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Pensa il risveglio
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E-book254 pagine3 ore

Pensa il risveglio

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Info su questo ebook

Lorenzo è scomparso quando le riprese del suo film sono quasi terminate; il narratore ne segue le tracce e, mano a mano che passa il tempo, si impossessa della sua vita.

Lorenzo potrebbe essere morto, ma la sua presenza si insinua nella coscienza degli altri personaggi, con la sua ombra sinistra. Nel frattempo c'è qualcosa che non funziona, continuano ad aprirsi delle crepe nella realtà di questo mondo, a riproporsi frammenti di vita e visioni, a ritornare i nomi di Albert Speer, architetto del Terzo Reich e confidente di Hitler, e di Josef Mengele, il medico assassino di Auschwitz.

Quando il narratore scoprirà della gravidanza della compagna di Lorenzo, Cate, la storia prenderà un'accelerazione che lo porterà a compiere scelte di cui non sembrava capace.

Un romanzo intenso e politico che ci interroga continuamente sulla responsabilità di essere al mondo.

LinguaItaliano
Data di uscita1 nov 2021
ISBN9788894845273
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    Anteprima del libro

    Pensa il risveglio - Alessandro Cinquegrani

    Capitolo uno

    La nostalgia dell’acqua

    – Chiamiamolo La nostalgia dell’acqua. Senti come suona meglio? È poetico, forte.

    – Il titolo è Albert Speer è morto.

    – Possiamo cambiarlo, siamo ancora in tempo. Insomma, io non voglio mettermi in mezzo a queste polemiche su fascismo e antifascismo, non voglio fare politica, capisci?, almeno nel titolo teniamole fuori. Il resto sembrerà una fantasia, una cosa astratta… In fondo chi cazzo lo conosce ’sto Speer?

    – Il titolo è Albert Speer è morto.

    Lorenzo è scomparso. Mi ha chiamato Caterina e mi ha detto semplicemente così: Lorenzo è scomparso. Ero presente anch’io a quel dialogo. Come attore e aiuto regista avevo diritto a essere presente. E ho visto il volto di Lorenzo indurirsi: conosco certe sue pressioni mandibolari e so cosa significano. Sapevo che qualcosa sarebbe successo, che quel dialogo avrebbe avuto delle conseguenze. Non era una premonizione, era un’improvvisa e lampante consapevolezza. Eppure, nonostante questo, non mi sarei mai aspettato che Caterina mi chiamasse per dirmi: Lorenzo è scomparso.

    E benché mi sembri che la scomparsa di un uomo sia una conseguenza del tutto sproporzionata rispetto a una divergenza di vedute di natura artistica, devo prendere atto che è successo. Lorenzo, per il suo film, non poteva accettare un titolo diverso da quello che aveva scelto, anche se aveva un significato politico, o proprio perché doveva avere un significato politico. Io credo che in fondo abbia giocato un ruolo essenziale la chioma perfetta e brizzolata di Franco, e quel suo modo di stringere la mano guardandoti negli occhi e aprendola ben prima di esserti vicino. L’ho già detto altre volte, a Lorenzo, che il compito di un produttore è più commerciale che artistico, che dovrebbe tener conto della distanza antropologica che ci separa, e perciò essere più tollerante, altrimenti fa il loro gioco. Non sarà mai la stessa cosa, noi non la vedremo mai come loro, ma questo, gli dicevo, non è un motivo sufficiente per chiudere baracca e burattini e andarsene. Basta trovare un punto di incontro, in fondo, loro servono a noi almeno quanto noi serviamo a loro. Ma Lorenzo non è tollerante, non è comprensivo, non media, è tutto lì, in quelle sue decisioni improvvise e assolute, quelle decisioni assolutamente prive di contraddittorio. E la nostalgia dell’acqua – è vero – non è un titolo poetico: è accattivante, certo, ma non è artistico, è ammiccante, noi lo sappiamo, ma non importa, ecco, non importa, avrei dovuto dirgli. Ma se l’ho fatto, non è servito a niente, le mie parole non sono mai servite a niente rispetto alla cocciutaggine di Lorenzo. Quel suo essere estremo, risoluto, deciso e in fondo vincente.

