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Domande Frequenti
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E-book328 pagine4 ore

Domande Frequenti

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Info su questo ebook

Domande Frequenti 

Due migliori amici. Una biblioteca segreta e un amore che risuona come due chitarre elettriche a tutto volume.

Sam e Jace si conoscono durante l’ultimo anno di scuola, un tempo in cui il mondo è un luogo ostile per loro. Diventano amici e, nel giro di poco tempo, le loro vite si intrecciano, completandosi a vicenda. In questo viaggio alla scoperta dei sentimenti, i due cercano di non abbandonare i loro sogni e di non farsi abbattere dalle ingiustizie della vita. Lui sogna di vivere della sua musica, lei di mantenere la sua famiglia al sicuro. 

Domande Frequenti è una montagna russa di emozioni, una storia che tratta le preoccupazioni e le paure che si affrontano durante l'adolescenza, una storia d'amore e di amicizia, che ricorda ai lettori dei loro anni d'oro.

"La scuola somiglia molto ad un'apocalisse zombie. Devi sapere di chi puoi fidarti e stare sempre all'erta, se vuoi sopravvivere. La mia migliore amica, Sam August, la prende molto sul serio. Il mio nome è Jace e questa è la storia di come sia sopravvissuto ad un'apocalisse zombie (il mio ultimo anno di scuola), di come abbia messo su una band, firmato un contratto con una casa discografica e poi rovinato tutto durante il mio primo concerto. Non ti preoccupare, non è così triste come sembra."

LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2022
ISBN9781667414737
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    Anteprima del libro

    Domande Frequenti - Emiliano Campuzano

    DOMANDE FREQUENTI

    UN ROMANZO DI EMILIANO CAMPUZANO

    1

    Non importa quello che ti dirà Samantha August: l’apocalisse zombie iniziò come un giorno qualunque.

    Era un lunedì mattina e io ero nuovo in città. Camminai un po’ nervoso attraverso i corridoi gelati della mia nuova scuola verso il primo giorno del mio ultimo anno. Indossavo una felpa leggera e un paio di jeans strappati che non aiutavano per niente a mantenere la temperatura corporea; tra i brividi mi accorsi che ero ancora mezzo addormentato. Dovevo arrivare all’aula 405 e, nonostante mi facessero un po’ male le articolazioni a causa del vento, camminai più veloce che mai per rendere più breve il lungo lasso di tempo che mi aspettava.

    Una volta arrivato in aula non trovai niente di nuovo. Tutti avevano già il proprio gruppo di amici e questi gruppi erano sparsi per la stanza e per il corridoio gelido. Entrai facendomi spazio tra la gente e, senza pensarci troppo, lasciai lo zaino all’ultimo banco, nell’angolo destro, vicino alla finestra. Mi misi a sedere.

    Mi guardai intorno per analizzare quelli che sarebbero stati i miei compagni di classe nei successivi dodici mesi: di nuovo, niente di sorprendente. I ragazzi ricchi parlavano con le ragazze carine e in particolar modo attirò la mia attenzione un ragazzo viziato che indossava una cintura che gli sarà costata cinquecento dollari e dei mocassini che sicuramente valevano più di tutti i miei vestiti messi insieme; raccontava del suo viaggio a Monaco e stava con altri tre ragazzi e due ragazze bellissime che non sembravano per niente arroganti quanto lui.

    Non ci misi molto ad alzare gli occhi al cielo e presto sentii il loro sguardo collettivo su di me, ma un po’ meno cordiale, ammesso che il mio lo fosse; loro emisero una risatina stupida e io feci meglio a girarmi verso la finestra per evitare il conflitto. Trovai tanti altri gruppetti come quello e senza volerlo mi preoccupai del fatto che forse, di nuovo, non mi sarei affatto integrato.

    Passai un paio di secondi a guardare i miei nuovi compagni, quando, all’improvviso, dovetti smettere perché una voce, per due parti dolce e una profonda, invase la parte sinistra della mia testa. La ragione per cui questa storia esiste nacque in quel momento.

    — Sarà un anno lungo, vero?

