Fra amore e morte
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ROMANZO SECONDO CLASSIFICATO A GIALLOFESTIVAL 2019
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Anteprima del libro
Fra amore e morte - Alessandro Colzi
Alessandro Colzi
FRA AMORE E MORTE
Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104030
Immagine di copertina su licenza
Adobestock.com
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave, 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
Il nostro catalogo completo lo trovi su
www.librisumisura.it
Alessandro Colzi
FRA AMORE E MORTE
Romanzo
INDICE
INTRODUZIONE
PROLOGO
1
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3
4
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6
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L’AUTORE
CATALOGO
INTRODUZIONE
Il momento è sicuramente periglioso e complicato. Axel Zilco sta per varcare la fatidica soglia dei quarant’anni. È con spirito ottimistico, picaresco e freudiano che l’avventuriero dei Due Mondi (quello diurno e quello notturno) affronta questo momento gravido di insidie. Ottimismo che viene subito smorzato da una serie di inspiegabili morti disseminate in lungo e in largo in una Milano psichedelica, allucinata e bagnata da un mare rosso sangue. Per Axel e i suoi compari gli anni passano, ma il rifiuto di piegarsi passivamente alla mestizia, all’ingiustizia e ad altre cose che finiscono per tizia
è sempre vivo. Un uomo che sovverte le leggi dell’età e, invece d’invecchiare, rimbambisce ringiovanendo. Ciò nonostante, o forse a causa di ciò, dovrà muoversi con destrezza in mezzo a sinistri fornelli bollenti, ragazze ammiccanti, squillo di lusso, ricconi spavaldi, attori d’avanspettacolo, tirapiedi tonti e assassini in libera uscita.
Alcuni inquietanti video girano indisturbati sugli schermi dei televisori, proiettando immagini cruente e sanguinose che il nostro eroe, nel "mezzo del cammin della sua vita", dovrà suo malgrado oltrepassare come un moderno inferno dantesco. L’inesauribile e abituale Corte dei Miracoli del nostro protagonista, con l’aggiunta di un cane effeminato e una gatta mascolina, si dovrà mobilitare in tutta la sua magnificenza per salvare la pellaccia del suo indiscutibile portabandiera. Una storia noir in cui però ne succedono di tutti i colori, che mette in crisi i daltonici ed esalta la sete di vendetta. Un racconto pregno di calembour, con il verbo dell’azione
che passa alternativamente dall’Imperfetto al Presente proprio perché il primo, come dice chiaramente il nome, non soddisfa.
Un racconto che è un caravanserraglio di situazioni borderline, struggenti, comiche e grottesche. Pirotecnico e insospettabile nella figura dell’assassino che, posso già anticipare, anche questa volta, non sarà il maggiordomo.
PER UN USO CORRETTO,
LEGGERE ATTENTAMENTE LE ISTRUZIONI
QUANDO DEVE ESSERE USATO
Particolarmente indicato nei soggetti affetti da lealtà, correttezza, trasparenza, altruismo e solidarietà. Soprattutto nei confronti dell’autore.
COMPOSIZIONE
Vocali, consonanti e punteggiatura sono organizzati in maniera casuale e assemblati in periodi più o meno logici.
PRECAUZIONI PER L’USO
Si legge da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso. E senza premura!
PER MIA MADRE
Quando ero piccolo volevi che crescessi bravo, buono e ubbidiente.
Ne hai azzeccata una su tre, mamma.
Dicono che io sia piuttosto bravo, in effetti.
Fatti, e personaggi, escluso il protagonista, sono puramente immaginari. I luoghi no, esistono veramente; ma tanto loro non si offendono e non ti querelano. In ogni caso, chiunque si riconoscesse in un personaggio o addirittura in un luogo, è vivamente pregato di non mandarmi sms e/o email; non uso il computer e chiamo ancora dalle cabine telefoniche.
«Forse Dio vuole che incontriamo un po’ di gente sbagliata, prima d’incontrare quella giusta, così quando finalmente la incontriamo, sapremo essere riconoscenti per quel regalo».
