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Fake news dell'antica Roma: 2000 anni di propaganda, inganni e bugie
Fake news dell'antica Roma: 2000 anni di propaganda, inganni e bugie
Fake news dell'antica Roma: 2000 anni di propaganda, inganni e bugie
E-book491 pagine12 ore

Fake news dell'antica Roma: 2000 anni di propaganda, inganni e bugie

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Info su questo ebook

La storia di Roma viene portata alla luce grazie ad un saggio che unisce il rigore storico ad una narrazione semplice ed immediata.

È possibile che Nerone non abbia dato Roma alle fiamme? Che Livia non abbia pianificato gli omicidi di tutti gli eredi al trono? Che i Romani non vomitassero durante i pasti?

La storia cambia costantemente prospettiva grazie a tutti coloro che, viaggiando nel tempo e cambiando il passato, modificano gli eventi in base al loro punto di vista. Così, spesso, la storia che ci è stata raccontata non corrisponde alla realtà. In questo libro, sveleremo gli inganni, le menzogne e le distorsioni del mondo romano: da quelle che ci sono state tramandate dalla storiografia ufficiale, spesso inconsapevolmente, dovute all'impenetrabile velo che accompagna i fatti del passato, a quelle narrate nei film, nelle serie TV e nei romanzi.

LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2020
ISBN9788869345777
Fake news dell'antica Roma: 2000 anni di propaganda, inganni e bugie
Autore

Néstor Marqués González

Néstor F. Marqués, archeologo e scrittore, ha lavorato a livello internazionale alla creazione di musei virtuali e allo sviluppo di strategie di diffusione per istituzioni culturali, musei e aziende, tra cui l'American Institute for Roman Culture, il Consiglio Superiore per la Ricerca Scientifica di Spagna (CSIC), il Museo Nazionale di Scienze Naturali e il Museo Archeologico di Spagna.

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    Anteprima del libro

    Fake news dell'antica Roma - Néstor Marqués González

    Fake News de la Antigua Roma di Néstor F. Marqués

    © Espasa Libros S.L.U. (España)

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, marzo 2020

    Isbn libro 9788869345760

    Isbn ebook 9788869345777

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

    Néstor F. Marqués

    Néstor F. Marqués, archeologo e scrittore, ha lavorato a livello internazionale alla creazione di musei virtuali e allo sviluppo di strategie di diffusione per varie istituzioni culturali, musei e aziende, tra cui l’American Institute for Roman Culture, il Consiglio Superiore per la Ricerca Scientifica di Spagna (CSIC), il Museo Nazionale di Scienze Naturali, il Museo Archeologico di Spagna e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

    La tecnologia e il mondo romano, le sue più grandi passioni, si sono fuse mirabilmente nel progetto di divulgazione culturale Antigua Roma al Día che, nato nel 2012, ha preso avvio su Twitter (ad oggi oltre 100.000 follower) per poi espandersi su Facebook, Periscope ed Instagram.

    Dalla tronfia propaganda imperiale alla misera esistenza del popolo dimenticato nella suburra, passando per le più grandi vittime della classicità, le donne, costrette a subire un mondo ad esclusivo appannaggio maschile, la vera storia di Roma viene dissepolta e portata alla luce.

    Caris parentibus

    Fortunaeque

    σπεύδε βραδέως

    Festina lente

    (Affrettati lentamente)

    Svetonio, Vite dei dodici Cesari

    Augusto, XXV 4

    Prefazione

    Tutti, almeno una volta nella vita, siamo stati attratti dalla storia. Ci siamo appassionati all’idea di scoprire il passato e di capire come e perché siamo arrivati al punto in cui ci troviamo oggi. Sono un archeologo e uno storico, dunque mi piace scavare all’interno degli stereotipi della storia che, sedimentandosi, hanno creato nella nostra coscienza collettiva una narrazione che sembra statica e inamovibile, ma che in realtà non lo è. Negli anni ho imparato che la storia (sia quella antica sia quella recente) è un insieme intricato di fatti, menzogne e opinioni mescolate tra di loro all’interno di un sistema che spesso è difficile comprendere.

    Se pensiamo all’antica Roma in generale, ci vengono in mente immagini tratte dal Gladiatore, da Quo Vadis, da Asterix o da qualsiasi altro prodotto della cultura popolare. Tuttavia, se scaviamo un po’ più a fondo ci rendiamo conto che a formare la trama di questo velo di uniformità sono state anche le bufale, gli inganni e le notizie false che sono state create con il passare del tempo. I Romani che popolano il nostro immaginario non sono quelli che sono vissuti duemila anni fa. A distorcere il ricordo sono stati sia gli scrittori loro contemporanei, che hanno raccontato la verità secondo il loro punto di vista e hanno così plasmato le opinioni dei posteri, sia da coloro i quali, in seguito, hanno seguito la stessa strada.

