sociale, sicurezza e regolamentazione affettiva armoniosa, con una tendenza verso un uso estremo della dissociazione e della regressione in difesa dal coinvolgimento minaccioso. Il disturbo schizotipico della personalità e le psicosi funzionali appariranno anche nella colonna del disturbo della personalità, evidenziando gravi disgregazioni della funzionalità dell’Io soprattutto in relazione a quel tipo di problemi.

    Tutti i disturbi della personalità sono caratterizzati da un bassissimo livello di tolleranza, e dalla difficoltà a gestirne un qualsiasi aumento, nei confronti di molti stati affettivi: angoscia, frustrazione, aggressività, paura della perdita, amore, intimità e così via. In reazione a questa difficoltà, gli individui con disturbi della personalità tendono a difendersi usando l’arma primaria della scissione. Nel caso dello schizoide questa può prodursi al livello più primitivo e globale, con l’individuo che si divide in modo dissociativo dall’esperienza attuale rifugiandosi in una condizione completamente differente. Ma, come nel disturbo della personalità narcisistico o simbiotico, può prodursi anche una scissione dell’altro o del sé più specifica e di grado superiore, che include un’unica, e in genere estremistica, percezione dell’altro, di sé o della vita stessa. L’esperienza dissociata, o fatta di estremi dissociati, protegge dallo stress di elaborare una percezione più adulta e composita, una comprensione integrata e un’esperienza delle cose così come sono. Quindi, un individuo affetto da un disturbo della personalità può idealizzare o sminuire l’altro, oppure considerare se stesso come onnipotente o inutile. Inoltre, queste percezioni estreme possono oscillare da un polo all’altro nello stesso individuo.

    Un’altra difesa comunemente associata al disturbo della personalità è la proiezione. In questo caso la difficoltà di contenere l’emozione è proiettata sugli altri, affinché non ci sia più bisogno di sperimentarla internamente. Discorso analogo può essere fatto per la fusione con gli altri, con la quale si produce una gradevole apparenza di unità, finché l’illusione può essere mantenuta e a meno che non coesistano fusione e proiezione. In quest’ultimo caso, i sentimenti proiettati diventano ancora più minacciosi e richiedono una difesa aggiuntiva per il fatto che ci si continua a identificare con essi sino al punto di sperimentare la legittimità del loro essere rivolti al sé. Questa condizione viene definita identificazione proiettiva, e al suo verificarsi l’individuo metterà in atto comportamenti difensivi nei confronti della minaccia percepita, tendendo molto spesso a controllare se stesso e gli altri e a provocare la stessa reazione che ha proiettato.

    Mentre tutti i disturbi della personalità condividono questa basilare struttura primitiva o immatura, che Kernberg (1967) ha definito organizzazione borderline della personalità, i diversi stili di carattere indicano gli specifici problemi con elevate probabilità di esser soggetti a scissione, proiezione, fusione, identificazione proiettiva, ecc. nonché lasciano prevedere i modi specifici in cui si esprimeranno.

    Oltre che a questa struttura difensiva, il disturbo della personalità è spesso associato a un danneggiamento dell’interiorizzazione dei valori o dello sviluppo della coscienza. Tra queste difficoltà può esservi una mancanza, o quantomeno un indebolimento, del senso di colpa da un lato, o un’autopunizione per offese reali o immaginate eccessiva e sadica dall’altro.

    Infine, il disturbo della personalità è spesso associato alle storie interpersonali più difficili, che vanno dall’infanzia fino alla vecchiaia. I rapporti, soprattutto quelli intimi, possono essere inesistenti, molto limitati, o cronicamente disfunzionali. Per quanto riguarda i rapporti con l’oggetto, tutte le relazioni diventano ripetizioni di quelle che hanno creato la difficoltà originaria. Finché le rappresentazioni interne degli altri e del sé non vengono risanate, permettendo così il raggiungimento della maturità delle difese e della capacità di far fronte ai problemi, il futuro sarà sempre una ripetizione del passato.

    I fini della terapia, o di qualsiasi programma di crescita per l’individuo con disturbi della personalità, sono dunque la maturazione e l’integrazione. Comprensione, catarsi, abreazione, ristrutturazione cognitiva o comportamentale – tutto ciò a cui possiamo pensare – non saranno sufficienti se la struttura basilare interna non è maturata e se le polarità che determinano lo stile del carattere non sono integrate.

    A livelli intermedi di sviluppo strutturale, tornando al caso della personalità schizoide, si hanno molte probabilità di incontrare il comportamento più tipico del disturbo della personalità dal DSM-IV definita evitante. Si tratta di un abuso del ritiro sociale come difesa, con alcune dissociazioni cognitive e affettive, soprattutto di fronte a stress sociale, ma non si riscontra una grave disfunzionalità strutturale, soprattutto al di fuori di quest’area specifica. Ciò che definisce questa nevrosi intermedia del carattere è un conflitto interno durevole e dall’effetto disgregante che produce un comportamento nevrotico. Nella

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