(Paulo Coelho)
«Dedico queste divagazioni agli amanti che giocano, e perché no? anche agli uomini spaventati e alle donne malinconiche»
(Isabel Allende)
«In principio Dio creò il Cielo e la Terra, gli animali e le piante, i mari e le montagne. Ma finché non venne creato il bar, io non mi feci vedere».
(Alex Colzi)
PROLOGO
Il cielo era completamente azzurro e non una nuvola interrompeva quella striscia di colore continua. Sembrava di avere un mare sopra
, pronto a sommergerci tutti in un blu dipinto di blu. Sì, perché a Milano c’è il mare, non lo sapevate? Un mare di persone che nuotano da un locale all’altro per pescare o farsi pescare, qualcuno vestito da esca e qualcun altro da squalo; è un mare di guai dove, in alcune bische clandestine di Quarto Oggiaro, una carta giusta nella manica sbagliata può determinare una prematura dipartita; è un mare agitato e in burrasca, alla frenetica, spasmodica ricerca del divertimento forzato prima che l’alba ci faccia tornare tutti dei morti viventi; è un mare di equivoci, soprattutto lungo la sua infinita circonvallazione, dove si scambiano uomini travestiti per donne formose mentre la Polizia scambia, come se fossero figurine, le foto delle targhe di quelli colti in flagrante; è un mare sconfinato, che a volte sembra il deserto, ma alcuni locali ti fanno da faro e da oasi per un approdo sicuro e una birra fresca; e poi è un mare plumbeo, pieno di naufraghi con i buchi delle narici ormai funzionanti solo in entrata, buchi nell’incavo dei gomiti e buchi atti a dare un effimero e temporaneo piacere secondo un tariffario ben preciso; da tutti questi buchi il mare fuoriesce, si disperde, pronto a ricoprirci nuovamente il giorno dopo e quello dopo ancora.
In quella giornata così azzurra la guglia centrale del Duomo di Milano spiccava in lontananza dalla finestra di quell’appartamento, un bilocale posto all’ultimo piano di un anonimo palazzone di fine anni Sessanta alla periferia della metropoli, completamente spoglio al suo interno, se si esclude la presenza di un macchinario, nel centro, fatto di ferro, legno e alluminio e per le due figure intorno. Una delle due era inginocchiata e con i polsi e caviglie legati, ancora stordita dal cocktail di farmaci e anestetici usati per narcotizzarla; l’altra la sovrastava con un’aria di minaccia incombente, sprigionando una sensazione di dominio e superiorità che nemmeno il cappuccio calato sulla testa riusciva a nascondere e mitigare. Natasha Pushkina, più conosciuta con il nome d’arte di Immacolata Sottolano, nota entreneuse d’alto bordo
, ospite fissa in tutti i prive’ della Milano dove la presenza conta davvero, e spesso si esprime contando i pezzi da cinquecento euro per alcune peculiari prestazioni, aveva sudato copiosamente e il rimmel le era colato sul bel viso da matrioska d’esportazione. Svenne nuovamente.
Quando tornò in sé aveva la schiena in fiamme, coperta da escoriazioni e tagli; come se, aprendo gli occhi, avesse messo in moto un folle meccanismo. Dalla spalla sinistra le pulsazioni diffusero il dolore a tutta la schiena con una velocità spaventosa e, da lì, con incredibile accanimento, all’intero corpo. Era distesa sul pavimento, ventre a terra, con le braccia inermi lungo i lati. I polsi erano legati tra loro. Non riusciva a muovere le gambe perché aveva le caviglie bloccate. Non sapeva da quanto tempo fosse così distesa, né aveva idea di quante volte avesse già perso conoscenza, per poi tornare a riemergere in quel mondo di dolore e di gelo. E di folle terrore.