    C’è una parte di verità nelle leggende? E una parte di leggenda nelle verità?

    Prepariamoci a scavare nel passato, senza la pretesa di scoprire le verità più nascoste, poiché queste ultime si trovano a una profondità tale che difficilmente potremo farle emergere tutte. Accontentiamoci di mettere insieme alcuni elementi che erano andati dispersi e grazie ai quali sarà possibile avere un’idea approssimativa dei fatti vissuti dagli uomini e dalle donne dell’antica Roma; partiamo per un viaggio lungo più di duemila anni alla scoperta delle figure che hanno creato questa civiltà: dai suoi fondatori – quelli mitici e quelli in carne e ossa – fino alle persone che, guidate dal potere universale che detenevano, hanno trasformato un mondo. Parleremo di questi personaggi per riabilitarne alcuni, renderne più umani altri e demistificarli tutti. Solo in questo modo riusciremo a fare ordine nella nostra testa e far sì che gli uomini e le donne romani che popolano il nostro immaginario assomiglino un po’ di più a quelli che hanno camminato su questa terra.

    Per questo libro ho voluto usare lo stesso approccio che ho seguito per Un anno nell’antica Roma, la vita quotidiana dei Romani attraverso il loro calendario, una lettura che considero complementare e in linea con i contenuti di questo nuovo volume. Il mio obiettivo è quello di trasmettere le mie conoscenze in modo chiaro e diretto, presentando dati e ipotesi di modo da rendere accessibile a tutti un sapere che resta chiuso nei bauli della ricerca scientifica, talvolta sepolti troppo in profondità e il cui contenuto è dunque difficile da mettere in ordine.

    Inoltre, ho deciso di intraprendere questo percorso poiché oggigiorno le fake news, le bufale, sono sempre più diffuse. La loro proliferazione mi incentiva ancora di più a demistificare l’antica Roma e mostrare che anche i Romani erano vittime di questo fenomeno e continuano a soffrirne. Purtroppo ci sono ancora molte persone che volgarizzano la storia e alla fine fanno più danni che benefici sia a sé stessi sia agli altri. In fin dei conti, siamo il riflesso dei nostri antenati: nihil sub Sole novum (niente di nuovo sotto il sole). La soluzione consiste nel seguire un metodo rigoroso così da smascherare le falsità e le cattive intenzioni di queste fake news.

    In questo libro parleremo delle bugie e della gloriosa propaganda creata dai Romani a sostegno del loro presente e del loro passato; conosceremo gli inganni che hanno fatto prosperare la civiltà romana e quelli che invece per poco non le sono stati fatali, e cercheremo di capire il comportamento degli imperatori (e imperatrici) che hanno piegato il mondo al loro volere. Nel procedere cercheremo di non farci influenzare dai pregiudizi, rischiando così di ricadere negli stessi errori che sono l’origine delle menzogne create in quel periodo.

    Alcune delle mostruose rappresentazioni frutto della disinformazione sono ad esempio Livia l’avvelenatrice, Claudio lo stolto e Domiziano il disumano. Questi personaggi, come tanti altri, sono un chiaro esempio di come l’immagine di alcune figure sia stata profondamente distorta sia dagli storici dell’antichità, sia dai ricercatori e dagli scrittori contemporanei.

    Parleremo di loro, ma anche dei vincitori, quelli che riuscirono a restare sotto i riflettori della storia: i personaggi idealizzati come Augusto e Traiano o i gruppi religiosi come quello cristiano furono veramente sempre i buoni del film? E a proposito di cinema, poiché la settima arte è stata fondamentale nella costruzione dell’idea generale che abbiamo del mondo romano, in determinati punti del libro ho voluto proporre qualche riferimento cinematografico, che spero venga apprezzato.

    Caro lettore, prima di iniziare il racconto permettimi di condividere con te una breve storia che contribuirà a confermare in te l’idea che inganni, menzogne e fake news possano deformare la realtà dei fatti raggiungendo limiti inimmaginabili. È possibile che, almeno in parte, tu l’abbia già sentita, e in questo caso resterai ancora più sorpreso.

    Si racconta che, ai tempi dell’imperatore Augusto, Publio Virgilio Marone ebbe come animale da compagnia una semplice mosca. Quando quest’ultima morì, il poeta organizzò in suo onore uno sfarzoso funerale nella sua casa, sul colle Esquilino. Le tristi esequie costarono a Virgilio circa ottocento mila sesterzi, ma per l’amata mosca, ogni cifra sembrava irrisoria. Le personalità culturali che accorsero alla triste celebrazione furono molte; Gaio Cilnio Mecenate recitò addirittura un’orazione funebre, un omaggio solitamente riservato agli esseri umani. Infine, Virgilio fece costruire nella sua proprietà un imponente monumento funebre sul quale venne incisa la seguente iscrizione: Musca: Sit tibi urna levis et molliter ossa quiescant (Mosca: che quest’urna ti sia lieve e riposino qui le tue ossa).

