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Il Giovane Hitler che conobbi
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E-book358 pagine5 ore

Il Giovane Hitler che conobbi

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Uno dei più importanti testi per comprendere della figura di Hitler. August Kubizek descrive in che modo si formarono il carattere feroce, l'impareggiabile forza di volontà e l'implacabile sistematicità mentale del più ingombrante e scomodo personaggio del secolo scorso.

Durante l’adolescenza Hitler è un personaggio alla deriva: ha fallito a scuola, è disoccupato, respinto dall’Accademia d’Arte di Vienna, vive miseramente dipingendo cartoline.

Ma dietro quest’apparente inettitudine, Kubizek ci mostra il carattere di un uomo che, da questi inizi, grazie ad una personalità magnetica, diverrà il conquistatore più potente e terribile della storia moderna, riuscendo a mobilitare i peggiori istinti di rivalsa del popolo tedesco.

LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2019
ISBN9788869345838
Il Giovane Hitler che conobbi
Autore

August Kubizek

August Kubizek è noto per essere stato amico di Adolf Hitler che conobbe nel 1904, durante l'adolescenza. Entrambi frequentarano il Conservatorio a Vienna, i cui studi vennero portati a termine dal solo Kubizek che, divenuto Direttore d’orchestra, vide la sua carriera bloccarsi per lo scoppio della prima guerra mondiale. I due si ritrovarono a metà degli anni Trenta, durante l’Anschluss. Fu proprio quello il periodo in cui Hitler, divenuto Cancelliere, commissionò lo scritto che doveva ricostruire la loro amicizia. Alla fine della Seconda guerra mondiale Kubizek fu arrestato dal Commando di investigazione americano e tenuto prigioniero per più di un anno. Nel 1953 pubblicò il memoriale Il giovane Hitler che conobbi, in cui rivela particolari inediti sulla sua amicizia con il Führer.

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    Anteprima del libro

    Il Giovane Hitler che conobbi - August Kubizek

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, ottobre 2019

    Isbn 9788869345821

    e-Isbn 9788869345838

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Progetto grafico e disegno di copertina:

    Brozzolo Riccardo per Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    August Kubizek

    August Kubizek (03/08/1888-23/10/1956) è noto per essere stato amico di Adolf Hitler che conobbe nel 1904, durante l’adolescenza. Entrambi frequentarono per un anno il Conservatorio a Vienna, i cui studi vennero portati a termine dal solo Kubizek che, divenuto Direttore d’orchestra, vide la sua carriera bloccarsi per lo scoppio della Prima guerra mondiale, cui dovette partecipare.

    I due si ritrovarono a metà degli anni Trenta, durante l’Anschluss. Fu proprio quello il periodo in cui Hitler, divenuto Cancelliere, commissionò lo scritto che doveva ricostruire la loro amicizia.

    Alla fine della Seconda guerra mondiale Kubizek fu arrestato dal Commando di investigazione americano e tenuto prigioniero per più di un anno. Nel 1953 pubblicò il libro di memorie Il giovane Hitler che conobbi, in cui rivela particolari inediti sulla sua amicizia con il Führer, senza peraltro denigrarlo.

    Uno dei più importanti testi per comprendere della figura di Adolf Hitler. La testimonianza diretta dell’amico più intimo che il Führer abbia mai avuto, il documento della formazione di un tiranno.

    Il primo incontro

    Nacqui a Linz, il 3 agosto 1888. Mio padre, prima di sposarsi, vi sbarcava il lunario come garzone di un mobiliere, e con quel lavoro si pagava il pasto in una piccola locanda in cui conobbe mia madre che faceva la cameriera. S’innamorarono e, nel luglio 1887, si sposarono.

    Durante i primi tempi la giovane coppia si trasferì nella abitazione dei genitori di mia madre. A fronte di un duro lavoro, il salario che percepiva lui era basso, e quando rimase incinta di me mia madre dovette rinunciare al suo impiego. Nacqui perciò in condizioni piuttosto misere. L’anno seguente venne alla luce Maria, mia sorella, ma morì in tenera età; l’anno dopo nacque Teresa, la quale pure lei morì, all’età di quattro. Karoline, la mia terza sorella, si ammalò in modo grave, resistette qualche anno, infine morì all’età di otto. Mia madre venne invasa da un dolore inconsolabile a causa di queste tragedie. Visse costantemente nel terrore di perdere anche me, visto che ero l’unico dei quattro figli rimasti. E pertanto mi riversò addosso tutto il suo amore.

