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Mi chiamo Freddie Mercury
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E-book251 pagine3 ore

Mi chiamo Freddie Mercury

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Info su questo ebook

Ero seduto da solo in un angolo del bar, tenevo tra le mani il mio viso, attorno a me, ragazzi e ragazze si divertivano tra loro. Da diverso tempo, me ne andavo in giro ripetendo a chiunque quella frase: "Diventerò una star". Quel tempo lo ricordo bene, quel giorno pure, un giorno degli anni Settanta. Un amico mi raggiunse al tavolo e vedendo il mio malumore cercò di capire: "Che ti succede Freddie?". Alzai il capo quel tanto che basta e sconsolato, risposi: "Non diventerò mai una star". E' successo tutto in un attimo, è stato così veloce che il mio amico non ha avuto nemmeno il tempo di sedersi. Ho picchiato i pugni sul tavolo, mi sono alzato e ad alta voce ho detto: "Non diventerò una Star, diventerò una leggenda". Mi chiamo Freddie Mercury, sono il cantante di una band chiamata Queen, questo è il paradiso per tutti: da questo luogo vi racconterò la mia storia.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2020
ISBN9788831691246
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    Anteprima del libro

    Mi chiamo Freddie Mercury - Daniele Sacchetto

    HEAVEN FOR EVERYONE

    Mi trovo qui!

    Sono arrivato una domenica di novembre: giorno 24, anno 1991. Ero a letto dolorante, ho chiuso gli occhi e mi sono ritrovato in questo luogo. All’inizio non capivo cosa fosse successo. Attorniato da persone sorridenti e disponibili, mi sono chiesto come fosse possibile esser capitato in un posto dove i ritmi di vita fossero cosi drasticamente decelerati. Una dimensione nuova dominata da un solo colore: il bianco! Sembrava di stare sul centrale di Wimbledon senza la fortuna però di veder giocare né Borg né McEnroe.

    I primi giorni sono stati difficili, ma poi, col tempo, mi sono abituato a questa nuova realtà. Mi sono inserito bene e col mio nuovo gruppo di amici abbiamo messo su una piccola band come passatempo per riempire le giornate. Facciamo tutto da soli, non abbiamo bisogno di un insegnate di musica.

    Jimi Hendrix, 27 anni, alla chitarra: un mostro, ho conosciuto solo un altro a questo livello.

    John Bonham, 32 anni, alla batteria: che dire, anche Roger l’ha sempre adorato.

    Sid Vicious, 21 anni, bassista: era un cretino ed è rimasto un cretino.

    Per il reparto cantanti siamo molto forniti e quindi ci alterniamo spesso.

    Elvis Presley, 42 anni: l’ho sempre adorato.

    John Lennon, 40 anni: il mio mito da giovane.

    Bob Marley, 36 anni: l’ho conosciuto qui.

    Kurt Cobain, 27 anni: mi ha colpito la sua stima nei miei confronti.

    Ne sono arrivati molti altri, col tempo.

    Avevo 45 anni quando sono arrivato qui, da allora, continuo ad avere 45 anni. In questa realtà non si diventa vecchi, non ci si ammala, è tutto diverso.

    La mia malattia? Il mio dolore? Cancellati!

    Nella mia stanza ho una finestra, tutti noi l’abbiamo nelle nostre stanze, è chiamata la finestra temporale: da essa, possiamo guardare il mondo come va avanti senza di noi.

    Quando ne ho voglia mi lascio trasportare in quei luoghi che un tempo erano i miei.

    Posso vedere i miei cari amici Brian May e Roger Taylor che continuano a rendermi omaggio e a volermi bene come quando ero con loro.

    Posso vedere John Deacon, un altro amico, compagno di mille avventure, che ha scelto di vivere una vita lontano dai riflettori ma che è felice lo stesso e io lo sono per lui.

    Posso vedere Mary Austin che si prende cura della mia casa con lo stesso amore con cui si prendeva cura di me quando ero con lei.

    Posso vedere la mia cara sorella Kashmira, che da quel novembre, ogni giorno, mi dedica un pensiero ad alta voce.

    Posso vedere tutto quello che il pianeta terra è diventato.

    Posso vedere tutti voi, che mi amate e ascoltate la mia musica ancora adesso dopo tutti questi anni.

    Mi chiamo Freddie Mercury, sono il cantante di una band chiamata Queen, questo è il paradiso per tutti: da questo luogo vi racconterò la mia storia.