    Caterina mi ha detto che la macchina di Lorenzo è stata trovata in un bosco in Svizzera, proprio il giorno successivo a quel dialogo a cui avevo assistito. Perché la Svizzera?, mi sono chiesto. E mi sono reso conto che ho sempre immaginato la geografia politica dell’Europa senza la Svizzera. Come fosse un enorme cratere vuoto in mezzo alle montagne che cerco a fatica di riempire. Le Corbusier, il lago dove Jung andava a spaccare legna per non dimenticare il proprio contatto con la terra, e Guglielmo Tell. Che altro so della Svizzera? La Croce Rossa, la neutralità, gli orologi, la cioccolata, le banche e che da bambino giocavo ai quattro cantoni, se c’entrano davvero qualcosa. Perché, la Svizzera?

    Pensarci, sapere cosa significhi la Svizzera per Lorenzo è inutile: esplorare i suoi segreti, i suoi silenzi, come se si potessero riportare alla luce, come se non fosse sempre stata l’ombra la cifra segreta di Lorenzo, è inutile. Quello che faccio è prendere la macchina per andare da Caterina, e con lei andare lì, dove è stata ritrovata l’auto di Lorenzo, sulle montagne svizzere. E mentre sono in macchina per le strade della provincia padana per raggiungere la casa di Cate, mi viene in mente Alberto Giacometti coi suoi corpi scarnificati. Non so esattamente perché l’avevo dimenticato, forse perché piaceva a Lorenzo. Me ne parlava ogni volta che io gli accennavo a Botero, e ogni volta la si buttava in boutade, ogni volta, Stanlio e Ollio e via discorrendo. Finché alla fine Lorenzo diceva Il mondo è pieno di Giacometti, di uomini ridotti a pura fame, all’estinzione della materia corporea, per colpa di pochi Botero, vedi? E così lo scherzo si trasformava in disagio, il disagio in rabbia sociale che finiva sempre per infiammare il volto di Lorenzo, mentre io volevo solo fare una battuta. Del resto Lorenzo non rideva molto, anzi non rideva quasi mai ma almeno avrei potuto ridere io. Lorenzo, quando l’ho visto ridere davvero, sarà stata una o due volte in vita mia, rideva con le lacrime agli occhi e il fiato sospeso. Penso che Lorenzo si vergognasse di come rideva.

    Quando arrivo Cate è già in giardino, Ho dato da mangiare ai gatti, fa. Ha una maglietta blu e pantaloncini marroni e scarponcini da trekking ai piedi e calzettoni lunghi al ginocchio, come se la montagna la conoscesse bene. Penso di chiederle se ci andava con Lorenzo, se la frequentavano, se quindi Lorenzo non sia uno sprovveduto in materia di montagna, perché mi pare che questo abbia un senso per la missione, per capire qualcosa in più su dove possa essere finito, e in fondo anche se possa essere vivo. Invece quello che le chiedo appena la vedo, appena la sua palla di capelli rossi si affaccia nella macchina è: Hai chiuso a chiave? Mi sembra di giocare all’amico premuroso, mi sembra di dover dimostrare un’attenzione nelle piccole cose, anche se in fondo è solo un modo di atteggiarsi, un modo di darsi un tono.

    Siamo in macchina, prendo il biglietto al casello e lo metto nell’aletta parasole. Mentre la guida si fa più piatta – l’autostrada è una semiretta inerte nella pianura infinita – mi rendo conto che Caterina non sembra così sorpresa da questa situazione paradossale, dal fatto di andare a cercare suo marito scomparso nei boschi svizzeri. Mi resta questo pensiero aggrappato ai gangli come una minaccia silenziosa, mentre guardo la pianura distendersi, i capannoni a sinistra, le coltivazioni a destra. Penso ai capannoni che diventano enormi stalle, le vacche immobili, incatenate, come macchine vive, eppure al sicuro, come in una sospensione di vita, una sparizione. Provo pietà per loro, pietà e una forma strisciante di invidia. Non posso chiederle perché non sembra così turbata dal fatto che suo marito sia improvvisamente scomparso, eppure è così, ha l’allegria sottintesa della gita domenicale. Cerchiamo di occupare i metri cubi d’aria dell’abitacolo per far passare il tempo, con un impegno tenace, come se avesse un senso.