    Con il tempo, mio padre riuscì ad aprirsi una bottega di tappezziere tutta sua, al numero 9 di Klammstrasse. La vecchia Baernreiterhaus, sgraziata e squadrata, che ancora si trova lì come se nulla l’abbia sfiorata, fu la casa della mia infanzia e giovinezza. L’angusta e cupa Klammstrasse, in confronto all’ampio e soleggiato lungofiume lì dappresso, con i suoi alberi e i suoi prati verdi, appariva ancora più misera.

    Le malsane condizioni abitative di cui soffrivamo contribuirono senza dubbio a provocare la morte precoce delle mie sorelle, ma la Baernreiterhaus era tutt’altra cosa, benché mio padre ancora non si fosse ancora svincolato del tutto dalle sue urgenze economiche. Al piano terra era ubicato il suo laboratorio, mentre al primo piano si trovava il nostro appartamento, due stanze e una cucina. Gli affari gli andavano male, a più riprese pensò di chiudere l’attività e di riprendere l’impiego salariato, ma ogni volta riusciva a superare gli ostacoli all’ultimo minuto.

    Iniziai la scuola e si tradusse in un’esperienza piuttosto traumatica. Mia madre si struggeva per i pessimi voti che le portavo e soltanto il dolore che le leggevo in volto mi spingeva ad impegnarmi di più. Se per mio padre non v’era dubbio che a suo tempo dovessi rilevare la sua attività - a quale scopo altrimenti faceva lo schiavo dalla mattina alla sera? - l’ambizione di mia madre era che continuassi a studiare nonostante gli scoraggianti risultati; avrei dovuto completare i quattro anni di scuola di grammatica e poi iscrivermi a un collegio di formazione per diventare insegnante. Ma io non la pensavo a questo modo. Quando mio padre decise di mandarmi a dieci anni alla scuola pubblica ne fui contento. Egli, dal canto suo, pensò di aver determinato definitivamente il mio futuro.

    Per molto tempo ci fu un’altra influenza nella mia vita, per la quale avrei venduto l’anima: la musica. Questo amore sbocciò vivacemente a nove anni, dopo che ebbi ricevuto come regalo di Natale un violino. Ricordo ogni singolo istante di quel Natale, e quando oggi, da vecchio, ci ripenso, mi convinco che la mia vita cosciente abbia avuto precisamente inizio proprio da lì. Il figlio maggiore del nostro vicino di casa, un giovane allievo-insegnante, mi diede le prime lezioni. Imparai bene e rapidamente.

    Quando questo mio primo insegnante di violino ottenne un impiego nella regione, io entrai al Conservatorio di Linz, ma non mi piacque molto, forse anche perché possedevo conoscenze molto più avanzate rispetto agli altri alunni.

    Finite le vacanze natalizie, ripresi le lezioni, ma con un vecchio sergente maggiore della Banda Musicale dell’esercito austroungarico, il quale fu molto chiaro sin da subito sul fatto che di musica non sapessi nulla e che in un modo direi assai ‘militaresco’ cominciò ad impartirmi i rudimenti dello strumento., E in effetti, si trattava di vere e proprie esercitazioni da piazza d’armi con il vecchio Kopetzky. Quando ne avevo proprio abbastanza delle sue maniere rudi da sergente, Kopetzky mi esortava con la promessa che se avessi seguitato con impegno sarei riuscito di certo a farmi prendere come apprendista nell’esercito, il che a suo parere costituiva la massima ambizione per un musicista.

    Interruppi le lezioni con lui ed iniziai a frequentare la classe intermedia del Conservatorio, sotto la guida del professor Heinrich Dessauer, un insegnante di talento, scrupoloso e sensibile. Studiavo al contempo la tromba, il trombone, la teoria musicale, e suonavo nella banda studentesca. Già accarezzavo il sogno di vivere di musica, quando l’impietosa realtà fece capolino a tarparlo. Terminata la scuola pubblica, mio padre mi reclamò in qualità di aiutante apprendista.