    Il comportamento di Virgilio può sembrarci esagerato, ma a tutto c’è una spiegazione. Pare che in quel periodo i membri del triumvirato – Marco Antonio, Lepido e il futuro Augusto – stessero confiscando i terreni di alcuni cittadini per assegnarli ai veterani di guerra e recuperare così il denaro investito durante le campagne militari. Fra i terreni da sequestrare vi erano anche le proprietà di Virgilio, che riuscì però astutamente ad aggirare la legge. Era stato stabilito che sarebbero stati risparmiati i terreni o gli edifici che contenevano dei monumenti funebri dedicati a un caro. Poiché la legge non specificava che il caro dovesse necessariamente essere umano, Virgilio inscenò il funerale di una semplice mosca, così da aggirare una legge tanto terribile e allo stesso tempo prendersi gioco di Augusto e dei suoi seguaci.

    Il racconto si conclude così ed è possibile trovarlo in diversi libri di curiosità e su blog online, dove è stato copiato parola per parola. L’astuzia di Virgilio ci spiega l’inganno ordito dal poeta e ci insegna che non sempre le cose sono come sembrano.

    Se però io vi dicessi che anche questa spiegazione è una menzogna? Non solo: se vi dicessi che l’intera storiella è falsa dall’inizio alla fine? Diverso tempo fa, stanco di ritrovare spesso questo racconto senza che ne fosse mai indicata la fonte originaria, decisi di andare più a fondo e cercare quale autore dell’antichità parlasse di questa curiosa storia.

    In primo luogo, l’odio di Virgilio nei confronti di Augusto – che in teoria era suo mecenate, come vedremo in seguito – sembra strano e poco realistico. Però, in quanto critici, il nostro compito è quello di andare all’origine, di trovare la fonte che ha dato vita alla storia, anche se con cattive intenzioni.

    Dalle mie ricerche scoprii che non esiste una sola fonte classica o simile che menzioni questo episodio, che deve dunque essere stato messo in circolazione più tardi.

    Per rendere più semplice la ricerca, cominciai dal blog dove avevo letto la storia, che mi rimandò a un altro sito dal quale il blog l’aveva copiata, che a sua volta citava un libro di notizie curiose poco credibile sia dal punto di vista scientifico che storico. Alla fine risalii a un nome: R. Ripley, un caricaturista americano famoso nella prima metà del Ventesimo secolo per aver raccolto notizie curiose e difficili da credere. La serie Believe it or not (Che tu ci creda o meno) fu diffusa sotto forma di fumetto, libro e trasmissione radiofonica e televisiva, e in tutte le occasioni Ripley incluse anche la storia di Virgilio e la mosca. Il documento più antico dove viene menzionata consiste in una breve ripresa video del 1931, benché l’episodio sia stato sicuramente riprodotto in precedenza come vignetta su un giornale.

    L’origine del racconto con Ripley si perde, poiché quest’ultimo rimanda, nella forma scritta, alle Vite dei dodici Cesari di Svetonio, dove però non si fa mai riferimento né al funerale né alla mosca. Che le intenzioni fossero cattive o meno, questa pista falsa rende traballante la veridicità del racconto, nonostante Ripley sostenesse di avere un team che lavorava senza sosta per dimostrare che ogni notizia pubblicata fosse certa. Anche se potremmo pensare che la storia sia stata completamente inventata da Ripley o da qualcuno che gliela aveva raccontata, la cosa più interessante è che la faccenda può farsi ancora più complicata.

    Virgilio fu uno dei personaggi più famosi dell’antichità, soprattutto grazie all’Eneide, che diventò uno dei libri più importanti dell’epoca. La fama di Virgilio aumentò moltissimo con il passare dei secoli, tanto che nel Medioevo veniva ancora ricordato come un uomo importante. Poco dopo la sua morte cominciarono a circolare opere che oggi sappiamo non essere state scritte da Virgilio, ma che all’epoca gli furono attribuite grazie alla sua grande fama.

    Una di queste era un poema che in un certo qual modo copiava alcuni elementi dell’Eneide, ma invece di avere un protagonista umano, aveva una zanzara. L’opera si intitolava Culex – che è anche il nome dell’insetto in latino – e raccontava di un pastore che, sedutosi all’ombra per riposarsi, non si era accorto che un serpente lo stava per mordere. Una zanzara che osservava la scena decise di svegliarlo nell’unico modo che conosceva: pungendolo. Il pastore fu svegliato dal dolore ed evitò quindi di essere morso dal serpente, ma allo stesso tempo schiacciò la zanzara con la mano. La notte stessa il fantasma dell’insetto apparve in sogno al pastore e lo accusò di aver compiuto un’azione immorale, il suo assassinio, benché fosse stata la zanzara a salvargli la vita. Il pastore, pentito, dopo aver ascoltato il racconto delle peripezie della zanzara nell’aldilà (simili a quelle vissute da Enea), decise di dedicarle un sepolcro di marmo e fiori sul quale scrisse: Parve culex, pecudum custos tibi male merenti funeris officium vitae pro munere reddit (Piccola zanzara, il pastore di greggi offre a te, che te lo sei meritato, questo monumento in cambio del regalo della sua stessa vita. Pseudo Virgilio, Appendix Vergiliana, Culex, 413-414).

