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TVB. Ti Voglio Bene
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E-book297 pagine3 ore

TVB. Ti Voglio Bene

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Numero 1 negli Stati Uniti

Dall'autrice del bestseller Quanto ti ho odiato

Sonny Ardmore è una bugiarda ineguagliabile. Da sempre si inventa bugie per nascondere che suo padre è in prigione, e adesso racconta in giro che sua madre l’ha cacciata di casa. Ogni notte si intrufola di nascosto in casa della sua migliore amica con la scusa di non avere altro posto dove andare a dormire.
Amy Rush è l’unica persona con cui Sonny condivide segreti, vestiti e anche la sua nemesi, all’anagrafe Ryder Cross. Ryder è appena arrivato alla Hamilton High School e ha tutta l’aria di essere uno di quegli insopportabili fighetti snob. Ma ha un punto debole: Amy. Così, quando il ragazzo scrive un’email a Amy chiedendole di uscire, le due amiche colgono la palla al balzo per fargli uno scherzo indimenticabile. Ma senza volerlo, Sonny finisce per chattare con Ryder tutta la notte, e arriva alla terribile conclusione che forse potrebbe addirittura piacerle. C’è solo un piccolo problema: Ryder è convinto che quella con cui sta chattando sia Amy. Sonny questa volta dovrà inventarsi un piano geniale per far capire a Ryder che è lei la ragazza dei suoi sogni, e la cosa si rivela davvero più complicata di quanto pensasse…

Il nuovo, spumeggiante romanzo di Kody Keplinger 

«Ben scritto, irriverente, un romanzo sincero.»
Publishers Weekly

«I personaggi della Keplinger sono irriverenti, credibili, e con una gran voglia di divertirsi. Il divertimento è assicurato.»
Kirkus Reviews

«Mi sono innamorata di Ryder, e adesso come faccio?»
Kody Keplinger
È nata e cresciuta in una piccola città del Kentucky. Dal suo bestseller di esordio, Quanto ti ho odiato, è stato tratto il film L’A.S.S.O. nella manica. Vive a New York, scrive a tempo pieno e insegna in workshop di scrittura.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2016
ISBN9788854196179
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    Anteprima del libro

    TVB. Ti Voglio Bene - Kody Keplinger

    1

    Io, Sonny Elizabeth Ardmore, con la presente confesso di essere un’ottima bugiarda.

    Non è un traguardo a cui abbia mai aspirato, ma piuttosto un talento a cui non ho potuto sottrarmi. Ho iniziato con le bugie sui compiti a casa – riuscivo davvero a convincere gli insegnanti che il mio cane se li era divorati – con tanto di lacrime finte e quant’altro, se necessario. Poi ho cominciato a raccontare bugie sulla mia famiglia: mio padre era un uomo d’affari che viaggiava in tutto il mondo, non un ladro, uno sfaticato, che era stato sbattuto in galera quando avevo sette anni. E alla fine, mi ero messa a mentire anche su tutto il resto.

    Ma per quanto sia un’ottima bugiarda, ultimamente le bugie non mi hanno portato ottimi risultati. Quindi, sia messo a verbale che stavolta dirò la verità. Tutta. Per filo e per segno. Anche se fa male, e molto.

    Racconto bugie perlopiù nelle giornate no, e quel venerdì in cui, dopo sei lunghi anni, il mio cellulare – uno di quei vecchi, sgraziati mattoni con la tariffa a consumo e nient’altro che suonerie polifoniche – decise di smettere di funzionare, fu davvero una giornata no.

    A un certo punto, durante la notte, il cellulare aveva cessato di dare segni di vita – una morte serena e tranquilla – privandomi della mia solita sveglia alle cinque del mattino. Mi svegliai solo quando il telefono di Amy (ovviamente uno smartphone, il modello più nuovo e costoso sul mercato) cominciò a ululare, imitando in modo fin troppo realistico la sirena dei pompieri.

    Mi sollevai di scatto, con il cuore che sembrava un martello pneumatico, mentre accanto a me, dall’altro lato del letto, la mia migliore amica continuava a dormire.

    «Amy», le scossi il braccio. «Amy, spegni quell’aggeggio».