    — Sembra di sì — mi voltai e mi ritrovai davanti una ragazza che... Be’, a prima vista non sembrava per niente una ragazza: aveva i capelli più corti dei miei, dello stesso colore nero, e non era truccata, ad eccezione di un gloss con brillantini che aveva sulle labbra; non era convenzionalmente femminile e, se non mi sbaglio, indossavamo la stessa felpa.

    — Sì, di solito faccio questo effetto la prima volta — rispose ridendo, immagino che la mia espressione fu tale che lei dovette rompere il ghiaccio in questo modo.

    — Mi dispiace — volevo scusarmi ma mi pentii nel momento stesso in cui capii che facendolo ammettevo di aver pensato quello che lei sapeva, e quello che lei sapeva non era per niente educato.

    — Non devi scusarti — rise un’altra volta.

    La ragazza lasciò il suo zaino nel banco davanti a me e tirò fuori un cappellino di lana rosso, se lo mise e mi sorrise. Lei era decisamente strana, ma lo ero anche io e quindi scattò qualcosa.

    — Sono Sam, non Samantha, solo Sam, Sam August — disse, sedendosi sul mio banco —. E tu?

    — Jace, Jace Griffin — risposi un po’ più a mio agio.

    — E la K? Che significa? Jace K. Griffin — chiese, sistemandosi i suoi pochi capelli sotto il cappellino.

    — Come cavolo...? — chiesi sorpreso.

    — Sono una strega, no, sto scherzando, è scritto sul tuo zaino, Jace K. Griffin — scherzò, guardandomi.

    — Non è niente — risposi chiudendomi un po’.

    — Dai, dimmi come ti chiami. Non lo dirò a nessuno e poi qui nessuno sta morendo dalla voglia di saperlo, oltre a me — disse. Aveva ragione.

    — Katherine — risposi.

    — Non è un nome da femmina? — lei rise e io mi arrabbiai un po’.

    — No, non lo è — risposi. Sì, lo era.

    — Certo che lo è, però è carino, mi piace, Kate — disse Sam.

    — Non chiamarmi Kate.

    — Non si torna indietro, Kate — rise e scese dal mio banco.

    Forse era una coincidenza ma il mio nome non suonava così male con la sua voce e, per un istante, non lo odiai così tanto. La prima lezione di quel semestre fu Matematica e il professore era Max, una specie di «prodigio» (secondo lui) di ventisette anni che guardava le ragazze quando andavano alla lavagna e che voleva essere amico dei ragazzi «cool» facendo battute bruttissime. Lo analizzai e, valutando la situazione, mi dedicai a scambiare bigliettini di carta con Sam, anche se in realtà non ci dicevamo niente di che; a volte si voltava indietro con la testa per sorridermi.

    La lezione successiva fu Francese e poi Letteratura; durante Letteratura mi addormentai e, prima che suonasse la campanella, Sam mi svegliò.

    — Ti avrei lasciato dormire ma è il primo giorno e, proprio come durante un’apocalisse zombie, è meglio restare uniti — disse Sam e io mi misi un po’ a ridere —. Dai, svegliati!

    — Arrivo, arrivo — dissi, ancora sonnecchiando.

    — Tieni, mettiti la mia sciarpa, ti sei appena svegliato — mi disse Sam prendendo una sciarpa dal suo zaino, che sembrava contenesse tutto tranne quaderni e penne.

    — Grazie, ma non...

    — Sì, mettitela, Kate — rise e si fermò sulla porta.

    — Non chiamarmi Kate — dissi sottovoce.

    Uscii dall’aula con lei e scendemmo i tre piani per raggiungere la base dell’enorme campus e, con noi, altre centinaia di ragazzi e ragazze, la maggior parte dei quali rientrava nello stereotipo che avevo analizzato prima.

    — Non credi che criticarli senza neanche sapere i loro nomi ti renda tanto superficiale quanto loro? — disse Sam, un po’ distratta.

    — No — risposi un po’ sorpreso, non l’avevo mai pensata in quel modo.

    — Scusa — si girò per guardarmi mentre camminavamo verso la caffetteria —. A volte non filtro quello che dico, esce e basta...

    — Sì, ho notato, non preoccuparti — risposi abbracciandomi, mi facevano male le dita a causa del vento.