    Questo racconto curioso comprende i due elementi fondamentali della bufala di cui abbiamo parlato: l’insetto (in questo caso una zanzara) e il suo monumento funebre, dedicato qui dal pastore.

    Tuttavia, il rapporto tra Virgilio e gli insetti, in particolare le mosche, non finisce qui. Perché venisse a galla fu necessario che la figura del poeta si deformasse sempre di più con il passare dei secoli. I cittadini di Napoli, città dove Virgilio fu sepolto, ne erano particolarmente orgogliosi; per questo motivo, molte delle leggende stravaganti e dei pettegolezzi sul poeta nacquero proprio lì. A partire dalla tarda antichità Virgilio cominciò a essere considerato un mago molto potente legato alle forze del male. Questa interpretazione aggiungeva un ulteriore alone di mistero a una figura che era già considerata protettrice della città. Nel Dodicesimo secolo venne messa per iscritto una leggenda che sicuramente circolava oralmente tra i Napoletani già da tempo. Nel Policraticus, il vescovo inglese Giovanni di Salisbury fu il primo a scrivere un aneddoto secondo il quale Virgilio avrebbe presentato a Marcello, nipote di Augusto, due possibilità tra le quali scegliere: un uccello con il quale catturare tutti gli uccelli o una mosca con la quale eliminare tutte le mosche. Marcello optò per la seconda così da liberare Napoli dalla piaga delle mosche, scegliendo dunque il bene comune invece del desiderio personale, poiché Marcello amava uscire a caccia di uccelli. Secondo questa leggenda medievale, Virgilio accontentò il giovane e pose una mosca di bronzo (che secondo altri racconti è una statua d’oro con le sembianze di una rana) su una delle porte delle mura, così da evitare che entrasse anche solo una mosca in tutta la città.

    Questo nuovo racconto ci mostra ancora una volta Virgilio nelle vesti di mago legato alle mosche. Vi sono racconti simili anche su altre città, come Roma, dove si diceva che Virgilio avesse convocato il moscone, il diavolo a cui ubbidivano tutte le mosche, e avesse fatto un accordo con lui per scacciare gli insetti dalla Città eterna.

    Virgilio il mago, che viene dipinto anche in relazione ad altri animali, come i cavalli, era senza dubbio il signore delle mosche. Non è un caso che i cristiani utilizzassero spesso questa formula per indicare il diavolo: Belzebù, dall’ebraico baal zebub, letteralmente signore delle mosche. Oggigiorno si considera che il vero nome di questo dio fosse Baal Zebul, che si traduce in Baal il Principe, una divinità semitica dell’aldilà che veniva invocata per guarire le malattie. Benché esistano diverse teorie, è possibile che questa dualità possa essere ricondotta a un gioco di parole scherzoso creato dai Giudei per beffarsi di questa divinità, considerata un falso dio, un demonio. Qualsiasi fosse il suo vero nome, fatto sta che la tradizione cristiana successiva cominciò ad associare il male alle mosche a partire dai testi dell’Antico Testamento.

    A questo punto, sembra che tutti gli elementi si incastrino e formino un debole ma equilibrato caos nel quale ritroviamo Virgilio nella leggenda della mosca e la tomba, Virgilio il signore delle mosche e Virgilio l’eroe che salvò Napoli, Roma e altre città nello stesso modo in cui aveva messo in salvo i suoi terreni nel racconto iniziale. È difficile sapere se la storia del funerale esistesse prima di Ripley, ovvero prima dell’inizio del Ventesimo secolo, poiché non la si ritrova in nessun’altra opera precedente. Quello che appare chiaro è che l’intera bufala fu creata a partire da diversi elementi che appartengono alla tradizione letteraria e popolare e che vennero associati a Virgilio nel corso dei secoli.

    La figura di Virgilio come uno dei poeti più celebrati dell’antichità fu recuperata a partire dal Quattordicesimo secolo, in primis da Dante. Nell’Inferno Virgilio è la guida nell’aldilà, come la Sibilla per Enea, non in quanto stregone ma nelle vesti del grande poeta che fu in vita.

    Ecco come si formò la storia diffusa da Ripley, copiata poi da altri autori senza provarne l’origine, e che fu poi plagiata da molti altri e diffusa su internet. La divulgazione di questo racconto inventato, fortunatamente, ci ha insegnato due cose importanti: la prima è che le bufale storiche possono trovarsi ovunque e che dobbiamo combatterle; la seconda è che mentre lo facciamo, possiamo scoprire delle storie affascinanti che si celano al loro interno.