    Lei brontolò e si girò dall’altra parte. Mentre armeggiava con il telefono, la sirena continuava a ululare. Alla fine si ammutolì.

    «Santo cielo, come ti viene in mente di scegliere una suoneria del genere?», le chiesi mentre stiracchiava le braccia lunghe e sottili.

    «È l’unica che riesce a svegliarmi».

    «E a malapena ce la fa».

    Fu solo in quel momento che mi resi conto di cosa significasse quell’orribile sveglia di Amy. Mi sarei dovuta svegliare prima di lei. Mi sarei dovuta preparare e sgattaiolare via da casa sua prima delle sei, quando si svegliavano i suoi genitori. Ma il mio telefono aveva smesso di funzionare, ed erano le sei e quindici. Insomma, senza troppi giri di parole, ero spacciata.

    «Perché non racconti ai miei genitori che ieri sera, semplicemente, ti sei addormentata qui?», mi propose Amy mentre saltellavo per la stanza, tirando fuori il borsone di vestiti stropicciati che tenevo nascosto sotto il suo letto. «Non avrebbero nulla in contrario».

    «Perché poi vorranno chiamare mia madre per rassicurarla», spiegai, infilandomi una maglietta verde sui capelli disastrosamente scompigliati. «E da questo scaturirà tutta una serie di domande, quindi non se ne parla proprio».

    «Ancora non capisco perché non puoi dire ai miei genitori che tua madre ti ha cacciato di casa». Amy si alzò e cominciò a pettinarsi i riccioli scuri, che, contro tutte le leggi della fisica, erano assolutamente perfetti anche dopo la nottata. Amy è una delle pochissime persone che già appena sveglie hanno un aspetto splendido. Altro che sonno ristoratore. Una ragazza che odierei, insomma, se non la amassi così tanto.

    «È po’ troppo complicato, capito?».

    Le tolsi di mano il pettine e iniziai a districarmi i nodi. Questa era l’unica cosa che Amy e io avevamo in comune: entrambe avevamo i capelli incredibilmente ricci, a spirale, tipo cavatappi. Quel genere di capelli che tutti desiderano, o così credono, perché in realtà sono impossibili da gestire. Mentre quelli di Amy erano lunghi, castano scuro, e perfetti, i miei erano biondi e mi arrivavano alle spalle: a poco a poco stavano compromettendo la mia salute mentale. Ogni mattina ci mettevo una vita a districarli, e quel giorno non avevo tanto tempo a disposizione.

    «Be’, spero che tu e tua madre sistemiate questa cosa al più presto», disse Amy, «perché adoro averti qui con me, ma la situazione si sta facendo un po’ troppo complicata».

    «A chi lo dici». Non era lei che stava per saltare dalla finestra del secondo piano.

    Nel corridoio, sentivo la signora Rush che si aggirava per la casa, preparandosi per andare al lavoro. Non mi ero lavata i denti né messa il deodorante per coprire il mio glorioso odore naturale: insomma, era proprio il momento giusto per darmi alla fuga.

    Corsi alla finestra e la spalancai. «Se adesso muoio, per favore al mio funerale vorrei un discorso spiritoso, ma anche abbastanza commovente, chiaro?»

    «Sonny!». Amy mi prese per il braccio e mi trascinò via dalla finestra. «Non se ne parla. Non farai una cosa del genere».

    «Perché no?»

    «Per i principianti può essere pericoloso», mormorò. Quando si rese conto che non bastava a dissuadermi, aggiunse: «E poi cadresti proprio davanti alla finestra della cucina. Se la mamma è di sotto a fare colazione e vede una ragazza cadere dal cielo…».

    «Hai ragione, diamine. E allora che faccio?»

    «Aspetta finché non se ne saranno andati tutti», rispose. «Poi potrai sgattaiolare fuori e richiudere la porta con la chiave di scorta. Sta sotto…».

    «Sotto il vaso accanto alla porta. Lo so».