    – Hai provato a chiamarlo?

    – Sì.

    – E?

    – Irraggiungibile.

    – Riproviamo?

    Si stringe nelle spalle e non risponde. Non capisco se sia rassegnazione o indifferenza.

    – Siri, chiama Lorenzo, – dico, e sul monitor compare il suo nome e si sente in vivavoce la composizione del numero. Un attimo di silenzio, poi il messaggio preregistrato di numero irraggiungibile. Non sono sicuro che mi aspettassi davvero qualcosa di diverso, piuttosto, più o meno inconsciamente, volevo riportare la sua figura – la sua assenza – tra noi.

    – Siri, chiama Caterina, – fa lei rompendo il silenzio. Io mi giro a guardarla, e ogni volta, quando la guardo in viso, cerco di leggere i geroglifici delle efelidi come un vaticinio insensato.

    – Divertente, no? – fa lei.

    Non trovo Caterina nella rubrica, dice la voce femminile dalle profondità meccaniche.

    – Siri, chiama Cate, – riprova.

    Non trovo Cate nella rubrica.

    – Simpatico.

    – Siri, chiama Lei, – intervengo. E subito si sente la composizione del numero.

    – Lei?

    – Lei.

    – Un nome più comune? Più amorfo?

    – Tu sei lei.

    – Io sono lei.

    – Forse quando ti ho registrata non ricordavo ancora il tuo nome.

    Si sente vibrare il suo cellulare, come un muggito tenue. Lei rovista nello zainetto.

    – Sono una che lascia il segno, – dice.

    A me imbarazza pensare che Lei sia solo lei, sia sempre stata soltanto lei, e spero che non se ne accorga, lascio che equivochi.

    Poi risponde:

    – Pronto, io sono lei, lei chi è?

    Io sto al gioco:

    – Io sono io, lei come sta?

    – Io chi?

    – E lei chi?

    – Lei l’anonima, la qualsiasi, lei come tutte.

    – Ah, ora mi è chiaro.

    Inizia a parlare al telefono come fossimo davvero lontani, racconta di tutto quello che è successo, del fatto che Lorenzo sia scomparso, così, e che lei stia andando a riprenderselo con un suo amico. Dice Lo cercheremo nei boschi, tra le montagne e lo troveremo, poi aggiunge: Forse, lo troveremo.

    Io ascolto la sua voce sdoppiata, la voce calda, fisica, presente di lei, e quella metallica, ossidata dal vivavoce, arrivano quasi contemporaneamente, anche se mi sembra di percepire una lieve sfasatura, un dislivello. E in quella sfasatura concentro la mia attenzione, nell’attimo infinitesimale che passa tra la sua voce fisica e quella dell’altoparlante. Penso alla rete di ripetitori invisibili che attraversa, saltando nervosamente da uno all’altro, ragnatele fittissime di voci che ci sovrastano, come soffitti invisibili, volte celesti fatte dalle parole più diverse, che s’ammucchiano, si sfiorano, si separano, parole di amanti, di manager, di ragazzini esitanti, un ammasso informe ed etereo che prima o poi si rivelerà. Mi sorprendo a pensare a quelle due voci, a quei due mondi, quello del corpo e quello dell’astrazione, a come in tutti noi ci sia una fuga nel mondo altro, oppure una presunzione del mondo creato dietro la voce sintetica, dietro l’immagine. Nella sfasatura, penso, c’è uno spazio di vita, di vicevita che possiamo abitare. E mentre lei continua questo gioco stupido, soffermandosi su ogni dettaglio di quanto è successo, io metto la freccia e supero un torpedone della FlixBus, arancione e verde, con le sopracciglia tristi degli specchietti, le grandi frecce da supereroe. E m’immagino, dentro a quel grande veicolo, una serie di uomini piccoli con le grandi sopracciglia e i costumi da supereroi arancioni e verdi, venuti da chissà che mondo alieno oltre il sistema solare. Il mondo della voce sintetica, il mondo posticcio oltre la cupola del cielo.