    Non ci resta che divertirci con gli inganni, la propaganda e le menzogne che per molto tempo hanno occultato le verità dell’antica Roma. Le scopriremo insieme ricostruendo nel processo (in modo rigoroso) una storia più vicina alla realtà rispetto a quella che molte volte ci è stata raccontata.

    Origini leggendarie

    Un film frammentato

    Per capire le origini di Roma così come le intendevano i Romani dobbiamo prendere distanza dalla storia, da ciò che la condiziona e dai dettagli che la compongono e pensare piuttosto alla prima di una superproduzione hollywoodiana, dove l’azione è impetuosa, intensa e, con molta probabilità, poco realistica.

    Come tutti i film commerciali che si rispettino, anche il nostro avrà dei cattivi, degli eroi e un perfetto mix di emozioni, con momenti in cui sembra che tutto sia perduto e altri in cui, alla fine, con una buona dose di sacrificio e di eroismo, i buoni trionferanno. Mentre il pubblico si gode lo spettacolo senza preoccuparsi se quello che sta guardando è realtà o finzione (l’importante è che Roma sia in una buona luce), ci sono pochi spettatori – che chiameremo storici – che per tutta la durata del film cercheranno di scoprire il trucco, così da capire se quello che hanno di fronte è la verità oppure il mito.

    Il problema è che il lavoro di ricerca viene condotto nell’oscurità quasi totale della sala e con una mano occupata a mangiare i popcorn. In fin dei conti, le origini di Roma furono stabilite a partire da piccoli frammenti appartenenti a diverse tradizioni precedenti che purtroppo sono andate perdute o che non sono nemmeno mai arrivate a essere messe per iscritto. Per questo motivo, reinterpretare il periodo più antico della storia di Roma è poco più che un lavoro di osservazione dei piccoli dati celati tra le leggende.

    Probabilmente non riusciremo mai ad avere il racconto completo e dovremo accontentarci di testimoniare il grande successo del film, che, come si suol dire, è tratto da una storia vera. Tuttavia, non dobbiamo disperare; alla fin fine, la ricerca non è sempre un insieme di piccoli indizi che, nella misura del possibile, dobbiamo ricomporre? Inoltre, la storia non vive solo di fonti scritte. Vi sono altri elementi, come l’archeologia, che danno voce alle prove silenziose o, in alcuni casi, che sono state silenziate.

    Questa analogia calzante fu utilizzata qualche anno fa da G. Forsythe per spiegare il complesso lavoro di ricerca sul periodo più antico di Roma, dalla sua fondazione alla fine della monarchia, nel 509 a.C. Gli elementi che possiamo utilizzare per scoprire qualcosa di più su questo periodo della storia di Roma, dimenticato anche dagli stessi Romani, sono effettivamente scarsi.

    Oltre alle fonti scritte, che ripetono soltanto le leggende epiche, la sofferenza degli eroi e la gloria, l’archeologia ci mostra realtà umane molto diverse. Ciononostante, purtroppo a volte lo fa in modo poco comprensibile e parziale. In fin dei conti Roma continua a essere abitata, ed è stata ricostruita sopra sé stessa moltissime volte, dunque molti resti sono andati distrutti o restano inaccessibili ai ricercatori.

    Prima di dimostrare come erano veramente le vite dei primi Romani, dobbiamo conoscere le ricostruzioni che ne fecero coloro i quali eressero, a partire da queste storie, le fondamenta di un’intera civiltà.

    Tre, due, uno... silenzio in sala.

    Il salvatore esiliato

    La nostra storia ha inizio molto prima che esistessero Roma e il suo impero, ancora prima della dominazione greca nel campo delle arti e delle scienze: inizia nell’epoca degli eroi e delle leggende omeriche.

    Viveva vicino a Troia un pastore di nobile lignaggio chiamato Anchise, la cui bellezza e gioventù erano tali da farlo assomigliare agli dei immortali. Venere, dea dell’amore e della bellezza, conosciuta dai Greci con il nome di Afrodite, lo aveva notato mentre vigilava sul suo gregge sul monte Ida, in Frigia, e se ne era innamorata. Decise dunque di mascherare il suo aspetto e di presentarsi a lui nelle vesti di una principessa mortale.

    Anchise si innamorò immediatamente di quella giovane così bella da sembrare una divinità. Venere spiegò ad Anchise che Mercurio l’aveva rapita e l’aveva trasportata in volo fino a quel luogo, e il pastore la invitò a entrare nella sua capanna. Entrambi desideravano giacere insieme, dunque poco dopo la dea e il mortale si abbandonarono alla passione, dopodiché Venere fece cadere Anchise in un sonno profondo.