    Dovevo ammettere che quello era un piano più fattibile, ma non era certo il più adatto a farmi arrivare puntuale. I genitori di Amy non uscirono prima delle sette e trenta, a un quarto d’ora dall’orario d’ingresso a scuola. Nell’istante in cui sentii sbattere la porta mi precipitai in corridoio, andai in bagno a finire i necessari rituali igienici, per poi fiondarmi al piano di sotto e fuori dalla porta.

    Chiusi a chiave, poi attraversai il giardino sul retro, e corsi lungo Milton Street fino al parcheggio del supermercato Grayson, dove avevo lasciato la macchina la sera prima.

    «Ciao, Gert», la salutai, tamburellando le dita sul cofano della vecchia station wagon color argento. Era proprio una macchinaccia, davvero bruttina, ma era mia. Mi sedetti al volante. «Spero che tu abbia dormito bene. Io sono di fretta, quindi per favore cerca di fare la brava».

    Girai la chiave di accensione. Il motore aumentò di giri, ma non partì. Gemetti.

    «Non oggi, Gert. Ti prego».

    Provai di nuovo e, come se Gert mi avesse sentito, il motore finalmente cominciò a borbottare: in un attimo eravamo in strada.

    La campanella era già suonata quanto entrai nel parcheggio riservato agli studenti dell’ultimo anno, quindi il portone d’ingresso era già chiuso e fui costretta a rivolgermi all’addetta alla reception, la signora Garrison, una donna perennemente scontrosa.

    «Sonya», mi salutò quando mi vide entrare.

    Io feci una smorfia. Odiavo – odiavo letteralmente – quando usavano il mio nome per esteso.

    «Sei in ritardo», sentenziò, come se già non lo sapessi.

    «Lo so. Mi dispiace, io…».

    Era il momento di dare inizio all’esibizione.

    Cominciò a tremarmi il labbro, e in quel preciso istante i miei occhi si riempirono di lacrime. Abbassai lo sguardo e feci un sospiro drammatico.

    «Stamattina è morto il mio criceto, Lancillotto. Quando mi sono svegliata lui era… fermo, sulla ruota… completamente immobile…». Mi coprii il viso con le mani e presi a singhiozzare. «Mi dispiace. Probabilmente lei penserà che sia una cosa stupida, ma io lo amavo così tanto».

    «Oh, tesoro…».

    «So che non può essere una giustificazione, ma… è che… mi dispiace così tanto per Lancillotto».

    Temevo di aver esagerato, ma poi lei mi mise in mano un fazzoletto e mi diede qualche pacca consolatoria sul braccio.

    «Sfogati», disse, «so quanto è difficile. Quando ho perso Whiskers l’anno scorso… Senti, ti faccio una giustificazione per la prima ora. Scriverò che hai avuto un’emergenza in famiglia. Non ti preoccupare, ci penso io».

    «Grazie», risposi, tirando su col naso.

    Le lacrime si erano già asciugate quando raggiunsi la classe del corso avanzato di storia dell’Europa.

    Il professor Buckley era nel mezzo della sua lezione quando sgattaiolai nell’aula. Sfortunatamente non gli sfuggiva nulla, quindi non avevo nessuna possibilità di riuscire a raggiungere il mio posto senza farmi notare.

    «Signorina Ardmore», tuonò. «Finalmente ha deciso di unirsi a noi».

    «Scusi per l’interruzione», mormorai. «Ho una lettera di giustificazione».

    Gli porsi il foglio che mi avevano dato alla reception. Lui lo lesse in fretta e annuì. «Bene. Prenda posto. Le suggerisco di farsi dare da un compagno di classe gli appunti della prima parte della lezione».

    «Tutto qui?», protestò Ryder Cross, mentre io mi infilavo nel banco dietro al suo. «Una studentessa arriva con mezz’ora di ritardo e nessuno prende provvedimenti?»

    «Ha una lettera di giustificazione, signor Cross», replicò il professor Buckley. «Quali provvedimenti consiglierebbe lei?»

    «Non so», ammise Ryder. «Ma ha interrotto la lezione presentandosi in ritardo, e non è certo la prima volta. A Washington, dove andavo a scuola prima, gli insegnanti erano molto più severi. Le giustificazioni venivano accettate solo in casi eccezionali. E lì gli studenti erano molto più educati. Qui invece si giustifica praticamente tutto».