    Benché quel compito mi fosse familiare, poiché in passato avevo già aiutato mio padre in laboratorio, quando v’era stata carenza di manodopera, ritappezzare vecchi mobili, svuotarli e riempirli di nuova imbottitura mi risultava ripugnante: tra nugoli di polvere, il misero apprendista boccheggiava, e che materassi da quattro soldi la gente si trascinava dietro fin alla bottega! Tutti i malanni che erano stati sconfitti da chi vi si era steso sopra - nonché alcuni che non lo erano stati - avevano inciso il proprio marchio su quei vecchi materassi. Non c’è da stupirsi che i tappezzieri non vivano a lungo. Ad ogni buon conto, ben presto venni anche a conoscenza degli aspetti positivi di quel lavoro: per svolgerlo è necessario essere provvisti di un certo buon gusto e di una sensibilità artistica, il che non lo rende molto dissimile dall’arredamento d’interni. Esso dava poi la possibilità di visitare le dimore dei benestanti, vedere e udire un mucchio di cose, nonché, cosa fondamentale, visto che in particolar modo durante l’inverno c’era poco o nulla da fare, questo tempo libero poteva essere dedicato alla musica.

    Dopo aver superato con successo l’apprendistato, mio padre intese procurarmi un posto in altre botteghe. Le sue intenzioni erano chiare, tuttavia la cosa che per me era importante era l’avanzamento degli studi musicali, non il miglioramento delle mie competenze di operaio. Ecco perché scelsi di rimanere nel suo di laboratorio, dimodoché potessi disporre del mio tempo con maggiore agio di quanto avrei potuto fare alle dipendenze di un estraneo.

    ‘‘Generalmente, ci sono troppi violini in un’orchestra, ma in nessun caso abbastanza viole’’. Tutt’oggi rimango riconoscente al professor Dessauer, il quale seguì questa massima nei miei confronti e mi trasformò in un buon suonatore di viola. La vita musicale a Linz a quei tempi era eccellente; August Göllerich ricopriva l’incarico di direttore della Società sinfonica. Discepolo di Liszt, collaboratore di Richard Wagner a Bayreuth, Göllerich rappresentava la massima autorità musicale a Linz, tanto vituperata quale ‘‘città di contadini’’. La Società teneva annualmente tre concerti sinfonici e un concerto speciale in città, in occasione del quale, di solito, veniva eseguita un’opera corale con l’orchestra. Mia madre, che nonostante le sue umili origini amava la musica, non si perdeva quasi mai uno di questi spettacoli. Sin da ragazzino mi portava ai concerti spiegandomi ogni cosa, e io, non appena iniziai a padroneggiare diversi strumenti, li apprezzai sempre di più. Il mio sogno più ambizioso era suonare un giorno in quell’orchestra, la viola o la tromba. Per il momento bisognava riparare vecchi materassi polverosi e tappezzare pareti.