    Quando si svegliò, il pastore si trovò davanti Venere, che si era liberata del suo travestimento. Anchise si preoccupò immediatamente dell’inganno che aveva subito, poiché nulla di buono poteva succedergli dopo aver condiviso il letto con una dea. Venere lo tranquillizzò e gli garantì che non avrebbe avuto nulla da temere se avesse mantenuto il segreto del loro amore e del frutto di quest’ultimo, che si stava già sviluppando dentro di lei e che si sarebbe chiamato Enea. Gli disse che del bambino si sarebbero prese cura le ninfe e che sarebbe tornata cinque anni più tardi per consegnarglielo, poiché Enea era destinato a grandi imprese. Prima di allontanarsi, Venere lanciò un ultimo avvertimento ad Anchise: se avesse osato rivelare anche un solo dettaglio di quello che era accaduto, l’ira di Giove si sarebbe scatenata su di lui e per punizione sarebbe finito fulminato.

    La leggenda narra che tempo dopo, quando si trovava già a Troia, Anchise finì per rivelare l’origine divina del figlio, spinto dall’orgoglio paterno o da vanità. Si dice che Giove, anch’egli padre, ebbe pietà di lui e lo rese solamente zoppo o, secondo alcune versioni, cieco. La sorte di Anchise potrebbe essere stata di gran lunga peggiore, poiché gli dei sanno essere molto vendicativi con chi li tradisce. Forse l’onnipotente Giove, che possedeva conoscenze e saggezza infinite, voleva infliggere un castigo ancora più crudele della morte a un uomo che presto avrebbe visto la città di Troia cadere per mano dei Danai e del vile imbroglio del cavallo di legno.

    Vos O, quibus integer aevi sanguis ait, "solidaeque suo stant robore vires, vos agitate fugam [...] Satis una superque vidimus exscidia et captae superavimus urbi. [...] Ipse manu mortem inveniam; [...] Iam pridem invisus divis et inutilis anno demoror, ex quo me divom pater atque hominum rex fulminis adflavit ventis et contigit igni.

    Voi, voi che per l’età serbate intatto il vostro sangue, esclama, e nel vigore tutte le forze, affrettate la fuga. [...] Troppo è per me l’aver visto la strage della mia patria e rimanere vivo. [...] Qualcuno troverò bene che mi uccida [...]. Già da tempo malvisto dagli dèi, trascino gli anni in una vita inutile, da quando il Padre degli dèi, re dei mortali, mi sfiorò con il vento della folgore, mi lambì con la vampa del suo fuoco.

    (Virgilio, Eneide, II, 637-649)

    Quando, dopo dieci anni di assedio, Troia cadde, Enea, il figlio di Anchise, fu uno dei fortunati superstiti grazie all’intervento della madre, benché accecato dall’ira sfidasse continuamente la morte per vendicare l’onore della sua città. Nel momento in cui tutto sembrava perduto, una lingua di fuoco si appoggiò sulla testa di Ascanio, il figlio di Enea che alcuni chiamano Iulo, senza bruciarlo. Un tuono esplose nel cielo mentre una stella infuocata illuminò la strada, verso la fuga.

    Gli dei avevano deciso: Enea e la sua famiglia dovevano partire per una nuova terra. L’eroe si caricò dunque il padre sulle spalle, prese per mano il figlio e cominciò il cammino, non senza piangere la morte della moglie Creusa, morta lungo la strada. Enea è un uomo caratterizzato da una morale e un eroismo tali da continuare ad andare avanti, per compiere il destino che attende lui e la sua stirpe, anche a costo di perdere per sempre patria e moglie.

    Statuetta in terracotta del I secolo rinvenuta a Pompei raffigurante Enea che fugge da Troia con il padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio per mano (Museo Archeologico Nazionale di Napoli).

    Il viaggio di Enea e dei suoi compagni li portò ad attraversare il grande mare e ad affrontare molti pericoli, come il vortice di Cariddi e il ciclope Polifemo, incontrato poco tempo prima da Ulisse. La volontà degli dei condusse Enea e i suoi a Cartagine, dove furono ricevuti dalla regina Didone, consapevole delle loro disgrazie e sfortune.

    Lei era una regina fenicia intenta a costruire sulle coste africane una nuova casa per il suo popolo, lui un eroe troiano che stava cercando di fare lo stesso per il suo. È naturale che tra i due nascesse la passione di chi si sente unito dallo stesso disonore. Ancora una volta il destino teneva in scacco Enea, che si trovò a scegliere tra l’amore di una donna, che gli era stato già strappato una volta, e il futuro della sua stirpe. Ai mortali è concessa la debolezza della carne e quindi i due finirono per unirsi all’interno di una caverna, dove si erano rifugiati per sfuggire alla tempesta che li aveva colti durante una battuta di caccia.