    Alzai gli occhi al cielo, così tanto che quasi mi feci male. «Allora tornatene lì», suggerii io. «Non stare in pensiero per la gente semplice che vive a Hamilton. Ce la faremo senza di te. Ti assicuro che non ci mancherai per niente».

    Dalla classe si levò un mormorio di approvazione. Persino il professor Buckley sembrò fare un cenno impercettibile con la testa.

    Ryder si voltò sulla sedia in modo da guardarmi negli occhi. Peccato per quel ragazzo: se non fosse stato un tale stronzo, probabilmente sarebbe stato molto apprezzato da queste parti. Aveva la pelle liscia e olivastra, e due occhi grigi straordinariamente luminosi. I capelli erano corti e ben pettinati, ma era sempre vestito come se stesse andando a un concerto di una band sconosciuta. Uno stile volutamente trasandato. I suoi vestiti però sembravano sempre tagliati su misura per la sua figura snella e muscolosa. A volte lo avevo addirittura visto con degli occhiali dalla montatura spessa, e sapevo bene che non ne aveva affatto bisogno.

    In altre parole, Ryder era sexy, ma aveva uno stile fastidiosamente hipster.

    Da quando era arrivato alla Hamilton High School all’inizio del semestre, non aveva fatto altro che parlare male della scuola e di tutto il corpo studentesco. I pasti della mensa a Washington erano più gustosi, i ragazzi a Washington non si fermavano nei corridoi, gli insegnanti a Washington erano più qualificati, la squadra di football di Washington aveva vinto più partite, eccetera eccetera.

    Ora, non ero certo la fan più sfegatata della scuola, ma persino io non sopportavo il suo atteggiamento. E diventava ancora più insopportabile quando postava su Facebook commenti ironici sulla nostra noiosa cittadina. Forse stava fisicamente male all’idea che da noi non ci fossero ristoranti pluristellati.

    In sostanza, Ryder veniva da una famiglia ricca. Di politici. Suo padre era un deputato del Maryland, cosa che non mancava mai di far notare a ogni occasione; e con la sua scarsa modestia, Ryder aveva decretato che Hamilton e tutti quelli che ci vivevano facevano proprio schifo.

    Mi correggo: tutti, eccetto Amy. Perché Ryder si era preso una cotta disgustosamente ovvia e del tutto non corrisposta per lei. Non che potessi biasimarlo, comunque. Amy era bellissima e ricca, proprio come lui. Amy però era dolce e affabile, il tipo di ragazza che dava i biglietti di auguri di Natale personalizzati alle inservienti della mensa, mentre Ryder era uno stronzo patentato.

    Mi stava ancora fissando, e d’un tratto mi sentii in imbarazzo per i jeans che portavo da quasi una settimana senza lavarli e la T-shirt con la manica strappata. Raddrizzai la schiena e guardai Ryder con aria di sfida, aspettando di vedere se avesse il coraggio di paragonarmi alle ragazze della sua scuola di Washington. Ma prima che potesse dire qualcosa, il professor Buckley si schiarì la gola.

    «Bene, ragazzi. Adesso basta. Il programma è lungo e abbiamo solo un anno a disposizione. Allora, torniamo al Grande Scisma: lo so che può sembrarvi una barzelletta, ma ci tocca studiarlo».

    Ryder si voltò di nuovo verso la cattedra, e io mi diedi da fare a prendere appunti sul Grande Scisma.

    Le cose andarono bene fino alla terza ora, quando mi resi conto che mi ero dimenticata il libro di chimica a casa di Amy. Dovevo convincere la professoressa Taylor, una tipa tosta con la punizione facile, che avevo dato ripetizioni di chimica all’ospedale pediatrico locale di Oak Hill e inavvertitamente lo avevo lasciato a una bambina.

    «Lo recupero domani», le assicurai. «Vedrò la bambina prima che inizi il prossimo ciclo di chemioterapia. Le prometto che andrò a riprenderlo».

    E lei se la bevette. Senza batter ciglio.