    ZANZIBAR

    Ammetto che se fosse per me, salterei volentieri questo capitolo! Non ho mai amato molto parlare della mia infanzia. A essere onesto, credo di non averne proprio mai parlato.

    Ringraziate Pete Brown, il mio editor, che ha insistito perché non lasciassi niente al caso.

    Un caro ragazzo Pete! Nella metà degli anni Settanta, si occupava dei Queen accompagnandoci in giro per il mondo nei nostri tour. Una persona semplice, dall’aria pulita, con una dislessia fuori dal comune. Avevo la perfida abitudine di prenderlo in giro con richieste che spesso lo mettevano in imbarazzo.

    Da molto tempo mi tormenta con la sua idea di farmi scrivere un libro sulla mia vita. Eccoti accontentato caro Pete! Ma lo sai, farò a modo mio.

    Sono nato il 5 settembre del 1946 a Zanzibar. Primo di due figli. La mia dolce sorella Kashmira ha visto la luce qualche anno dopo.

    I miei genitori, i signori Jer e Bomi Bulsara, hanno peccato di originalità quando scelsero il mio nome: Farrokh, molto comune nella comunità dei Parsi. Devo essere onesto, non mi è mai piaciuto e ringrazio i miei compagni di scuola che già da piccolo avevano iniziato a chiamarmi Freddie.

    Ho vissuto a Zanzibar fino all’età di otto anni, dopo di che i miei genitori decisero di mandarmi in India per iniziare il mio percorso di studi. Nonostante la nostra fosse una famiglia benestante che lavorava per il governo inglese, Jer e Bomi ritenevano che a Zanzibar non avrei avuto un’istruzione adeguata.

    Ho dovuto lasciare la mia casa, la mia amata sorella e tutto quello che conoscevo per partire per quella nuova avventura. Col senno di poi, posso dire che l’esperienza mi ha aiutato a temprare il mio carattere, ma cazzo… non è stato per niente facile adattarsi a un cambiamento simile! Dopo settimane di viaggio in mare sono arrivato a Bombay e da lì ho preso il treno che mi ha portato a Panchgani, una piccola cittadina in altura dove era situato il St.Peter’s, il collegio dove avrei passato i miei successivi anni di formazione.

    Era un grazioso villaggio scolastico, dove si doveva indossare un’uniforme e seguire regole molto severe. Ho trascorso diversi anni in quel collegio sentendo molte volte la mancanza di casa. Non mi sono mai lamentato con nessuno, credo che fosse l’avvisaglia del tipo di carattere che già allora possedevo. Ero forte, determinato, competitivo: quando avevo in mente di raggiungere un obiettivo niente poteva fermarmi, come a scuola, nelle discipline in cui mi cimentavo. Eccellevo nella boxe, nella corsa campestre ed ero un ottimo giocatore di ping-pong. Mi piaceva disegnare e quando ne avevo la possibilità, interpretavo ruoli femminili in qualche recita studentesca. La mia passione più grande, però, era la musica. Mia madre diceva sempre che mi piaceva intrattenere i parenti cantando classici come Oh Sole Mio e che ero sempre curioso di ascoltare la musica indiana, la musica pop e altri generi che la cultura del luogo aveva da offrire. Iniziai a prendere anche lezioni di pianoforte grazie a una mia zia che aveva notato che avevo del talento e un buon orecchio musicale. Al St.Peter’s, con alcuni miei compagni, decisi di formare la mia prima band: The Hectics. Io suonavo il pianoforte, gli altri ragazzi si occupavano di batteria, basso, chitarra e voce. Mi fa ridere pensare che quel basso avesse una corda sola.

    Avevo un modo frenetico di suonare il pianoforte, era molto apprezzato dagli studenti che venivano a vederci suonare.