    In quegli anni mio padre soffrì seriamente delle classiche malattie da tappezziere. Quando un problema ai polmoni ad un certo punto lo costrinse a letto per sei mesi, fui io che dovetti mandare avanti da solo il laboratorio. Nel corso della mia giovinezza così feci convivere in me due cose, fianco a fianco, ovvero il lavoro, che mi spossò non solo le forze ma anche i polmoni, e la musica, che era il mio unico amore. Non avrei mai pensato che ci potesse essere un collegamento tra i due, e pur tuttavia ci fu. Uno dei clienti di mio padre era un membro del governo provinciale, organo che controllava anche il teatro. Un giorno quest’uomo venne al laboratorio per far riparare i cuscini di una serie di mobili in stile rococò. Quando il lavoro fu compiuto, mio padre mi mandò a consegnarli al teatro. Il direttore di scena mi indirizzò verso il palco, dove avrei dovuto risistemare i cuscini. Quel giorno era in corso una prova. Non rammento quale pezzo stessero provando, ma si trattava senz’altro di un’opera. Ricordo bene invece la magia che mi suscitò il ritrovarmi lì sul palco, in mezzo ai cantanti. Mi sentii rinato, come se solo allora, per la prima volta, stessi scoprendo me stesso. Il teatro! Che mondo fantastico! Un uomo se ne stava lì in piedi, inghingherato in modo meraviglioso, e appariva ai miei occhi la creatura di un altro pianeta. Cantava con così tanta gloria che non riuscivo a figurarmi come potesse parlare in modo ordinario nella vita di ogni giorno. Rispondeva alla sua voce potente, l’orchestra. Pur trovandomi in un contesto assai familiare, quello musicale, pur tuttavia quanto la musica aveva rappresentato per me fino a quel momento mi parve assolutamente privo di ogni significato. Esclusivamente in combinazione con il proscenio teatrale la musica pareva culminare nella sua più altisonante e solenne espressione, la vetta più elevata che si possa immaginare. E io, un miserabile, minuscolo tappezziere, me stavo lì a sistemare i cuscini su quelle poltrone rococò, svolgendo quale pietoso lavoro! Che grama esistenza! Teatro, ecco la parola che avevo così lungamente cercato. Realtà e fantasticherie iniziarono a fondersi nella mia mente sovraeccitata. Il tipetto impacciato, coi capelli arruffati, in grembiule e maniche di camicia arrotolate, che se ne stava dietro le quinte ad armeggiare con i suoi cuscini, come per giustificare la sua presenza - era proprio solo un povero tappezziere? Un dozzinale, modesto sempliciotto disprezzato, sballottato di qua e di là dai clienti e trattato quale fosse una scala, piantato a destra e a manca a seconda del bisogno del momento e, poi, una volta che non serviva più, messo da parte? Non sarebbe stato forse assolutamente nell’ordine delle cose se quel piccolo tappezziere, con i suoi arnesi tra le mani, si fosse fatto avanti verso le luci della ribalta e, a un cenno del direttore d’orchestra, avesse cantato la sua parte per dimostrare al pubblico in platea, anzi a un mondo attento, che in realtà non era solo quel pallido spilungone del negozio di Klammstrasse, bensì un artista che avesse tutto il diritto di occupare il proprio posto sul palco del teatro?

    Da quel momento rimasi prigioniero dell’incantesimo del teatro. Lavando le pareti in casa di un cliente, applicando la colla, apponendo una mano di fondo di giornali e poi incollando la carta da parati, mi smarrivo senza requie a sognare un fragoroso applauso nel teatro, vedendomi come direttore di fronte a un’orchestra. Quel fantasticare non mi agevolava di certo il lavoro, e talvolta accadeva che i ritagli di carta da parati risultassero disallineati. E poi, di ritorno al laboratorio, la vista di mio padre malato mi faceva capire all’istante a quali responsabilità dovessi sottostare.

    E così oscillavo tra realtà e finzione. In famiglia, alcuno percepiva quel mio stato d’animo; piuttosto che confidare le mie segrete ambizioni, mi sarei morso la lingua. Anche a mia madre tenevo nascosti le mie aspirazioni e i miei progetti, benché lei, forse, si figurava ciò che occupava i miei pensieri. Ma come avrei potuto aggiungere altre preoccupazioni? Il risultato era che non avevo nessuno con cui sfogarmi. Mi sentivo perdutamente solo, un isolato, così solitario come solo un giovane cui si è svelata per la prima volta la bellezza della vita e la sua pericolosità può esserlo.

    Il teatro fece germogliare in me un rinnovato coraggio. Non perdevo un solo spettacolo. Dopo il lavoro, anche se esausto, alcunché poteva tenermi lontano dal teatro. Ovviamente, con i piccoli salari che mio padre mi dispensava, non potevo permettermi che un biglietto che dava diritto ai posti in piedi. Mi recavo perciò alla cosiddetta ‘‘Promenade’’, dalla quale si aveva la visuale migliore, e, d’altro canto, non ebbi mai modo di trovare altro posto con un’acustica migliore.

