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L'uomo Che Non Baciava Le Donne
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L'uomo Che Non Baciava Le Donne
E-book253 pagine3 ore

L'uomo Che Non Baciava Le Donne

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Info su questo ebook

Il romanzo fin da subito si addentra in un mistero: chi è il giovane psichiatra che narra in prima persona i suoi turbamenti, i dubbi sulle sue origini e sull’identità dei suoi genitori? E chi è quell’anziano conoscente che si prende cura di lui ormai giovane adulto, e che gli affida un incarico misterioso riguardo tre strani pazienti ricoverati da tempo nel nosocomio in cui lo chiama a prendere servizio? A poco a poco, grazie a sapienti flash back, conosceremo l’infanzia e la giovinezza di un uomo feroce e potente cresciuto in un mondo crudele, un amico fraterno, una passione segreta… Tramite l’artifizio di un amore celato a tutti, l’autore indaga la personalità del dittatore più efferato dello scorso secolo e narra i momenti più drammatici che ne hanno segnato la giovinezza, portandolo a diventare una delle personalità più controverse della storia dell’umanità. Tutto questo coinvolgendoci nella sua follia e facendoci appassionare e soffrire con lui e la sua Nanny, fino a quando la parabola del male più assoluto si chiuderà nel modo più inatteso.
LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita26 ago 2020
ISBN9781547534234
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    L'uomo Che Non Baciava Le Donne - MOHAMED BOUZITOUNE

    L’uomo che non baciava le donne

    Il rumore di un bacio non è forte quanto un colpo un cannone, ma dura infinitamente di più. Nessun amore è più vero di quello che non viene rivelato.

    Vienna, 6 febbraio 1972

    PRIMA PARTE

    Non posso rivelarvi il mio nome, le mie origini e tanto meno da dove provengo, perché se anche lo facessi, non potrei essere sincero. È cambiato tutto in così poco tempo per me, in maniera inaspettata e sconvolgente, al punto che io, psichiatra di successo abituato ai più singolari deliri della mente umana, oggi considero la mia vita stessa totalmente inverosimile.

    Gli anni passati negli ospedali austriaci (i più intensi della mia vita) si sono ultimamente trasformati in un universo informe e caratterizzato da una logica inquietante. Sto forse diventando pazzo? Non sarebbe raro per un medico come me, ma non è così: cerco solo di mettere ordine nel caos della mia esistenza. Sembra un paradosso, eppure ora so che il mio passato, i miei genitori e tutto ciò che consideravo come capi saldi della mia esistenza, altro non sono che un intricato dedalo di bugie...ed io non so più niente di me, né tanto meno di quello che farò in futuro. Non lo so, semplicemente non lo so. Lasciate che vi racconti come sono giunto fin qui.

    Fino ai tredici anni conducevo una vita normale. Vivevo nella regione del Mittelland, in un quartiere tranquillo di Berna chiamato Gäbelbach. Avevo genitori affettuosi, una casa confortevole e tranquilla, amici e vicini di casa affabili.

    Mio padre si chiamava Klaus Hüttler e faceva il notaio, mia madre, Ada Strauss, era maestra d’asilo. Non erano diversi dalla maggior parte dei membri della borghesia svizzera: baci, abbracci, regali per i compleanni o i successi scolastici. Ero abituato a chiedere poco, anche perché i miei genitori sembravano anticipare ogni mia richiesta.

    Mi colmavano di attenzioni; anche se ora che valuto le cose da una prospettiva diversa, mi pare che i loro modi affettuosi fossero eccessivamente servili. Ricordo con particolare dolcezza le passeggiate del sabato pomeriggio lungo i portici della città vecchia, fino alla cattedrale di Münster, o la Fiera della cipolla a cui ci recavamo ogni agosto.

    Mio padre sembrava alquanto insulso nella sua fisionomia, a volte addirittura tonto, ma io gli volevo bene così, con quella formalità tipica del suo lavoro. Invece credo che mia madre mi amasse sinceramente: sapeva leggere nei miei occhi quando ero triste o preoccupato, persino quando le mentivo. I suoi abbracci furono sempre un prezioso rifugio, davanti a qualsiasi timore irrazionale o stupidaggine commessa. Non mi parlava mai dei primi anni della mia vita, di quelle emozioni che le mamme provano davanti ai primi passi o le prime parole, né mi raccontava alcun aneddoto familiare tipico della prima infanzia. Sorrideva e diceva: "Sei sempre stato un fanciullo buono e curioso, come adesso...". Io mi accontentavo di quella risposta vaga, benché non fossi capace di associarvi nessuna immagine di me. Non riuscivo a vedermi come un bambino piccolo, eccetto che in alcuni rari incubi proiettati dalla mia mente: erano come abbaglianti esplosioni che mi rendevano sordo, impedendomi di percepire qualsiasi rumore intorno a me. Però in quelle rare visioni non apparivano che ombre evanescenti, che volavano o cadevano in oscuri abissi. A volte mi ricordavano quelle feste notturne illuminate dai fuochi d’artificio che si svolgono in alcuni paesi del sud.

