Figli di El Alamein
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Anteprima del libro
Figli di El Alamein - Pasquale Scipione
Sisyphe
Prefazione
La più rozza delle idee confuse, sgomitando continuamente per farsi largo, cerca di emergere anche se tento continuamente di soffocarla. L’aria torrida della stanza rintrona per l’immanente minaccia di temporale, mentre per un attimo mi sfiora, suggestionato dalle letture mattutine, l’idea di capovolgere certe narrazioni del sommo Shakespeare. Oggi scrivono tutti di tutto: fake news, cazzate, qualche cosa seria nera, sempre però se c’è il nero altrimenti si va in bianco. E così sia. Voi pensate che straparlo? Forse sì, ci metto il forse solo per essere più convincente, per darvi uno spazio per rifletterci, perché già so che non è così. Non straparlo affatto, anzi ascolto molto in silenzio: il silenzio parla, suggerisce, tradisce, penetra, smaschera. Il che non è poco, visti i tempi e i templi da cui vengono sermoni, orazioni, distorsioni, contraddizioni, considerazioni, confusioni, confessioni, illusioni e anche rotture di… c******i. E non è tutto, se poi aggiungi che il tutto, miscelato, shakerato, zuccherato o avvelenato, lo sorbisci nel vissuto praticato.
Voglio scrivere un racconto: d’amore, storico, giallo, di fantascienza, erotico, pornografico? D’amore hanno scritto tutti di tutto che col tempo, il sangue rosso dell’amore è diventato rosa sbiadito; storico, da quando l’uomo ha imparato a scrivere passando dal linguaggio dei gesti a quelli dei simboli grafici ce n’è per tutti quelli che ne hanno fatto lettura a destra o a sinistra facendo concorrenza per fantasia, a quelli di fantascienza. Porno-erotico? Ce n’è in sovrabbondanza e la concorrenza è spietata, visto gli introiti economici che pare determinino il genere. È molto meglio leggere le immagini erotiche come preferiva Rimbaud che le parole. E allora che scegliere? Il giallo? C’è una tale folla di commissari, marescialli, ispettori, inquirenti inquietanti, investigatori e criminologi infine giudici competenti con chiaroveggenza infallibile, tantino indifferenti, che, se si radunassero nella valle di Josafat invece che davanti ai teleschermi, potrebbero processare il mondo intero, annientare per il futuro o addirittura per l’eternità, criminali di ogni specie germogliati nei prati gialli. Di recente vi hanno aggiunto nella schiera anche i don in abito talare.
Così mi ritrovo davanti alla pagina bianca, senza niente da raccontare. Mi giro intorno guardando oltre il balcone: non un alito di vento muove le foglioline del pergolato di sotto, né quelle piatte dell’albicocco o le puntute foglie del mandarino carico di frutta ancora acerba. Pur così verde sembrava un mondo morto nella sua totale immobilità.
Improvvisamente, forti raffiche di vento scuotono la trama dei rami. Sembrano spiriti che danzano festosi all’arrivo del sole da oriente riflettendo le loro ombre sul selciato appena umido dalla rugiada che fugge. Poi, dal groviglio di sterpi d’erba intessuti tra i rami della Crivillea, arriva un brusio, un canto. Mi guardo attorno un po’ spaventato. Non c’è nessuno neppure un’anima viva. Forse sono le anime degli alberi che festeggiano per propiziarsi la primavera ormai imminente. No, sono le tortorelle venute al mondo che si annunciano felici. E se gli uomini cantassero per comunicare invece di parlare o scrivere?
Sto divagando alla ricerca di un buon argomento da trattare per cominciare a tracciarne la trama. Quando ecco, un impercettibile silenzio, sollevandosi, mi suggerisce di non andare lontano nella ricerca: guardati dentro, guardati attorno, scava un po’ di più. Miscela bene con un po’ di storia, quella vera, un po’ di psicologia e vedrai che qualcosa esce. Non lo volevo fare. Rovistare gli abiti che hai addosso o quelli appesi nell’armadio accanto a quelli di persone con cui hai trascorso una vita per trovare un argomento è come rotolarsi in un cilindro foderato di cilicio. Non ti porta in paradiso, ma ti fa attraversare l’inferno. Così l’ho fatto, ho accettato la sfida e senza andare troppo lontano – si fa per dire - mi ritrovo in Africa e meno di un secolo fa. Quel che segue e ciò che è venuto fuori da questo viaggio: la storia di Pietro e Clara spiaggiatasi sulle sabbie mobili di un deserto in Cirenaica.
Pasquale Scipione
La caduta
«Avevo da poco messo a dimora sul divano del salone la mia artrosi, come faccio da tempo ormai; Clara aveva chiuso solo le persiane per far passare un po’ di frescura e così, pian piano, la sonnolenza era sopraggiunta. D’improvviso, un vociare concitato proveniente dal cortile mi ha risvegliato: il nostro è un condominio tranquillo e quegli schiamazzi mi risultavano decisamente inconsueti. Aprendo gli occhi, ho notato che Clara non era più seduta sulla sua poltrona ed ho provato a chiamarla: Clara, Clara, che succede?