    Proprio sopra la Promenade era disposto il palco reale, sorretto da due colonne di legno. Queste colonne tra gli habitué della Promenade erano assai popolari, poiché erano gli unici espedienti perché uno potesse sostenersi e al contempo godere di una visuale indisturbata sul proscenio. Se ti appoggiavi infatti contro le pareti, queste stesse colonne finivano con lo ostacolare immancabilmente il tuo campo visivo. Per quel che mi riguardava, dopo aver trascorso una faticosa giornata in cima alla scala, ero ben felice di poter riposare la schiena stanca a quelle lisce colonne! Naturalmente, bisognava recarsi al teatro alquanto di buon’ora per accaparrarsi quei posti.

    Sono le cose banali non di rado a tracciare una scia durevole nella memoria: riesco tuttora a vedermi correre dentro, irresoluto se scegliere la colonna di destra o quella di sinistra. Molto spesso, tuttavia, una delle due, solitamente quella di destra, era già occupata da qualcuno ancor più entusiasta di me. Tra l’infastidito e il sorpreso, fissavo questo mio rivale, un giovane pallido, allampanato, più o meno della mia età, il quale seguiva lo spettacolo con gli occhi lucidi, ipotizzando che appartenesse a una classe più elevata della mia, a giudicare dalla meticolosa cura con la quale vestiva e dai suoi modi riservati.

    Ci notammo a vicenda senza scambiare una parola. Poi, qualche tempo dopo, nel corso dell’intervallo di uno spettacolo, iniziammo a parlare della nostra comune disapprovazione relativa all’esecuzione di una scena. Discutendo, ci rallegrammo del nostro comune punto di vista critico. La sua sicumera, mi colpì subito. Egli era in ciò senza dubbio superiore a me, ma in fatto di questioni puramente musicali io mi sentivo superiore a lui. Ebbene, mi sfugge la data esatta di quel nostro primo incontro, ma sono abbastanza certo che si trattasse di un giorno assai prossimo alla festa di Ognissanti dell’anno 1904.

    Quella prima discussione si protrasse tra noi per un po’ di tempo - durante il quale egli non rivelò nulla dei suoi affari personali, né io pensai minimamente fosse necessario parlare dei miei. Senonché, ci mettemmo a discutere con sempre maggiore trasporto di tutti gli spettacoli a cui avevamo assistito fino ad allora, intuendo che entrambi nutrivamo la medesima passione per il teatro.

    Quando lo spettacolo terminò, lo accompagnai a casa, al numero 31 di Humboldtstrasse. Nel congedarci, mi rivelò il suo nome: Adolf Hitler.

    Il rafforzamento di un’amicizia

    Da quel primo incontro ci vedemmo ad ogni rappresentazione all’Opera, e anche fuori dal teatro, andando a passeggiare quasi tutte le sere lungo la Landstrasse. Linz negli ultimi dieci anni è diventata una moderna città industriale e ha attratto gente dall’intera regione del Danubio, ma a quel tempo rimaneva ancora una cittadina di campagna. Tozze fattorie simili a fortini sorgevano nelle periferie, e le abitazioni popolari stavano appena spuntando nei pressi dei campi ove pascolava ancora il bestiame. La gente sedeva nelle piccole taverne bevendo il vino locale, ovunque si adoperava il dialetto, lungo le vie cittadine circolavano esclusivamente carrozze, e i loro vetturini contribuivano a palesare come Linz rimanesse intimamente ‘campagna’. La gente di città, benché in gran parte di origine contadina e spesso imparentata strettamente alla gente di campagna, tendeva a distaccarsi da quest’ultima più intimamente di quanto i campagnoli cercassero di avvicinarla. Quasi tutte le famiglie di un certo peso in città si conoscevano tra loro; il mondo del commercio, quello dei dipendenti pubblici e la forza militare determinavano il tenore della società. I personaggi che contavano effettuavano la loro passeggiata nelle ore serali, percorrendo la strada principale che dalla stazione ferroviaria conduce al ponte sul Danubio, chiamata in modo significativo ‘‘Landstrasse’’. Nonostante Linz non possedesse un’università, i giovani d’ogni ceto si mostravano desiderosi di emulare i vezzi degli studenti universitari. La vita sociale lungo la Landstrasse poteva da questo punto di vista quasi competere con quella della Ringstrasse di Vienna, o per lo meno così la pensavano gli abitanti di Linz.