    Sembravano quasi un gioco di specchi in cui le mie domande assurde tendevano a creare una realtà parallela, popolata soltanto da immagini riflesse e confuse, che si dimostrava fragile come un vetro inesistente se tentavo di afferrarla. Facevo smorfie, gesticolavo, mi muovevo, avevo la sensazione di osservare qualcuno che mi somigliasse, la cui essenza era là, fuori o dentro di me.

    Quando non riuscivo a dormire, nel mio letto ripensavo a quelle immagini e finivo per sognarle ancora. Mi sentivo solo, e non capivo come mai non avessi fratelli o sorelle. Se chiedevo spiegazioni in merito, vedevo che mia madre arrossiva e mio padre diventava inquieto, e con una certa rigidità diceva: "Figlio, non è stato facile per noi diventare genitori: quando sei nato, tua madre si è ammalata. Forse è per questo che non abbiamo voluto mettere a rischio la sua vita con una seconda gravidanza. Scusaci. Comunque non ti devi preoccupare: i figli unici come noi sono più coccolati e non devono spartire le proprie cose con altri". Questo era ciò che meno mi piaceva sentire di quella ricorrente cantilena: niente mi sarebbe piaciuto di più che avere un fratello, che mi fosse complice o avversario.

    Non l’ho mai detto loro, però una volta chiesi spiegazioni al dott. Singer, nostro medico di famiglia e amico d’infanzia di mio padre, che sempre si occupava noi. Chiesi con l’innocenza tipica dei bambini: "Fu molto grave mia madre quando io nacqui?. A quella domanda, il medico affermò che lei non era mai stata malata, se non qualche raffreddore. Una salute di ferro!" diceva. Io sorridevo, ma era chiaro che qualcuno mi stava mentendo. In quel momento però non mi importava più di tanto: avevo molti amici tra i giovani del quartiere e del collegio e ne combinavamo di tutti i colori. Difficilmente venivo punito, tranne quando con Gunther e Ralph entrammo dalla finestra nella cappella della scuola e rubammo alcune candele...ma fu una ragazzata.

    La mia famiglia mi appariva benestante, anche se non potrei definirla ricca. Tuttavia notavo alcune contraddizioni tra gli introiti di mio padre e il collegio Herberststrass dove studiavo: era una delle scuole più costose e rinomate della città, e le famiglie dei miei compagni di classe erano le più importanti di Berna. L’educazione era rigida e impartita rigorosamente in lingua tedesca; venivano organizzate attività extracurricolari, come la messa in scena di opere teatrali medioevali di origine germanica. L’impegno economico era ingente. Io cercavo di spiegarmi l’apparente incoerenza tra la rigorosa educazione scolastica che ricevevo e la relativa liberalità di casa mia, tra la modesta agiatezza dei miei genitori e le alte spese sostenute. Davanti a qualsiasi osservazione da parte mia, rispondevano che non dovevo preoccuparmene, in quanto avrebbero fatto qualsiasi cosa per il mio bene. Inoltre, tutto questo era possibile grazie all’eredità di mio nonno viennese.

    Ero uno dei pochi che andava e veniva da scuola sui vecchi tram urbani della Bernmobil: la cosa non mi causava nessun problema, a parte qualche battutina da parte dei miei compagni di classe, che invece viaggiavano su auto di lusso.

    Il primo scossone alla mia quotidianità arrivò poco dopo il mio tredicesimo compleanno. Quel giorno tornai a casa prima del previsto. Trovando la porta semiaperta, entrai preoccupato: mio padre era in fondo al corridoio, impegnato in un’animata conversazione telefonica; dal tono della sua voce, capii che parlava con un impiegato o un qualche funzionario.