    Attraversammo il campo da football, quello da basket e arrivammo finalmente alla caffetteria, che a causa del freddo era pienissima.

    — Non ho neanche fame — disse Sam —. E tu?

    — No, nemmeno io — risposi.

    — Vieni, lì c’è un posto — disse la ragazza camminando verso un tavolo già occupato.

    — Penso che sia occupa...

    Sam si mise a sedere senza chiedere niente e si limitò a fissare il gruppo di ragazzi accanto a lei; dopo neanche cinque secondi se ne andarono, lasciando libero il tavolo.

    — To — conclusi la mia frase.

    — Non più — disse Sam —. Vieni, siediti. Raccontami qualcosa su di te, Kate.

    Sam era l’eccezione: della massa uniforme di persone che si disperdeva per il campus, lei era la più genuina e, nonostante avessi provato ad analizzarla come facevo con tutti, avevo più domande che risposte.

    — Allora...

    — Oltre al fatto che hai un nome da femmina — scherzò lei.

    — Anche Sam è un nome da maschio — contrattaccai.

    — Ti sembra che mi importi qualcosa? — disse ridendo, per un istante pensai di averla offesa. — Esatto — non era così.

    Touché? — risi.

    — Sì — Sam sorrise un po’ e mi seguì —. Inizio io. Ho diciassette anni e mi sono appena trasferita qui con mia madre che ha appena divorziato, i miei colori preferiti sono il rosa e il verde, mi piace molto leggere e amo i film horror. Da piccola, ho sempre voluto diventare pilota di aerei e, anche se so che pensavi che fossi un ragazzo quando mi hai vista per la prima volta, sì, Kate, sono una ragazza. Troppe informazioni?

    Sì.

    — No — mentii —. Anche io ho diciassette anni e faccio schifo nello sport, mi piace il rock britannico e i film in generale.

    Cool — mi interruppe Sam.

    — Il mio colore preferito è il blu, credo, anche io sono nuovo in città, sono nato in California, nel Maryland. Vivo con i miei genitori e mia cugina, che è venuta qua insieme a noi per studiare al college. Da grande voglio avere una band e diventare famosa e il mio sogno è dedicarmi a suonare la chitarra e scrivere canzoni.

    — Scrivi canzoni? — Sam mi interruppe un’altra volta.

    — Be’, no, ancora no. Non è così facile.

    — Ci credo.

    — Non ho pensato che fossi un ragazzo quando ti ho vista.

    Sam alzò un sopracciglio e annuì con un sorriso incredulo.

    — No, certo che no — disse con sarcasmo.

    — Seriamente — risposi.

    — Davvero, non c’è problema — finì Sam —. Me lo dicono tutti, anche mia mamma. Mi piacciono i miei capelli, ci mettono meno ad asciugarsi.

    — Suppongo tu abbia ragione — risposi.

    — Oh, mi sono dimenticata di dirlo, faccio troppe domande — annuì con la testa e si mise a pensare —. E sono anche un po’ impulsiva.

    — Sì, l’ho notato.

    — Tu sei più freddo, è una bella cosa — disse Sam.

    — Ah, sì?

    — A volte, dipende da quale risultato stai cercando di ottenere.

    Prima che io potessi accorgermene, la campanella suonò di nuovo, però questa volta non saremmo stati nella stessa classe: io sarei andato a Musica e lei ad Arte. Ci salutammo per quelle due ore e ci incamminammo verso le nostre rispettive aule.

    A Musica c’erano pochi alunni: una ragazza un po’ bassina con i capelli ricci che, come me, sembrava non avere molti amici; un ragazzo con un cappellino snapback che, si vedeva da lontano, era un batterista; due ragazzi alla tastiera e ovviamente non poteva mancare il bassista, solo che in questo caso era una ragazza e in particolare una ragazza coreana che sapeva poco la nostra lingua e che, come me, era nuova.