    Tuttavia Mercurio, inviato da Giove, fece in modo che Enea si ricordasse della sua eroica missione e abbandonasse la regina, che non volle sentire le ragioni del suo amante traditore. E mentre le vele delle navi troiane si gonfiavano già sulla spiaggia, Didone aveva ingannato la sorella dicendole che la grande pira che aveva fatto costruire le sarebbe servita per bruciare tutto quello che le ricordava l’eroe troiano. La regina ci salì sopra e, furiosa, si lanciò sulla spada regalatale da Enea per andare incontro a una morte disperata. Mentre il suo corpo piangeva sangue, Didone ebbe il tempo per lanciare un’ultima maledizione che sarebbe risuonata nei secoli a venire:

    «[...] Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum exercete odiis, cinerique haec mittite nostro munera. Nullus amor populis, nec foedera sunto. Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor, qui face Dardanios ferroque sequare colonos, nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires. Litora litoribus contraria, fluctibus undas imprecor, arma armis; pugnent ipsique nepotesque.

    [...] E voi, miei Tiri, e i vostri discendenti perseguitate con un odio estremo la sua famiglia e la sua razza intera: fate questa promessa alle mie ceneri. Nessun amore, nessun patto, mai, fra i due popoli. Sorga un giorno un vindice dalle mie ossa, che con ferro e fuoco tenace incalzi i coloni Troiani, oggi, domani, sempre, ovunque ostentino le loro forze. Sponda contro sponda, onda con onda, spada contro spada: questa è la mia maledizione: sempre in guerra, sino agli ultimi nipoti.

    (Virgilio, Eneide, IV, 622-629)

    In quel preciso istante nacque l’odio primordiale tra Cartaginesi e Romani, e sarebbe stato Annibale il guerriero colui il quale avrebbe compiuto la profezia della sfortunata Didone. Ma gli dei sono saggi, e quando la lotta tra Romani e Punici si fece concreta, concedettero la vittoria a chi la meritava, così da non andare contro il destino già segnato del mondo.

    Enea e i suoi solcarono nuovamente i mari e seguirono la rotta per la Sicilia, dove l’anno prima Anchise era morto di vecchiaia. L’eroe troiano decise di celebrare dei giochi funebri per l’anniversario della morte del padre. Vennero organizzate una regata, una corsa, incontri di lotta, una gara di tiro con l’arco e tutta quella serie di rituali graditi agli antichi per onorare i defunti. Tuttavia, mentre tutti erano intenti a celebrare solenni i riti, la malvagia Giunone, che combatteva una battaglia personale contro Enea e i futuri Romani, si travestì e incoraggiò le donne a cospirare – senza esserne coscienti – contro i mariti.

    Erano passate sette estati da quando erano fuggiti da Troia in fiamme ed Enea aveva promesso loro una nuova terra da considerare propria. Non era forse il momento di fermarsi? La Sicilia era una terra accogliente e sarebbe stato lì che la loro stirpe si sarebbe allargata. Questo era il volere degli dei, bisognava distruggere le imbarcazioni per considerare concluso il lungo viaggio.

    Giunone incitò dunque le donne a utilizzare delle torce per incendiare le navi che li avevano trasportati fino a lì. In questo modo Enea non avrebbe fondato la nuova Troia sulla costa italiana del Lazio (in latino Latium) e la sua stirpe non si sarebbe mai espansa fino a conquistare il mondo intero. Il pio eroe si affidò nuovamente a Giove, chiedendogli di salvare la flotta. Il padre degli dei rispose scatenando un nubifragio che spense le fiamme che stavano divorando il legno, salvando così le imbarcazioni.

    Enea e i suoi partirono dunque per Cuma, dove li attendeva la Sibilla per guidare l’eroe nell’aldilà. Lì Enea avrebbe ritrovato il padre, che gli avrebbe rivelato cosa il futuro aveva in serbo per lui e per i suoi discendenti, e la gloria che avrebbero raggiunto per il loro popolo. Tuttavia la Sibilla mise in guardia Enea: la porta dell’Averno rimane sempre aperta per chi desidera entrare, ma pochi sono quelli che, una volta dentro, riescono a uscire.

    Enea e Sibilla arrivarono al fiume Acheronte, un pantano immondo su cui vegliava Caronte, traghettatore dalla lunga barba, mantello nero e dall’aspetto sudicio. Sulle sponde del fiume si trovavano a vagare le anime di chi non ha ricevuto sepoltura e deve attendere per punizione cent’anni prima che il traghettatore lo faccia salire.

    Passarono poi davanti a Cerbero, il cane a tre teste a cui riuscirono a sfuggire grazie a delle focacce al miele intrise di erbe soporifere. Incontrarono le anime di chi era stato condannato ingiustamente a morire, quelle dei suicidi e quelle dei bambini morti prima di godere di una vita piena. Infine arrivarono a una biforcazione: a sinistra l’alto muro del Tartaro, l’abisso dove sono destinati a soffrire in eterno le anime malvagie e, a destra, l’entrata dei verdi Campi Elisi, dimora eterna delle anime immortali dei giusti.