    – Lo troveremo? – conclude, senza malinconia. Poi mette giù e si fa seria. Come se davvero raccontarne la storia avesse portato tra noi l’assenza di Lorenzo.

    – Lorenzo aveva uno zio che viveva in Svizzera, un prozio, per la precisione, – dice.

    Io attendo, come se dovesse esserci un seguito, una spiegazione in più, senza la necessità di chiederla. Ma lei gira il volto verso il finestrino, scruta la pianura, attende che la tensione e l’attesa si depositino al suolo. E a me viene in mente una parola desueta, la parola contrizione. Non si usano più parole come contrizione, penso, almeno se non si va in chiesa, a sentire l’omelia di un parroco trentenne che usa parole antiche. Mi piacciono certe parole che non si usano più, penso, e vorrei dirlo a Cate, spiegarle che nell’abitacolo di questa macchina, mentre andiamo verso le montagne svizzere, aleggia la parola contrizione, come sospesa, come se riempisse ogni spazio, la senti?, vorrei dirle, ma non lo dico, aspetto che passi.

    – Avrà proseguito su una mucca Milka, – dice, quasi senza ironia, come un esorcismo spento, inerte.

    Quando ci fermiamo all’Easy Stop di Coldrerio, appena oltre il confine con la Svizzera, lei mangia con appetito una pasta al pesto in un bicchiere di cartone.

    – Non mangi? – dice.

    – Solo una spremuta.

    Quando ripartiamo, mi accorgo che nella macchina è entrata una mosca, una di quelle grandi e pelose, di quelle che di solito si trovano nelle stalle, quelle che fanno muovere le orecchie alle vacche e ai cavalli. È l’aria di montagna, il lago, il letame che insaporisce l’altitudine dei boschi. Io non le sopporto, le mosche, un po’ come le formiche e le scolopendre, cerco di disfarmene subito, anche se mentre guido è complicato. Apro il finestrino per cercare di farla uscire, è il mio modo di salvarla, di risparmiarle la vita. Cate ride stupidamente, dice Ma che fai? Attento!, e ride divertita di me e delle mie ossessioni per questi insetti. Intanto la mosca si fa prendere dal panico, forse per la sproporzione strutturale dei nostri corpi, e non c’è modo di farle capire che io sono una specie di gigante buono e basterebbe stare calmi e tutto andrebbe per il meglio. Invece la schiaccio sul parabrezza, non avrei voluto, ma si agitava così tanto che ho dovuto farlo. Ma nell’attimo esatto in cui la schiaccio, Caterina ripete con una solennità sghemba che: Lorenzo aveva uno zio che viveva in Svizzera, un prozio, per la precisione. Per questo è venuto qui, ripete.

    Mi piace starla a sentire mentre racconta quelle storie con la sua voce leggermente rauca, vagamente rauca, fatta per bisbigliare parole all’orecchio. E così mi racconta di questo presunto prozio di Lorenzo. Non lo sapeva neanche lui, dice lei, non sapeva neppure della presenza di questo prozio, l’ha scoperto per caso, l’anno scorso, perché l’hanno chiamato dall’ospedale di Zurigo dove era ricoverato e gli hanno detto che suo zio voleva parlargli, e lui ha risposto: Quale zio?, ma poi è andato. Lo racconta così, senza specificare, e poi dice: Credo che sia da lì che è nata l’idea del film, pensando – a ragione – di incuriosirmi, come se mi interessasse (ma è davvero così?), come se mi interessasse di più il film che Lorenzo, più l’opera che l’amico di sempre. Intanto zigzagando tra i tornanti fuori dall’autostrada penso che i boschi della Svizzera sono belli, nella densità scura del verde e marrone, ma che preferisco le periferie delle città, un po’ da Blade Runner, un po’ «ci sono cose che voi umani…», Pensa che, quando Lorenzo è arrivato, il vecchio era già un po’ fuori di testa, non sapeva chi fosse, dopo che l’ha fatto venire dall’Italia, figurati!, dice Cate che le ha detto Lorenzo. Sono strani i labirinti del cervello, in qualche modo contraddicono la pregnanza naturale dei colori di Paul Klee, non credi?