    Adolf non pareva avere tra le sue qualità principali il dono della pazienza. Tutte le volte che capitava giungessi in ritardo per un appuntamento si recava immediatamente al laboratorio a prendermi, e non gli importava affatto se stessi riparando un vecchio sofà di crine o un’antiquata poltrona, o qualsiasi altra cosa. Il mio lavoro per lui non costituiva altro che un fastidioso ostacolo alla nostra amicizia. Con impazienza, faceva roteare il piccolo bastone nero da passeggio che si portava sempre dietro.

    Ero sorpreso che disponesse di così tanto tempo libero e in un’occasione gli domandai con innocenza se avesse un lavoro.

    ‘‘Certo che no’’ rispose con una certa alterigia.

    Tale risposta, che mi parve piuttosto insolita, ebbe poi modo di chiarirla. Adolf reputava che nessun lavoro, specie un ‘‘lavoro da pane e burro’’, come lo chiamava, fosse a lui necessario.

    Non avevo mai udito prima un’opinione del genere. Contrastava con tutti i principi che fino ad allora avevano governato la mia vita. Sulle prime, non ravvisai altro nel suo discorso che una giovanile sbruffoneria, e non mi fecero nessuna impressione particolare né la sua risolutezza, né i modi seri e sicuri con cui parlava, simili a quelli di un millantatore. Pur essendo rimasto molto sorpreso, mi trattenni dal chiedergli, almeno per il momento, ulteriori chiarimenti, anche perché dava l’impressione di essere assai poco disponibile verso domande a lui poco gradite, e questa era un tratto di lui che avevo già compreso. Ebbene, ritenni più saggio in quella circostanza spostare il discorso dai nostri affari personali al Lohengrin, l’opera che tanto ci aveva estasiato. Forse, Adolf era figlio di genitori ricchi, pensai, oppure aveva appena ereditato una fortuna e poteva permettersi di vivere senza un ‘‘lavoro da pane e burro’’ - quanto era il disprezzo con cui quest’espressione gli suonava in bocca! In alcun modo, comunque, immaginavo che fosse un lavativo, perché in lui non c’era una sola briciola di spensierata fannulloneria. Si scagliava con vigore, anzi, passando davanti al caffè Baumgartner, contro quei giovani che si mettevano in mostra ai tavolini di marmo dietro le grandi vetrate, gettando alle ortiche il loro tempo, perduti in pettegolezzi, senza rendersi apparentemente conto di quanto quell’indignazione contraddicesse il suo modo di vivere. E poi era probabile, in fondo, che qualcuno di quei giovani seduti ‘in vetrina’ possedesse già un buon lavoro e un reddito sicuro.

    Adolf, dunque, era uno studente? La mia prima impressione era stata questa. Il bastone da passeggio di ebano nero, sormontato da un’elegante impugnatura d’avorio, era un tipico accessorio da studente. Eppure, appariva insolito che scegliesse come amico un umile tappezziere, qual ero io, perseguitato dal timore perenne che la gente potesse avvertire l’odore di colla con cui aveva lavorato durante il giorno. Se fosse stato davvero uno studente, avrebbe dovuto frequentare una qualche scuola. Così portai d’improvviso la conversazione proprio sull’argomento.

    ‘‘Scuola?’’. Fu questa la prima occasione in cui sperimentai l’energia esplosiva del suo temperamento. Guai a parlargli di scuola! Non era più affar suo, la scuola, disse. Odiava gli insegnanti e non li salutava neanche più, e odiava finanche i suoi compagni, i quali, dichiarò, erano stati trasformati dalla scuola in buono a nulla.

    No, non mi era permesso di parlare della scuola. Gli raccontai di quanto poco successo avessi riscosso in quell’ambito.

    ‘‘Il motivo?’’ volle sapere. Non gli piaceva affatto che avessi fallito a scuola, nonostante tutto il disprezzo che nutriva per la stessa.