Il cigolio d’una porta la fece ammutolire. S’irrigidì, con lo sguardo era fisso sulla parete di mattoni sgretolati che aveva accanto, alcuni dei quali erano illuminati da un fioco raggio di luce e solo parzialmente coperti da una bruttissima tappezzeria giallo prostata. Tese le orecchie angosciata, cercando dietro di sé, nell’area di quella sua prigione che non poteva vedere, un rumore di passi, ma colse solo il ritmo accelerato del proprio respiro. Trattenne il fiato e sentì il cuore che le martellava i timpani. Si aggrappò alla pazza speranza che quel mostro fosse venuto solo a vederla, a controllare. Non per farle ancora del male. Basta dolore, basta.
— Dove sono? Dove mi trovo? — riuscì a balbettare la bella siberiana nonostante la lingua impastata.
— Questo non è importante. La cosa importante è quella che avverrà fra poco e che vedrà TE come protagonista e ME come parte interessata ad assistere allo spettacolo.
La risposta sembrava provenire dal profondo di una grotta, con un timbro metallico, gutturale, inumano e asessuato.
— Eddai, non è divertente. Se vuoi possiamo fare qualche giochino insieme molto più allegro e con molti meno vestiti addosso…
— Mi avevano detto che eri una che andava subito al sodo... ma a me i tuoi giochini non interessano più... Avresti dovuto tenere la testa sulle spalle un po’ di più nella tua vita... Peccato che non avrai più occasione per farlo, nel vero senso della parola...
È in quel momento che, roteando gli occhioni blu verso l’alto, la ragazza notò una mezza lunetta di legno pendere da una struttura sopra la sua testa e un’altra mezza lunetta posta sotto il suo mento, poggiata sul parquet intarsiato. Lei, che spesso e volentieri si era trovata in posizione carponi, testa abbassata e fondo schiena più in alto, iniziò a tremare e a piangere come quando, da bambina, il padre le raccontava storie di paura per punirla di qualche malefatta infantile. La figura incappucciata sorrise diabolicamente quasi assaporando i prossimi terribili momenti; fissava le lacrime della sua preda sgorgare copiose da quei bellissimi occhi, tipici delle ragazze dell’Est Russia, mentre formavano goccioline sul pavimento. Lacrime vere, lacrime acide, lacrime copiose… invidiava quella ragazza che riusciva ancora a piangere in maniera così vera. Le sue ormai erano solo lacrime di pazzia.
Morire. La giovane ragazza non ci aveva mai pensato seriamente. Del resto, a quell’età e con il genere di vita che conduceva, quel pensiero non era mai stato molto presente nella sua adorabile quanto vuota scatola cranica; al massimo, un paio di volte, aveva temuto di morire mentre sul sedile del passeggero sfrecciava ad oltre 250 km l’ora a bordo di una Ferrari lanciata lungo le autostrade tedesche, e il proprietario aveva preteso che lei si chinasse tra le sue cosce a controllare se la disposizione dei pedali fosse regolare. In ogni caso, la morte non è quasi mai come uno se la immagina; in questa circostanza poi, sarebbe stata difficile da immaginare anche per un bravo sceneggiatore: morire ghigliottinata nel ventunesimo secolo, in uno squallido bilocale con tanto di boia incappucciato a dirigere le danze? Ma dai!
La tensione era ormai palpabile come una burrosa locandiera di Goldoni. Anche l’incappucciato, solitamente laconico e distaccato, avvertiva un fremito lungo la schiena in quell’ambiente asettico e perfettamente insonorizzato; era il momento di rifare quel click
, di ri-schiacciare quel tasto play
; e così fece: un leggerissimo ronzio di sottofondo, percettibile solo a un orecchio molto sensibile, testimoniava la presenza di una sofisticata videocamera puntata proprio sul marchingegno al centro della stanza e alla sua involontaria ospite. Il Dottor Guillottin sarebbe stato fiero di quella perfetta ricostruzione moderna della sua opera originale, una fierezza quasi da orgoglio genitoriale, anche se alcune ricostruzioni storiche davano la paternità ad alcuni inventori italiani semisconosciuti.