    - Non può essere, signore! Crede forse che abbiamo una fabbrica di denaro? Il versamento dalla sua banca è in ritardo di ben due mesi! La scuola del ragazzo ci costa parecchio e ultimamente ci chiedono ulteriori spese extra per le attività sportive e i viaggi di istruzione. Senta, io sono un semplice notaio con un umile salario e...-. Dall’altra parte del filo, qualcuno cercava di tranquillizzarlo.

    - Va bene, va bene...ma non oltre due giorni. Ricordi il nostro accordo! - Riattaccò e, quando mi vide davanti a sé, cambiò espressione e cercò di dissimulare la sua collera, dandomi spiegazioni inutili su un suo ipotetico cliente che non voleva pagare.

    Lo salutai come d’abitudine e, una volta in camera mia, cominciai a riflettere su quello che avevo sentito o creduto di sentire. Perché mio padre parlava di me dicendo il ragazzo? Chi e perché pagava i miei studi? Che accordo c’era tra il banchiere e mio padre? C’entravano qualcosa quelle buste che ricevevamo puntualmente ai primi di ogni mese? Man mano che le domande affollavano la mia mente, cominciai a sentire una certa ansietà. Cercai di dedicarmi allo studio e dimenticare questa inquietante situazione che mi turbava.

    Passarono i giorni e l’accaduto passò in secondo piano, tuttavia i miei incubi cominciarono ad avere un altro senso. Mi procurai una foto del matrimonio dei miei genitori e la poggiai sul comò, vicino allo specchio: senza nemmeno rendermene conto, guardavo attentamente i tratti di mio padre e mia madre, studiavo i dettagli come gli occhi, il naso, l’atteggiamento. Quella foto non mi bastò e cominciai a spulciare vari album di famiglia: scoprii che non c’era nessuna foto che mi ritraesse prima dei tre anni d’età. Nelle foto successive al matrimonio, i miei genitori sempre apparivano da soli...e il primo scatto insieme ci vedeva nel corridoio di una stazione ferroviaria, che non era la stazione Zofingen di Berna.

    Dicevano che ero nato nel settembre 1939, nel paese di mio nonno: Linz, nella regione viennese. Il matrimonio dei miei, quella breve permanenza a Vienna e la mia nascita non mi furono mai narrati nei dettagli. Forse si erano sposati a Berna e avevano passato qualche anno a Vienna, insieme a mio nonno. Mentre parlavamo della mia infanzia, ottenevo per lo più sorrisi ebeti e discorsi evasivi, e se ponevo domande più dirette la risposta era comunque superficiale: pare che le foto della mia infanzia le avesse prese il nonno, ma proprio nella foto scattata in stazione mentre lo salutavamo, lui non compariva. Che strano! Non feci mai pressioni per saperne di più, perché pensavo che ci fossero dietro degli screzi familiari.

    Mia madre aveva capelli rossi, occhi scuri contornati da lunghe ciglia, naso piccolo e all’insù e labbra carnose. Mio padre aveva pochi capelli castano chiaro e grandi occhi neri; il naso prominente e le labbra erano parzialmente nascosti dai grandi baffi. Le mie analisi allo specchio mi annoiarono presto e smisi di perdere tempo con queste sciocchezze. Inoltre frequentavo qualche ragazza del quartiere e preferivo dedicare a loro i miei sguardi, quando passeggiavano nel vicino parco.

    Il tempo calmò i miei dubbi e tutto tornò alla normalità, sebbene avessi cominciato a tenere foto dei miei genitori nel portafogli, insieme alla mia. Appena potevo le mettevo una accanto all’altra e confrontavo le caratteristiche. A chi somigliavo? Ponevo questa domanda ad amici, conoscenti, insegnanti. Le risposte erano diverse e contraddittorie, come se fossero frutto di una malcelata ipocrisia: occhi celesti e capelli neri e lisci come me, non li aveva nessuno dei due. In merito a ciò, dicevano che probabilmente avevo ereditato i tratti del nonno. La Grande Guerra era un argomento tabù e io, non avendone dei ricordi personali, la ignorai completamente. Negli anni dell’infanzia e della pubertà emerse in me una certa melanconia che mi portava ad accendermi di passioni accecanti. Ricordo una ragazza di nome Karina, poco più grande di me; lavorava come infermiera in un ambulatorio municipale e la conobbi quando ebbi bisogno di cure per una piccola ferita al dito indice della mano sinistra. La delicatezza con cui mi curava risvegliò in me immagini erotiche. La invitai al cinema e lei mi rispose con disinvoltura:

    - Finisco alle cinque: aspettami fuori, che andiamo a casa mia. - Non risposi, ma alle quattro e mezza ero già lì ad aspettarla. Uscì tranquilla, girò a destra e, vedendomi, mi indicò di seguirla: quando girammo l’angolo, eravamo già uno accanto all’altra. Era lei a fare le domande: come mi chiamavo, dove studiavo, dove vivevo, con chi, etc. Rispondevo timidamente ma cercando di apparire più grande di quanto non fossi. Dopo circa cinque isolati, giungemmo ad una casa di due piani, a cui si accedeva da una specie di corridoio con una scala centrale. Salimmo e lei aprì la seconda porta dell’andito in fondo.

    - Vieni - mi disse. Entrai lentamente, osservando tutto ciò che mi circondava; si tolse il cappello e il piccolo soprabito di panno che indossava.

    - Siediti e prendi pure una mela dal tavolo. Io vado a farmi un bagno; non ci metterò molto.

    Ci pensai per qualche istante, poi presi un frutto e iniziai a mangiare con avidità; avevo appena finito quando la vidi arrivare. Quella ragazza attraente e discreta che avevo accompagnato, si era trasformata in una donna bella e sensuale. I suoi capelli umidi, semi-raccolti in una salvietta, una vestaglia leggera e delle ciabatte delicate, la trasformavano in una visione celestiale.

    - Vieni con me - disse, e si diresse verso la sua camera da letto.

    - Per favore, aiutami ad asciugarmi la schiena - disse, mentre lasciava cadere la veste e mi passava un piccolo asciugamano. Era nuda e mi attirò a sé: mi diede un bacio caldo e passionale; sentii le sue labbra premere contro le mie in modo ossessivo. Misi da parte la timidezza e mi gettai sul suo corpo, baciando ogni centimetro del suo collo, per poi scendere verso seni dai capezzoli turgidi e sensuali, che lei mi offriva con ostentazione. Quell’incontro proseguì fino alle dieci di sera: quando mi svegliai dal torpore, lei dormiva ancora. Io mi vestii con attenzione, cercando di non svegliarla, e uscii in strada con lo spirito di un guerriero...o di uno schiavo, visto che in un certo senso mi sentivo entrambe le cose. A casa mi rimproverarono, preoccupati di ciò che poteva essermi capitato: non avevano idea dell’idillio che avevo vissuto in quelle ore.

    Passarono tre giorni in cui non ebbi il coraggio di tornare. Il venerdì successivo salii timidamente quelle scale avvolte dalla penombra, mi fermai davanti alla porta e sentii dei rumori provenire dall’interno: dopo alcuni istanti la porta si aprì lentamente e comparve un uomo con la testa pelata. Sembrava essersi appena svegliato da una lunga siesta ed era di pessimo umore.

    - Che vuoi? Cerchi qualcuno? - chiese goffamente. Sembrava frastornato. Credo di aver farfugliato delle scuse, poi fuggii verso le scale. Non tornai più in quella casa, sebbene di tanto in tanto vi passassi davanti, sospirando il suo nome. Non ho mai capito cosa fosse successo, se quell’uomo fosse suo padre, il suo amante, suo marito...o se avessi solo sbagliato porta per l’agitazione. Tuttavia quell’esperienza rimase nella mia mente, come un ricordo confuso ma piacevole. Ebbi altre ragazze al collegio, ma non andai mai oltre semplici infatuazioni giovanili. Divenni uomo prima di conoscere l’amore vero: fu tanto intenso che, in confronto, i baci rubati o le notti di passione che lo avevano preceduto persero qualsiasi significato.

    Il tempo passava, ma la consapevolezza di essere amato dai miei genitori continuava a mescolarsi con quel leggero senso di solitudine tipico di chi è rimasto orfano.

    Dopo il diploma, decisi di studiare medicina. In effetti non ero proprio convinto, ma questo mi avrebbe permesso di frequentare la Scuola di Medicina di Vienna, la città di mio nonno. I preparativi durarono alcune settimane, che mi sembrarono mesi: alla fine il giorno della partenza arrivò, e a parte i commoventi saluti, io in fondo sentii un senso di libertà e di intimo sollievo. Ero convinto che lontano dei miei genitori, mi sarei sentito meglio e avrei trovato il mio cammino.