    Erano questi ultimi la destinazione finale del nostro eroe, che qui incontrò suo padre Anchise, che così gli parlò, per rafforzare il suo spirito e spingerlo a portare a termine i difficili compiti che lo aspettavano.

    Quin et avo comitem sese Mavortius addet Romulus [...] En, huius, nate, auspiciis illa incluta Roma imperium terris, animos aequabit Olympo, septemque una sibi muro circumdabit arces, felix prole virum [...] Huc geminas nunc flecte acies, hanc aspice gentem Romanosque tuos. Hic Caesar et omnis Iuli progenies magnum caeli ventura sub axem. Hic, vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis, Augustus Caesar, Dici genus, aurea condet saecula qui rursus Latio regnata per arva Saturno quondam.

    Compagno all’avo, poi, si unirà Romolo, figlio di Marte [...]. Sotto il suo patrocinio, figlio mio, l’illustre Roma, che ben sette colli cingeranno di mura, pur essendo una sola città, ricca di eroi, eguaglierà nel suo dominio il mondo e l’Olimpo nell’animo [...]. Ora volgi l’acume del tuo sguardo da questa parte e osserva i tuoi Romani. Ecco Cesare e tutta la progenie di Iulo, che uscirà sotto la grande volta del cielo, ecco colui che spesso ti si promette: è lui, Cesare Augusto, figlio del divo Giulio, che una nuova età dell’oro instaurerà nel Lazio, nei campi in cui regnò Saturno un tempo.

    (Virgilio, Eneide, VI, 777-794)

    Dopo l’intensa esperienza vissuta nell’aldilà, che infuse a Enea valore e temperanza per compiere il suo destino, il gruppo ripartì dalla Campania per raggiungere il Lazio e, una volta approdati alla foce del padre Tevere, i nuovi coloni sentirono di essere vicini al compimento del loro destino. Presto le preghiere che precedono la fondazione della nuova città sarebbero state ascoltate.

    I Troiani sbarcarono nei domini del re Latino, figlio di Fauno e discendente del potente dio Saturno, ultimo fondatore della stirpe latina. Enea chiese dunque a diversi emissari di recarsi alla cittadella del re per portargli dei rami di ulivo in segno di pace.

    Enea cominciò invece a scavare un fossato per il primo accampamento fortificato dove i Troiani passarono i primi giorni, nello stesso luogo in cui secoli dopo sarebbe sorta la città di Ostia. Nel frattempo gli emissari arrivarono al palazzo di Latino; il re li accolse ospitale e li invitò a raccontare il motivo per cui avevano intrapreso quel lungo viaggio.

    Una volta ascoltate le vicende di Enea, il re si ricordò di una profezia che il padre aveva pronunciato su sua figlia, ovvero che si sarebbe unita in matrimonio a uno straniero, dando vita a una stirpe che avrebbe innalzato al cielo il nome dei Latini. La mente del vecchio e giusto re cominciò subito a pensare al matrimonio tra Lavinia ed Enea, mentre celebrava la nuova alleanza con i Troiani e prometteva loro doni e l’abbondanza delle terre latine.

    Tuttavia la potente Giunone, che ardeva d’odio per i Troiani che avevano raggiunto il loro obiettivo, ordì un nuovo piano affinché l’alleanza benedetta dal fato fosse suggellata con il sangue dei due popoli che stavano per unirsi. Da un lato scatenò la regina dei Latini contro Enea in modo che da lei si diffondesse in tutte le donne latine, e dall’altro risvegliò la sete di guerra in Turno, re dei Rutuli, al quale era stata promessa in sposa Lavinia.

    Si scatenò così una guerra odiosa e infausta che andava contro la volontà degli dei, ad eccezione di Giunone, malvagia istigatrice, che quando si accorse che il re Latino non era disposto a cadere nella sua trappola aprì personalmente le porte del tempio di Giano per dare inizio alla contesa. Entrambe le fazioni forgiarono nuove armi e gli eserciti lucidarono le spade prima di utilizzarle nello scontro che coinvolse anche altri popoli latini e gli Etruschi guidati dal re Mezenzio dalla parte di Turno, e re Evandro e gli Arcadi a combattere per Enea.

    Numerosi furono i caduti da entrambe le parti, molti furono vittima della terribile mano di Turno, altri delle nobili armi di Enea (portatrici di gloria futura), forgiate dal dio Vulcano su richiesta della moglie Venere. Perfino gli dei presero posizione: Giunone concedeva forza a Turno, mentre Giove gliela toglieva; Apollo infondeva valore nel giovane Iulo, che difendeva il nome del padre. Quanto si dimostrarono umane le passioni degli dei immortali

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