    Il nostro professore si chiamava Gerard, era un rockettaro di professione, laureato in una prestigiosa università, trasudava talento da tutti i pori e aveva tatuaggi quasi su tutto il corpo. Mi domandai come una persona così fosse finita a fare il professore in una scuola pubblica ma, prima che potessimo chiedergli qualcosa, andò dritto al punto, dandoci qualche indicazione su come suonare una cover di «Seven Nation Army», una canzone così famosa che chiunque può suonarla pur non avendo nessuna esperienza nella musica. A un paio di aule di distanza, riuscivo a vedere quella di Sam.

    Gerard ci spiegò che il progetto del semestre sarebbe stato suonare durante il concerto di Natale, ci dette una lista di canzoni e ci lasciò scegliere il resto di esse durante l’anno: iniziava a piacermi, quel corso.

    Il batterista si chiamava Chris; i tastieristi non parlarono mai e non menzionarono mai i loro nomi, però si assomigliavano molto, per cui dedussi che fossero gemelli; la ragazza bassina cantava benissimo e si chiamava Bianca; la bassista si chiamava Bora ed era incredibilmente brava a dare il ritmo. Ci divertimmo un po’ a provare la canzone.

    Quando la lezione finì, andai a prendere Sam nell’aula di Arte e, non chiedetemi il perché, ma dicono che nell’arte che fai esprimi chi sei davvero, per cui dato che non riuscivo ad analizzarla morivo dalla voglia di vedere quello che aveva dipinto. Mi sorprese per davvero.

    — E... Che cosa è? — domandai.

    — Oggi — rispose Sam chiudendo un po’ gli occhi e guardando il suo dipinto.

    Il quadro sembrava essere stato attaccato da un gruppo professionista di paintball... Praticamente c’erano centinaia di pennellate senza simmetria né senso apparente, più o meno come in un Pollock.

    — Cioè?

    — Non lo so, è successo e basta — rise Sam —. Potremmo metterlo in un museo e venderlo per cinque milioni di dollari. No?

    — Sì — mi fece ridere, era vero —. Pensavo che avresti fatto qualcosa di più...

    — Normale? — mi interruppe Sam, facendo una smorfia —. Mi sforzo troppo per allontanarmi da tutto ciò che è normale, non avrebbe senso seguire l’istruzione di disegnare un semplice fiore, che era il compito di oggi.

    — Sì, se vuoi passare gli esami — urlò la professoressa dalla sua tela personale.

    — È un fiore surreale! — rispose Sam.

    — Davvero? — le chiesi.

    — L’arte è soggettiva, Kate.

    — Jace.

    — Katherine.

    Ci sorridemmo per un secondo. A quanto pare, avevo trovato qualcuno di cui fidarmi il primo giorno e non mi sentivo più nervoso, non che prima lo fossi stato...

    — Quindi... Amici, Kate? — chiese Sam come se non ne fosse ancora sicura.

    — Amici, Samantha — risposi.

    — Sam — mi corresse.

    — Samantha.

    — Katherine.

    2

    Durante l’intervallo del terzo giorno stavo cercando Sam per andare a pranzare insieme quando lei mi sorprese da dietro la schiena.

    — Kate — rise.

    — Jace... — la corressi. Sam aveva con sé una ragazza timida che forse avevo visto nella caffetteria il primo giorno.

    — Ti presento Becca. Becca, lui è Kate.

    — Mi chiamo Jace, piacere di conoscerti — salutai Becca.

    Becca sembrava quel tipo di ragazza che non dice molto ma, se prende confidenza, non la smette più di parlare; si vedeva anche che le piaceva studiare, aveva la scintilla da nerd che caratterizza quelle persone e, proprio per questo, mi piacque abbastanza.

    — Becca scrive poesie — disse Sam.

    — Vabbè, più o meno — la corresse lei.

    — Dai, zitta, certo che lo fai.

    — No, sul serio... — continuò Becca.

    — Sono anche bellissime — aggiunse Sam.

    — Ma se non le hai neanche lette — sospirò Becca.

    — Shh! — la zittì Sam scherzando; notai che Becca era genuinamente stranita —. Dai, vabbè, un giorno le leggerò, è uguale.

    Io, Sam e Becca ci incamminammo verso la caffetteria per poi dirigerci verso lo stesso posto in cui avevamo pranzato negli ultimi giorni. Il tavolo era occupato, come al solito, ma Sam fece quello che faceva sempre e ci riuscì un’altra volta.