La testa della malcapitata era ormai in posizione: compressa tra le due morse di legno e in attesa di una lama affilatissima di oltre trenta chili sospesa a mezz’aria. Cosa si prova a morire ghigliottinati? Il killer non poté fare a meno di domandarselo. Non possiamo esserne certi, nessuno è rimasto vivo per venircelo a spiegare. Di certo gli attimi immediatamente precedenti sono terribili, è come morire altre dieci volte. Forse la testa del ghigliottinato gode ancora di qualche secondo di vita? Qualche medico dice che il centro delle nostre attività cerebrali risiede nella ghiandola pineale, che quasi sempre viene lasciata intatta dalla mannaia: ecco il fondamento filosofico e medico che rende plausibile l’idea che nel decapitato l’anima resti in vita. E, se è possibile congetturare che dopo la decapitazione ci sia una generica durata dell’anima, ciò profila qualcosa di mostruoso: la possibilità che la testa, creduta ormai senza vita, abbia coscienza della propria morte. Se così è, la ghigliottina rende possibile l’impossibile, porta a compiutezza l’assurdo filosofico: se la testa mozzata vive, il ghigliottinato "conosce per breve tempo la sua stessa morte, che dovrebbe essere inconoscibile per definizione. Il killer aveva scelto quel metodo di esecuzione proprio per questo motivo, per rendere più spettacolare la sua
opera" e avere delle immagini più suggestivamente macabre.
È un’esecuzione capitale un po’ anomala, spesso sbrigativa (il pubblico parigino molte volte si lamentò per questo inconveniente
). La ghigliottina è diversa: è più audace, più spiccia, più conscia della sua forza. Non deturpa, non stinge, non mette sottosopra le quattordici ossa della faccia come la corda. Si direbbe che il condannato non subisca alterazioni. Una lama gli separa la testa dal collo, ma un ago da anatomopatologo ne può ricucire i pezzi e gli interessati possono rivederlo ancora tiepido, senza increspature, senza rughe, senza contorcimenti, senza sberleffi alle labbra. Basta mettergli un dolcevita a collo alto. La testa di un impiccato ha l’aria di un mostro e di una figura capace di tutti i delitti. È irriconoscibile. La testa di un ghigliottinato, invece, conserva la tranquillità di un operato sotto l’azione del cloroformio. Con gli occhi chiusi pare un addormentato. Nessuno può mettere in dubbio la sua identità. E questa vittima doveva essere riconosciuta.
Tuttavia, era ora di smettere con queste elucubrazioni filosofiche e dedicarsi alla vendetta, figlia illegittima della giustizia, che stava ormai per compiersi. La ragazza ormai non piangeva quasi più: conscia del proprio immutabile e prossimo destino, pur non essendo di fede cattolica, stava pensando che, proprio quel giorno, era Venerdì Santo e non era un bel giorno per morire, se non altro perché sei costretta all’anonimato contro la schiacciante immagine della Passione di Cristo. Un po’ come nascere a Natale, andare in America il dodici di Ottobre, far crollare dei palazzi l’undici Settembre: chi ti ha preceduto ti batterà sempre sul piano mediatico.
— È ora — la voce dell’incappucciato la riportò per un attimo al presente. L’indifferenza con cui azionò il meccanismo della discesa rapida della lama fu pari solo alla stessa indifferenza che provò la mannaia trapezoidale durante il suo breve percorso. La videocamera, essendo di ultima generazione, non era dotata di un nastro impressionabile
come i vecchi VHS, ma se avesse potuto sarebbe rimasta un pochino scioccata e turbata da quella scena; il viso della bella accompagnatrice conservava un leggerissimo e vago sorriso, un po’ come quello enigmatico e lievemente alcolico della Gioconda; il suo ultimo pensiero, perfettamente in linea con il suo stile di vita, e con gli ultimi pochi neuroni rimasti in attività, era stato: — E pensare che avrei voluto farmi cremare, molto più comodo. Anzi no, avrei voluto farmi cromare, molto più chic! Anzi no, meglio farsi laccare o caramellare, ancora più cool! Così i miei amici potrebbero organizzare un barbecue in mia memoria e scrivere una targa che dica Gli amici la ricordano così: gustosa. Anzi no,