    Non potei che rimanere confuso da questa contraddizione. Ma tutto quanto riuscii a comprendere da ciò che mi disse fu che fino a poco tempo prima doveva aver frequentato la scuola, probabilmente una scuola di grammatica o forse un istituto tecnico, e che questa sua esperienza era finita presumibilmente in un modo disastroso. Quella sua assoluta negazione altrimenti sarebbe stata difficilmente comprensibile.

    Per il resto, mi offrì di se stesso un’immagine sempre poco chiara, incoerente, enigmatica. A volte, mi sembrava quasi sinistro.

    Un giorno, nel corso di una passeggiata, si arrestò d’improvviso e cavò dalla tasca un piccolo taccuino nero - lo vedo ancora davanti agli occhi e potrei descriverlo minuziosamente - e mi lesse una poesia che aveva scritto. Questo componimento non lo ricordo più, ormai, o per essere precisi non riesco a distinguerlo dagli altri che mi lesse in seguito. Rammento però con precisione l’effetto che sortì in me il fatto che il mio amico componesse poesie e se le portasse in giro come io portavo i miei attrezzi. Quando poi mi mostrò i suoi bozzetti e i disegni - alcuni confusi e altri per me davvero incomprensibili - e mi informò che nella sua stanza ne possedeva molti e assai migliori, nonché che fosse determinato a dedicare la sua intera vita all’arte, solo allora realizzai che genere di individuo fosse davvero il mio amico: egli apparteneva a quella particolare categoria sulla quale io stesso avevo fantasticato nei miei momenti più ispirati: la categoria degli artisti, sprezzanti il mero lavoro da pane e burro, dediti alla poesia, al disegno, alla pittura e al teatro. Tutto questo mi colpì enormemente, e fui turbato dalla grandezza che vidi in lui. L’immagine che nutrivo di un artista era ancora piuttosto vaga - probabilmente tanto vaga quanto lo era quella di Hitler - ma ciò rendeva il tutto ancora più seducente.

    Pur parlando molto, Adolf lo faceva raramente a proposito della sua famiglia. Soleva dichiarare che era meglio non mescolarsi troppo con gli adulti, in quanto con le loro idee particolari essi intendevano solo distogliere un giovane dai suoi progetti. Per esempio, il suo tutore, un contadino di Leonding, di nome Mayrhofer, si era messo in testa che lui, Adolf, dovesse apprendere un mestiere. E anche suo cognato era della stessa opinione.

    Potevo solo concludere che le relazioni di Adolf con la sua famiglia dovessero essere un po’ fuori dall’ordinario. Tra tutti gli adulti, egli accettava una sola persona, sua madre (eppure, aveva solo sedici anni, nove mesi meno di me).

    Nonostante le sue idee differissero dalle concezioni borghesi, ciò non mi preoccupava affatto - anzi! Era proprio questo, ovvero che Adolf fosse fuori dal comune, che mi attirava ancora di più. Dedicare la propria vita all’arte rappresentava, secondo il mio giudizio, la più grande decisione che un giovane potesse assumere; perché segretamente anch’io mi trastullavo con l’idea di sostituire il polveroso e rumoroso laboratorio da tappezziere con i puri e nobili campi dell’arte, donando la mia vita alla musica. Nonostante per i giovani sia del tutto irrilevante in quale ambiente abbia inizio la loro amicizia, a me appariva simbolico che la nostra fosse sorta in teatro, tra scenari brillanti, al suono possente di ottima musica. In un certo senso, quella nostra stessa amicizia si nutriva di questa gaia atmosfera. In più, le mie idee non era dissimili da quelle di Adolf. Mi ero messo anch’io alle spalle la scuola, perché essa non poteva darmi nient’altro. Al di là dell’amore e della devozione che nutrivo per i miei genitori, gli adulti non significavano molto per me. E, soprattutto, nonostante i numerosi problemi che mi affliggevano, non c’era nessuno con cui potessi confidarmi.