    — Vero che Katherine è un nome da femmina? — domandò Sam scherzando e abbracciandomi.

    — Suppongo... — rispose Becca.

    — Per quanto continuerai con questa storia? — chiesi.

    — Per sempre — disse.

    Avrei dovuto sapere che faceva sul serio.

    — Siete fidanzati? — domandò Becca.

    — No, no — dicemmo io e Sam all’unisono.

    — Siamo — continuò Sam.

    — Amici, ci siamo appena conosciuti — terminai la nostra frase.

    — Oh, è che andate così d’accordo — disse Becca.

    — No, no, lui è praticamente una ragazza — scherzò Sam.

    — E lei un ragazzo — contrattaccai io.

    — Finirete per fidanzarvi — affermò Becca.

    — No — negò Sam.

    — In nessun caso — dissi io.

    Becca rise.

    C’era la lezione di Musica e, per Sam, quella di Arte, quindi ci salutammo e andammo verso le rispettive aule. Gerard stava già organizzando gli altri per provare e arrivai giusto in tempo per suonare la chitarra. Bianca stava facendo pratica con una canzone dei Radiohead e noi la seguimmo; fu in quel momento che nacque la mia band.

    Suonammo ancora un paio di canzoni per il concerto di Natale che Gerard stava organizzando e alla fine della lezione Chris si avvicinò a me.

    — Jace. Giusto?

    — Giusto — risposi io, lui rise.

    — Suoni davvero bene la chitarra.

    — Grazie mille — risposi.

    Stavo per uscire dall’aula quando notai che Becca e Sam si erano avvicinate alla finestra. Sam entrò.

    — Suonate qualcosa! — urlò Sam emozionata.

    — Sì, suonate qualcosa — continuò a bassa voce Becca —. Dai, Chris.

    — Vi conoscete? — chiesi.

    — Sì, ci siamo conosciuti il primo giorno — rispose Chris.

    — Che coincidenza! Anche io e questa ragazza ci siamo conosciute il primo giorno. Vero, Kate? — disse Sam scherzando e volendomi abbracciare; io mi tolsi.

    — Be’, noi due anni fa — corresse Chris.

    — Dai, suonate qualcosa — disse Becca.

    Chris mi guardò invitandomi a dare loro ciò che chiedevano e mi resi conto che non avevo scelta, quindi ricollegai la mia chitarra e invitai Bianca.

    — Ma me ne stavo andando... — affermò lei.

    — Dai, solo una canzone, poi basta — disse Chris da dietro la batteria, già pronto.

    — Ok, ma deve essere «Creep» — rispose Bianca, prendendo il microfono dell’aula.

    Bora se n’era andata, così come i gemelli, quindi rimanevamo solo noi per suonare; Sam si mise a sedere su una sedia al contrario e appoggiò la testa fra le mani, emozionata. Becca rimase ferma a guardare.

    — Ok, uno, due, tre e... — iniziammo a suonare.

    Nonostante non avessimo armonia né basso suonavamo abbastanza bene, ad essere sinceri.

    Sam applaudì e corse ad abbracciarmi.

    — Niente male, Katherine — sorrise Sam.

    — Me ne vado — urlò Bianca, spegnendo il microfono; ci salutammo con la mano.

    — Chiamami Jace, Sam.

    Sam mi fece pressione sul naso con un dito mentre scuoteva la testa.

    — Dovreste creare una band — commentò Becca.

    — Lì volevo arrivare — interruppe Chris.

    — Eh? — domandai.

    — E se mettessimo su una band? — chiese Chris.

    La verità era che avevo sempre voluto avere una band, quindi accettai subito.

    — Mi sembra fantastico! — commentai.

    Io, Sam e Becca stavamo per uscire dall’aula, quando Chris ci gridò da dietro.

    — Scusate... — ci voltammo —. Posso venire con voi? — chiese Chris.

    — E George? E i tuoi amici? — chiese Becca sorpresa.

    — Abbiamo litigato — rispose Chris a voce bassa.

    — Ho capito.