    Ero consapevole di essere una persona terribile, ma mi piaceva pensare alla mia capacità di mentire come a un talento naturale. E se ce l’avevo, perché non utilizzarlo? Specie in giornate come quella, in cui tutto sembrava andare storto.

    Non avevo abbastanza soldi nel portafoglio per il pranzo, così piuttosto che ammettere che le cose a casa andavano di merda ed ero sul lastrico, dissi alla cassiera dal cuore tenero che avevo ceduto il mio ultimo dollaro al barbone all’angolo.

    La passai liscia.

    Poi mi si staccò la fascetta delle infradito da due dollari, un pallone mi arrivò dritto in faccia durante l’ora di pallavolo e infine – ciliegina sulla torta – mi venne il ciclo.

    Amy avrebbe concluso che era il destino: la punizione per tutte le bugie che raccontavo, ma in realtà mentire aveva la sua utilità. Quando sembrava che tutto andasse a rotoli, le bugie mi permettevano di riprendere il controllo.

    Ero sicura che la giornata non potesse andare peggio di così, e fu questo forse il mio errore fatale. Quanto ti concedi di pensare che le cose non potrebbero andare peggio, inevitabilmente peggioreranno.

    «Allora, ci vediamo stasera?», chiese Amy mentre ci dirigevamo al parcheggio.

    «Sì. Però non potrò mandarti un messaggio, quindi dovrai controllare se arrivo. Sarò fuori più o meno alla solita ora».

    «Ok». Mi diede un abbraccio. «Divertiti al lavoro».

    La salutai con la mano mentre andava in fretta verso la sua Lexus. Cercavo di convincermi che non ero orribilmente gelosa di lei, dei suoi genitori ricchi e della sua auto di lusso. Io dopotutto avevo Gert, e chi non l’avrebbe voluta una macchina così?

    Potevo essere brava a mentire, ma a questo non ci credevo neanch’io, neppure per un istante.

    Salii in macchina e gettai lo zaino sul sedile del passeggero. «Bene, Gert», dissi, infilando la chiave nel cruscotto, «è ora di mettersi al lavoro».

    Mentre io ero una lavoratrice affidabile (il più delle volte), Gert aveva deciso che quel giorno non era in vena. Il motore aumentò di giri, ma niente da fare. La batteria era morta, ed entro venti minuti dovevo essere al cinema per iniziare il mio turno di lavoro.

    Presi subito il cellulare, con l’intenzione di chiamare Amy e chiederle un passaggio, ma mi ricordai che il mio telefono anteguerra aveva esalato il suo ultimo respiro la notte prima. Scesi dalla macchina, sperando di fermarla, ma era troppo tardi. Vedevo già la Lexus che sfrecciava via.

    Non c’era niente da fare. Ero bloccata lì. Dovevo trovare qualcuno che mi aiutasse a far ripartire la macchina, ma chissà quanto tempo ci sarebbe voluto.

    E proprio allora, perché forse Amy aveva ragione con le sue teorie sulla vendetta del destino, il cielo si aprì e cominciò a piovere a dirotto. Adesso, restava soltanto una cosa da dire: «Merda».

    2

    Il parcheggio riservato agli studenti dell’ultimo anno si era già svuotato, quando cominciò a piovere. Rimasi dentro la mia macchina, a guardare la porta, sperando che uscisse qualcuno. Sfortunatamente, la prima persona che apparve, il mio tanto atteso salvatore, fu un ragazzo alto con la T-shirt di una band sconosciuta, una felpa sdrucita ma chiaramente costosa e un paio di jeans da duecento dollari.

    «Non ci posso credere», esclamai, allungando la mano verso lo sportello. Avrei preferito aspettare che uscisse qualcun altro, ma chissà quanto ci sarebbe voluto. Tutte le altre vetture di sicuro appartenevano ai secchioni che rimanevano a scuola fino a tardi per il club degli scacchi e le assemblee studentesche. Quei nerd e le loro attività extracurriculari non erano la risposta ai miei problemi. Quindi la mia unica possibilità era Ryder Cross.

    Scesi dalla macchina, coprendomi la testa con il libro di storia per proteggere i riccioli dal diluvio universale.