    Invero, la nostra fu un’amicizia difficile agli inizi, a causa dei nostri caratteri completamente diversi. Io ero un tipo tranquillo, alquanto sognatore, molto sensibile e malleabile, quindi sempre incline a cedere — per così dire, un ‘carattere musicale’. Adolf invece era estremamente brusco e nervoso. Minuzie banali, come ad esempio un paio di parole dette alla leggera, potevano produrre in lui vere e proprie eruzioni, che io reputavo spropositate rispetto alla rilevanza di ciò di cui si parlava. Ma con ogni probabilità non comprendevo Adolf in questo aspetto. Forse, la differenza tra noi consisteva nel fatto che lui prendeva sul serio ciò che a me risultava poco importante. Senz’altro, questo era uno dei suoi tratti tipici: tutto suscitava il suo interesse e lo sollecitava - a nulla era indifferente.

    Comunque, a dispetto di tutte le difficoltà derivanti dai diversi temperamenti, la nostra amicizia non fu mai messa in serio pericolo, né, come tanti altri giovani, diventammo freddi e indifferenti con il tempo. Al contrario! Nelle cose di tutti i giorni mettevamo tanta cura per non scontrarci e, sembra strano, ma era proprio lui che poteva imporre con così tanta ostinazione il suo punto di vista, che si dimostrava anche in grado di mostrarsi tanto riguardoso a volte da farmi sentire in forte imbarazzo. E così, col passare del tempo, ci abituammo sempre di più al rispettivo carattere dell’altro.

    Presto iniziai anche a capire che la nostra amicizia resisteva principalmente per via della mia inclinazione ad ascoltatore paziente. Non mi pesava questo ruolo passivo, in quanto mi faceva capire quanto il mio amico avesse bisogno di me: anche lui era completamente solo; suo padre era morto due anni prima; per quanto amasse sua madre, lei non era in grado di capire i suoi problemi. Dunque, ricordo come avesse l’abitudine di propinarmi lunghe lezioni su questioni che non mi interessavano affatto, come ad esempio l’accisa applicata al ponte sul Danubio, o una colletta raccolta per le strade per una lotteria di beneficenza. Aveva semplicemente necessità di parlare e di qualcuno che volesse ascoltarlo. Rimanevo spesso sorpreso quando mi faceva un discorso accompagnandolo da ampi gesti vivaci, benché ci fossi solo io con lui. Non era mai demoralizzato che fossi l’unico suo ascoltatore. Un giovane che come lui era appassionato di tutto ciò che aveva visto e vissuto doveva trovare sfogo per i suoi sentimenti tempestosi. La tensione che sentiva dentro si alleviava solo quando discorreva enfaticamente di queste cose. Tali discorsi, solitamente tenuti da qualche parte all’aperto, sembravano eruzioni vulcaniche. Era come se qualcosa, distante da lui e che non gli apparteneva propriamente, erompesse dal suo corpo. Un tale delirio fino ad allora l’avevo visto solo al teatro, quando un attore doveva esprimere alcune emozioni violente, e agli inizi della nostra conoscenza, di fronte a questi suoi scoppi, riuscivo solo a rimanere a bocca aperta, passivo, dimentico persino di applaudire. Poi cominciai a rendermi conto che non si trattava di rappresentazioni teatrali. No, non erano recite, non vi era esagerazione, Adolf le sentiva veramente, e io vedevo il suo sincero coinvolgimento.

    Gradualmente finii per stupirmi sempre di più della grande eloquenza con cui si esprimeva, della vividezza con cui era capace di trasmettere i suoi sentimenti, della facilità con cui le parole sgorgavano dalla sua bocca quando si lasciava rapire completamente dalle emozioni. Non mi impressionava tanto quello che diceva, ma come lo diceva. Era qualcosa di nuovo, di magnifico. Non avevo mai pensato che un uomo potesse produrre un tale effetto con delle semplici parole. Tutto ciò che mi chiedeva era una cosa - l’intesa. E lo capii ben presto. E non mi fu affatto difficoltoso manifestargli la mia approvazione, dato che non avevo mai riflettuto sui tanti problemi che egli sollevava.

    Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare alla nostra amicizia quale un rapporto unidirezionale. Sarebbe stato troppo vantaggioso per Adolf e troppo poco soddisfacente per me. Il tratto saliente del nostro legame viceversa consisteva nell’essere complementari. In lui, tutto provocava una forte reazione e lo costringeva a prendere una posizione; i suoi scoppi emotivi erano esclusivamente un sintomo del

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