    Non capisco cosa intenda, ma non dico niente, è strano che non avessi pensato al fatto che anche Klee è svizzero. Allora mi tornano in mente i corpi scarnificati di Giacometti, e penso agli spigoli dei bambini di legno nei lager, ma non lo dico. Forse lei ha solo bisogno di parlare, e mi piace vedere le sue labbra senza contorni che si muovono appena, come un ventriloquio sereno sul ciglio della strada.

    – Era convinto che Lorenzo fosse il suo fratello gemello, – dice Caterina mentre ci inoltriamo nella piccola strada sterrata che sale nel bosco.

    – Chi? – chiedo.

    – Lorenzo.

    – No, chi era convinto che fosse…

    – Ah, che fosse il suo fratello gemello.

    – No, ma chi? Chi soggetto.

    Ride, e getta la testa indietro, con i suoi capelli rossi, diabolici.

    – Dovresti venire in autunno, – faccio, – mimetizzarti nel bosco.

    – Sparire nel bosco, – dice lei, – con lui, come lui, – fa.

    Lui, assieme al suo fratello gemello Simon, mi dice Caterina che gli ha detto Lorenzo, è stato internato nel lager di Sachsenhausen, un campo che io non ho mai sentito, mi pare, ma, mi viene in mente poi, è citato da Sebald in Austerlitz: anche se non mi sembra di avere mai letto quel libro, io ricordo la forma di quel lager riprodotta in fotografia. Devo aver sfogliato quel libro senza mai leggerlo, penso, eppure io so per certo, o almeno così penso, che in quel libro è citato il lager di Sachsenhausen e ne ricordo la forma da crostaceo, logica, utile, ma al di fuori del controllo dell’intelligenza umana: era logica senza intelligenza, calcolo freddo che mi dissemina minuscole particelle di gelo nel corpo.

    – Il fratello del prozio… – dice.

    – Ma il fratello del prozio, – intervengo, – è anche lui prozio, no?

    – Lorenzo lo chiamava il fratello del prozio.

    – Il prozio fratello del prozio.

    Comunque il fratello del prozio, lui, quell’uomo, quel bambino anzi, perché uomo non fu mai, morì nel lager come tanti altri bambini, tanti uomini perduti nell’abisso della crudeltà. E il punto che al prozio non dava pace era che fosse morto durante gli stessi esperimenti che anche lui sopportava. Esperimenti così atroci da essere indicibili e Lorenzo diceva che il prozio non gli ha mai spiegato di che esperimenti si trattasse, c’erano cose che restavano sommerse in uno spazio incendiato e muto. Ma loro, diceva, a quanto ne sapeva Lorenzo, erano fratelli gemelli omozigoti, e perciò dovevano avere lo stesso corredo genetico, e di conseguenza la stessa sopportazione biologica del dolore.

    Usava, dice Caterina che aveva detto Lorenzo di lui, termini molto specifici, scientifici, mescolati al delirio incomprensibile, sulla sua sedia a rotelle che voleva sempre di fronte alla grande porta finestra della sua stanza. Con la sua coperta scozzese appoggiata sulle gambe. Però aveva lacrimoni quasi immobili sulla faccia rugosa: Perché, diceva, non potevo morire io al posto suo?, oppure, e doveva essere la logica conseguenza del discorso sul corredo genetico, Non potevamo morire o vivere entrambi? Dove sta la differenza, qual è la maledetta differenza che distingue me da lui?, diceva. Io, diceva, la mia stessa sopravvivenza contraddice secoli di scienza, ecco. E poi subito cadeva in un silenzio inerte, in una incapacità o inettitudine, come se il ricordo si spegnesse improvvisamente, come se avesse bisogno di requie, di tanto in tanto, – dice mentre io penso alla voracità sorniona di quella storia abissale, tra di

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