    Quando ascoltavamo qualche brano alla radio, i ragazzi della band mi chiedevano spesso di suonare il pezzo appena sentito. Io mi sedevo sullo sgabello, appoggiavo le mie dita sul pianoforte e senza nemmeno lo spartito ripetevo la canzone. I miei compagni rimanevano sempre sbalorditi, questo mi faceva pensare che forse mia zia aveva ragione. Per me era una cosa del tutto normale, mi veniva spontaneo, non so spiegare, la sentivo dentro di me la melodia; già allora sentivo che la musica avrebbe avuto un ruolo importante nella mia vita. Ero affascinato dalla cultura occidentale, compravo e leggevo i giornali per tenermi aggiornato sugli artisti che popolavano quella parte del mondo. Purtroppo arrivavano mesi e mesi dopo, quindi le notizie non erano attuali, ma era l’unico modo per tenermi al passo con quella realtà così lontana dal mio quotidiano. Ho sempre desiderato andare a vivere a Londra perché l’ho sempre considerata una città affascinante che poteva offrire molte opportunità. Un mucchio di opportunità. Quando lasciai Panchgani e tornai a casa, nel nostro paese era in atto una sanguinosa rivoluzione, sarebbe stato molto pericoloso per noi continuare a vivere lì. Così i miei genitori scelsero di portare me e mia sorella in Inghilterra. Siamo andati ad abitare in un quartiere chiamato Feltham, un sobborgo di Heathrow nel sud di Londra. A Zanzibar godevamo di una certa importanza e di un certo benessere familiare. In Inghilterra sarebbe stato tutto diverso, saremmo partiti completamente da zero. Mia madre era molto preoccupata per quel drastico cambiamento, io, al contrario, ero eccitatissimo, continuavo a tranquillizzarla che tutto sarebbe andato bene, che ce l’avremmo fatta. Per aiutare la mia famiglia mi misi all’opera e trovai lavoro come facchino all’aeroporto di Heathrow. Lo ricordo molto bene. I miei compagni di turno mi prendevano in giro per le mie mani da femmina. Per niente intimorito, rispondevo loro che erano mani d’artista.

    Avevo 18 anni, ero appena arrivato al centro del mondo, ora potevo aspirare a diventare una STAR.

    DAGLI SMILE…AI QUEEN

    Ho sempre pensato di essere una Star! Dovevo solo fare in modo che anche il resto del mondo si accorgesse di me.

    Dopo aver iniziato a lavorare come scaricatore, decisi di proseguire i miei studi iscrivendomi al Politecnico di Isleworth.

    Avevo bisogno di un diploma che mi permettesse di accedere alla scuola d’arte. Il mondo dell’arte mi ha sempre affascinato: ho sempre adorato vedere persone esprimere il proprio talento creando qualcosa di nuovo, di innovativo, di diverso. A Isleworth mi impegnai molto negli studi e dopo due anni mi iscrissi alla Ealing School of Art. Avevo diversi corsi da frequentare, ma quello che mi dava più soddisfazione era il corso di disegno. I miei scarabocchi spaziavano su tutto, non avevo uno stile definito o una preferenza in particolare. Mi piaceva ritrarre personaggi che mi entusiasmavano per la loro arte, come il famoso chitarrista di Seattle, Jimi Hendrix, un soggetto frequente nei miei schizzi a matita. Il suo stile e il suo modo di esibirsi erano una grossa fonte di ispirazione per me. Ero talmente preso da questo artista che andai a sentirlo suonare nove sere di fila. Mi catturavano la sua presenza scenica e il suo modo di interagire col pubblico, aveva un carisma fuori dal comune. Era tutto quello che avrei voluto diventare io a quel tempo. A scuola, oltre a dedicarmi ai miei ritratti su Hendrix, creai molto altro e poi passai alla moda disegnando abiti da cocktail.

    Lo studio mi portava via molto tempo ma non per questo avevo smesso di dedicarmi alla musica.

    Suonavo il piano in una delle aule della scuola e in maniera autodidatta imparai a suonare la chitarra. Quei fottuti tre accordi di chitarra, niente di più miei cari! Nel circuito scolastico, molti ragazzi si davano da fare con la musica cercando di formare la propria band. Eravamo tutti studenti alla ricerca di un diploma che ci desse stabilità, anche se credo che la maggior parte di noi avesse progetti più ambiziosi.

    Tra gli amici di corso, frequentavo con piacere Tim Staffel, un ragazzo molto per bene che militava in una band: gli Smile. Tim, mi aveva più volte parlato del suo gruppo, aveva buone speranze e si vedeva che ci teneva a maturare musicalmente.

    La band era composta da tre persone ma io conoscevo solo lui, che era la voce solista e si occupava del basso.

    Un giorno, dopo la fine delle lezioni, voleva che lo sentissi suonare e quindi mi invitò alle prove che si sarebbero tenute nell’aula magna della scuola.

    «Mi trovo coi ragazzi del gruppo, Fred, se passi mi dici cosa ne pensi del nostro modo di suonare?»

    Tim sapeva che ero sempre interessato alla musica e il suo invito non mi sorprese più di tanto.