    Finalmente avevo l’occasione per analizzare Chris: era un ex ragazzo cool bandito dal suo regno che ora non sapeva dove andare; era estroverso e sembrava quel tipo di persona che se la fai arrabbiare ti riempie di botte, ma sembrava anche un bravo ragazzo; le sue intenzioni erano buone e, ora che era il mio batterista, mi fidavo di lui. All’inizio pensai che guardava molto Sam, poi mi venne in mente che forse stavo esagerando.

    Camminammo tutti e quattro verso la caffetteria per il secondo intervallo e ci sedemmo nel nostro posto.

    — Bene, ora abbiamo una buona squadra per l’apocalisse zombie — disse Sam.

    — Apocalisse zombie? — chiesero Becca e Chris.

    — Le piace lo scenario — la difesi. Sam rise.

    Chiacchierammo trenta minuti dei gusti musicali di tutti, di come Becca ascoltasse solo folk e di Chris che era fan del rock degli anni Ottanta, di me che non ero mai andato a lezione di chitarra e di come Sam stesse morendo di fame nonostante non smettesse mai di mangiare.

    Chris iniziò a parlare un po’ di quello che aveva in mente.

    — Quindi... — si portò alle labbra un boccone del panino —. Mio papà ha comprato un laptop per registrare.

    — Per registrare? — domandai.

    — Sì, sì — continuò Chris —. Volevo registrare un disco ma faccio schifo in qualsiasi altra cosa che non sia la batteria.

    — Con quella sei bravo — risposi.

    — Molto bravo — accettò —. Però nel resto no. Quindi, ti ho sentito e ho detto «È ora», stavo pensando al rock, ma, sai, un po’ più moderno.

    — Sintetizzatori?

    — Sintetizzatori, ritmi con più groove, più semplice — continuò —. Credi che Bianca voglia entrare?

    — Credo di sì — risposi —. Non abbiamo niente da perdere, chiediamoglielo.

    — Forse hai ragione — Chris rise —. È bella. Le belle ragazze portano pubblico —sottolineò Chris.

    — E io? — si intromise Sam.

    — Tu niente — scherzai, lei mi colpì il braccio.

    — Kate scrive canzoni — disse Sam mentendo.

    — Scrivi canzoni?! — domandò Chris.

    — No — abbassai il cappellino a Sam —. Vorrei, però non è così facile.

    — È facile — commentò Becca —. Almeno scrivere il testo.

    — Questo è perché sei una poetessa — rispose Chris.

    — Però è vero che sei bravo con la chitarra, Kate — disse Sam, alzandosi il cappellino.

    — Mi è venuta in mente una cosa — disse Chris sicuro di sé.

    Suonò la campanella e andammo verso le nostre aule per fare lezione, quelle due lezioni non le condividevo con Sam e, anche se pensavo che mi sarei un po’ riposato da lei, la verità è che mi sembrarono eterne. Mi addormentai durante la seconda lezione e mi svegliai perché il professore mi chiamò. Forse non era così strano che mi sentissi molto più a mio agio del giorno prima.

    Avevo già analizzato tutti i miei compagni e, anche se per la maggior parte erano ragazzini viziati, ce n’erano alcuni con cui potevo parlare e scherzare di tanto in tanto.

    All’uscita, mia madre aveva fatto tardi quindi camminai verso le scale e mi misi ad aspettarla. Allora guardai verso l’alto e trovai Sam, con il suo cappellino, aspettando al piano di sopra. Salii e tirai lo zaino accanto a lei; si spaventò per il rumore.

    — Che fai? — chiesi.

    — Ho perso l’autobus — rispose Sam annoiata —. Vieni, fammi compagnia.

    Mi sedetti con lei.

    — Apocalisse zombie? — chiesi.

    — Mi piace il panorama — rispose.

    — Lo scenario — la corressi. Lei rise.

    — Lo scenario, sì. Non lo so, suona bene, è come dire alle persone che affideresti loro tutta la tua vita in una situazione di caos.

    — Affidi la tua vita a gente che hai appena conosciuto? — domandai.

    — Perché no? — dubitò lei.

    Annuii con la testa.

    — Potrei iniziare a enumerare ragioni...

    — Be’, forse a te sì — mi interruppe.

    La guardai e mi sorrise.

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