    Dopo alcune ore di viaggio percorremmo un lungo tratto del lago di Costanza, per arrivare poi a Zurigo e da lì verso l’Austria, passando da Bulach. Giunsi alla stazione di Vienna Westbahnhof in un’umida notte della primavera del 1958: appena sceso, vidi lungo il corridoio un uomo di una certa età, vestito di nero, che cercava di attirare la mia attenzione, come se mi conoscesse da sempre. Si avvicinò con passo sicuro. Aveva un volto emaciato, magro, con baffi grigi: in fondo ai suoi occhi verdi, si scorgeva un animo amichevole.

    - Benvenuto a Vienna, caro Ritter; lei è tale e quale come la immaginavo! Son felice che sia qui. - Mi abbracciò con affetto e, vedendo il mio sconcerto, aggiunse: - Accidenti, non mi sono ancora presentato: sono Gustav ero molto amico di suo nonno e lo sono dei suoi genitori. - Mi strinse la mano calorosamente e mi abbracciò di nuovo; infine mi indicò l’uscita della stazione. Prese le mie valigie, continuando a parlare senza sosta.

    Prendemmo un taxi e arrivammo al 1127 di Wolkersbergenstrasse: era una piccola casa di due piani, con un piccolo giardino sul davanti, pieno di peonie. Nell’ingresso c’era un camino, sopra il quale si trovava un piccolo quadro di Klimt molto bello; nella sala da pranzo, oltre la quale si trovava la cucina, c’era un tavolo ovale. Le pareti verde chiaro erano decorate da piccole vedute di Berlino, dentro cornici dorate. In uno degli appartamenti che si trovavano dietro la casa, viveva con il nipote la signora Helen, che mi avrebbe fatto da governante e cuoca. Al secondo piano, accessibile mediante una scala a chiocciola, si trovava la mia camera da letto, con un grande bagno dotato di vasca in bronzo. Una porta in rovere, separava la camera da un ampio studio, dotato di un grande scrittoio e altri mobili, le cui pareti laterali erano nascoste da librerie e ripiani colmi di volumi: testi di medicina, filosofia, letteratura e tanto altro. Era un piccolo paradiso, per uno studente come me. Non c’era di che lamentarsi: era un’abitazione molto comoda, dalla cui finestra in lontananza si poteva vedere il Danubio scorrere placidamente tra gli edifici. Il mio benefattore mi disse che si sarebbe occupato di ogni mia necessità: mi lasciò il suo recapito telefonico e un libretto di risparmio a me intestato presso la Berenberg Bank, poi se ne andò via.

    Il giorno dopo comparve dopo colazione: sentii un claxon e vidi Gustav chiamarmi da un Mercedes Benz color piombo. Scesi dopo pochi minuti e lui mi invitò a fare una passeggiata per la città e visitare la Scuola di Medicina. Facemmo il giro del Ringstrasse partendo dall’incrocio con Karnerstrasse, acconto all’Opera; entrammo alcuni minuti al palazzo di Hofburg, con i suoi preziosi giardini; giungemmo al Belvedere; infine ci dirigemmo verso la Scuola di Medicina di Vienna, in Spitalgasse 23. Era un edificio monumentale. Ci recammo all’ufficio ammissioni e confermammo la mia iscrizione: avrei iniziato il lunedì seguente.

    Gustl, così voleva essere chiamato, mi trattava con naturalezza, come se fosse mio zio. Diceva di essere un vecchio tappezziere in pensione, ma in realtà era un musicista di primo livello, che adorava il suo violino e il suo trombone e li suonava con grande maestria. Non fu lui a dirmelo, ma lo scoprii in modo casuale. Una volta che andai a trovarlo, sentii il Fidelio di Beethoven fin dalla strada: aspettai davanti alla porta che terminasse, poi bussai; ci mise un po’ prima di aprire e fu felice di vedermi. Parlammo a lungo...a dire il vero fu lui a parlare con emozione crescente della sua carriera di musicista, mentre io ascoltavo rapito. Da quel momento in poi non saltammo nemmeno uno spettacolo al Teatro dell’Opera e frequentammo spesso la Musikverein, la sala concerti di Vienna. Quanto ci piacevano Mozart, Buckner, Wagner e Beethoven! Tra di noi si creò un rapporto privilegiato: nonostante la differenza d’età, assomigliavamo sempre più a dei camerati. Mi raccontava di mio nonno, della sua pazienza nel dipingere, delle sue capacità come musicista. Gli chiesi delle foto, ma rispose che a causa

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