    «Ryder!», gridai. Era già arrivato a metà del parcheggio. «Ehi, Ryder!».

    Si fermò e si voltò verso di me. Non aveva l’ombrello, e i vestiti bagnati gli aderivano addosso. Uno spettacolo niente male, peccato che presto avrebbe aperto bocca per rispondere alla mia domanda.

    «La mia macchina non parte», spiegai. «Hai i cavetti o qualcosa del genere?».

    Lui s’incamminò verso di me, scuotendo però la testa. «No».

    Sospirai. «Certo. Fammi indovinare, le macchine a Washington non si fermano mai e non hanno bisogno di riparazioni?».

    «Non puoi chiamare qualcuno?»

    «Non mi funziona il telefono».

    «A quanto pare, non ti funzionano un bel po’ di cose».

    «Be’, non tutti hanno i genitori in politica che pagano tutto. Devi sapere che alcuni di noi devono lavorare per ottenere le cose. Apprezzo comunque la tua preoccupazione».

    Lui alzò gli occhi al cielo. «Se fai così, allora scordati il mio aiuto. Stavo per prestarti il mio telefono».

    «Davvero?»

    «Certo, non sono uno stronzo».

    «Questo è tutto da vedere».

    «Vorresti chiamare Amy, giusto?».

    Ecco qua. Come mi aspettavo, era questo l’altro motivo per cui era disposto ad aiutarmi. E comunque aveva ragione. Chi altro avrei potuto chiamare? Sapevo che neppure Amy aveva i cavetti, ma almeno avrebbe potuto darmi un passaggio fino al cinema.

    Salimmo dentro la mia macchina, entrambi fradici di pioggia. Il giorno dopo avrei trovato i sedili ammuffiti, fantastico. Ryder mi porse il telefono – lo stesso modello di quello di Amy – e io digitai velocemente il numero della mia amica. Era l’unico che conoscessi a memoria.

    «Pronto?»

    «Ciao, Amy».

    «Sonny? Da dove stai chiamando? Non riconosco il numero».

    «Il nostro essere umano preferito è stato così gentile da concedermi l’onore di usare il suo telefono».

    Silenzio.

    «Ryder mi ha prestato il suo telefono».

    «Ah».

    Non avevo bisogno di vederla per sapere che aveva arricciato il naso.

    «La macchina non parte, e ho il telefono rotto. E devo iniziare il mio turno tra… oh, caspita, sette minuti. Ti prego, aiutami».

    «Arrivo subito».

    Restituii il telefono a Ryder. «Sta tornando a prendermi. Quindi se vuoi, adesso puoi andare». E poi, con tutta la forza di volontà che riuscii a racimolare, mi sforzai di aggiungere: «E grazie. Per il telefono».

    Lui fece spallucce, ma non si mosse per scendere.

    «Hai bisogno di qualcosa?», chiesi.

    «No, ma pensavo di rimanere finché non arriva Amy… solo per accertarmi che non ti succeda nulla».

    Io sbuffai. «Oh, sì. Sono certa che ci tieni molto alla mia incolumità. Dài, smettila di perdere tempo con questa cotta per Amy. È fastidiosa e patetica e, se vuoi la verità, lei non ti fila. Per niente».

    «Scusa. Non sapevo che fossi la portavoce di Amy».

    «Sono la sua migliore amica. So cosa pensa, più o meno su tutto. Sto solo cercando di salvarti da una tremenda delusione».

    «Ti importa della mia delusione quanto a me importa della tua incolumità». Scosse la testa. «Se non ti dispiace, preferirei che fosse Amy a dirmi cosa pensa di me».

    «Non succederà. Per quanto lei non ti sopporti, non ti direbbe mai la verità. È troppo buona».

    «Di certo la sua bontà non ti ha contagiato».

    Un secondo dopo vedemmo la Lexus di Amy che girava l’angolo. Io afferrai la borsa e saltai giù dalla station wagon, seguita da Ryder. Amy entrò nel parcheggio e fece scattare la sicura dello sportello.

    «Ci vediamo», dissi, fiondandomi nella Lexus, ma Ryder bloccò lo sportello,

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