.
Nessuna risposta. Sapevo che il suo udito non era più quello della gioventù per cui ho alzato il tono della voce. Ancora, nessuna risposta. Facendo uno sforzo doloroso sulle anche, a quel punto, mi sono alzato, credendo che fosse in cucina e non mi avesse sentito, ma lì non c’era. Così mi sono diretto nello studio e, trovando il balcone aperto, ho gettato uno sguardo di sotto più per curiosità che per altro: c’era un gruppetto di persone agitate, ma non perché avessero colto qualche malandrino a premere i citofoni delle abitazioni per divertirsi, a terra c’era il corpo di una persona. Mi sono avviato in fretta verso l’uscita sicuro che Clara fosse già di sotto e che non mi avesse avvertito solo per non svegliarmi. Arrivato giù sono rimasto paralizzato. Quel corpo era di Clara. Barcollando mi sono fatto spazio, mi sono avvicinato, le ho tastato il polso ed il collo e mi sono reso conto che respirava ancora malgrado le ferite riportate. Mi sono arrabbiato rimproverando tutti per non avermi chiamato subito, ma il mio vicino scusandosi mi ha risposto che – nella concitazione del fattaccio - si erano preoccupati di chiamare subito l’autoambulanza e non me».
Rodolfo che seguiva il racconto di Pietro con apprensione lo interruppe: «ma com’è andata a finire di sotto? È caduta? Si è buttata giù? Che stava facendo sul balcone?».
«Non lo so. Su quel balcone andava a stendere i panni da una vita. Posso solo escludere con certezza che si sia buttata giù, ma altro non riesco ad immaginare. Ovviamente cadere dal secondo piano dritta sul selciato, alla sua età per giunta, non rende difficile immaginare le terribili conseguenze, nonostante il soccorso immediato e l’impegno dei medici».
Su queste parole, Pietro si coprì il volto con le mani e tacque. Il suo amico Rodolfo cercò invano di consolarlo e, consapevole che in queste situazioni le parole valgono poco, gli promise di rimanere qualche giorno in più per stargli vicino, convinto com’era di non permettere alla solitudine di portarlo ad un gesto disperato.
L’interrogatorio
Il palazzone della caserma era collocato su di un lembo di terra posto tra la rotonda che portava in centro città ed un parco alle spalle, oggetto di una vecchia lottizzazione. Pietro conosceva bene quei luoghi che una volta erano periferia appetita per nuove speculazioni edilizie poco propense a tener conto della necessità di lasciare aree per servizi pubblici, come una caserma dei carabinieri. Aveva varcato quel portone tante altre volte per motivi professionali e conosceva bene il maresciallo Perrella che, in collaborazione con la scuola dove insegnava, aveva tenuto diverse conferenze con gli studenti nell’ambito del progetto Educazione alla legalità
.
D’altro canto, a sua volta, Pietro era piuttosto conosciuto per la sua attiva partecipazione alla locale vita politica e culturale, seppur drasticamente diminuita negli ultimi anni per motivi di lavoro.
Dopo l’incidente, proprio Pietro ed il maresciallo avevano avuto un lungo colloquio, tant’è che la convocazione in caserma di quel giorno l’aveva effettivamente meravigliato. I due si erano congedati cordialmente ritenendo chiuso il caso: si era trattato solo di un tragico incidente, di una caduta accidentale dal balcone della sua casa che, nonostante l’ospedalizzazione e le cure del caso, aveva consegnato Clara alla morte. Pietro comunque era lì, il piantone lo aveva accolto ed accompagnato in una stanzetta in fondo al corridoio, di nuovo al cospetto del maresciallo Perrella. Assistito da un carabiniere verbalizzante, il maresciallo gli porse gentilmente le sue condoglianze, per poi accomodarsi ed invitarlo a fare altrettanto. Si scusò per quella convocazione ma, essendo sopraggiunta la morte di Clara, era stato incaricato di svolgere indagini supplementari per accertare che si fosse trattato realmente di uno sfortunato incidente.
«Mi spiace per la morte di sua moglie e mi spiace ancor di più di averla dovuta scomodare nuovamente. Ho necessità di approfondire le indagini poiché dopo quelle preliminari si sono aggiunti fatti nuovi, per cui il giudice non ha ritenuto di poter chiudere il caso. Vi sono aspetti di quanto accaduto che alla Procura sembrano poco convincenti per catalogarli come incidente, considerato il successivo decesso, ed ho bisogno di acquisire tutte le informazioni possibili per poter arrivare alle corrette conclusioni. Anzi, le preannuncio che la