    Annuii, poco convinto, mentre lo guardavo che lasciava la nostra aula di disegno.

    Non avrei mai pensato che quel giorno avrebbe cambiato la mia vita per sempre!

    Yesterday my life was in ruin

    Now today I know what I’m doing

    Got a feeling I should be doing all right

    Doing all right

    Con la mia spavalderia spalancai la porta dell’aula magna e senza volerlo interruppi il pezzo che stavano provando.

    Tutti e tre mi guardarono.

    Il chitarrista mi osservò con aria perplessa.

    Il batterista fece una smorfia di disgusto.

    Tim Staffel smise di cantare e si rivolse a me: «Dato che sei entrato con calma, tanto vale che ti avvicini Fred, che ti presento il resto della band». Mi sorrise e con la mano mi fece cenno di avvicinarmi.

    A testa bassa e a passo lento raggiunsi il palco. «Scusatemi, non volevo interrompere il vostro lavoro.» La mia entrata era stata troppo irruenta e non volevo far la figura del maleducato.

    Il ragazzo coi riccioli ruppe il suo silenzio: «Non preoccuparti, avevamo bisogno di una pausa, tanto vale prendercela ora».

    Ero un po’ in imbarazzo, era chiaro che avevo interrotto il loro lavoro.

    Il ragazzo con la chitarra mi porse la mano e mi sorrise: «Mi chiamo Brian May e come vedi suono la chitarra».

    Gli strinsi la mano e ricambiai il suo sorriso.

    Tim lo conoscevo già quindi andai verso la batteria per presentarmi all’altro ragazzo.

    Circondato dal suo kit, mi guardava con aria seccata ma questo non mi intimorì per niente.

    Allungai la mano verso di lui e mi presentai. «Mi chiamo Freddie Bulsara! Mi piace la tua batteria».

    Il batterista posò le bacchette, si alzò dallo sgabello, strinse la mia mano e mi disse: «Sono Roger Taylor; ma che denti hai amico?»

    Ho sempre avuto i denti sporgenti, sono cresciuto con quattro incisivi in più, al St. Peter’s a volte i miei compagni mi prendevano in giro chiamandomi Bucky. Ma quelli erano miei amici, questo neppure lo conoscevo e la cosa mi irritò parecchio.

    «Dovresti sentire come canto, tesoro, invece di badare ai miei denti.» Liquidai così la conversazione col biondo batterista.

    Mi accomodai su una sedia a lato del piccolo palco e per un po’ stetti in silenzio ad ascoltarli.

    Provarono questa canzone melodica e cercarono di creare piccole armonie vocali.

    Tutti e tre cantavano e devo dire che il suono prodotto dalle loro voci era veramente entusiasmante. Non c’è che dire, avevano del potenziale!

    Anche se il primo incontro fu un po’ freddo, in seguito legai molto con Brian e Roger e andai parecchie volte a vederli suonare dal vivo. Erano gentili e molto divertenti, passavamo molto tempo a parlare di musica commentando gli artisti che erano in ascesa in quel periodo. Eravamo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Londra brulicava di talenti pronti a esplodere.

    Avevamo appena visto i Beatles aprire la strada dei nostri sogni.

    John Lennon

    Paul McCartney

    George Harrison

    Ringo Starr

    Tutti nel circuito scolastico adoravamo il quartetto di Liverpool, Brian e Roger non facevano eccezione. Nonostante i nostri sogni giovanili, quel periodo non fu sempre un percorso rose e fiori. Per certi versi mi sentivo come un vagabondo. Avevo lasciato la casa di Feltham e mi ero trasferito a Londra. Non avevo una dimora fissa, dormivo qua e là da amici che, di volta in volta, si offrivano di ospitarmi. Non avevo un soldo in tasca; in alcuni giorni, mi dimenticavo pure di mangiare.

    Per racimolare qualche sterlina da spendere con Roger Taylor aprimmo una bancarella di vestiti usati al Kensington Market.

    A volte portavamo degli orribili stracci convinti che ci avremmo fatto una fortuna. La bancarella ci dava modo di stare a contatto con la gente e di racimolare qualche soldo che ci avrebbe permesso di prendere un taxi al posto dei tradizionali autobus. Ho sempre odiato l’autobus!

    Passavo molto tempo con Roger, andavamo molto d’accordo. Al mercatino ne combinavamo di tutti i colori. Lui era proprio uno sciupa femmine. Portava i capelli lunghi, era la moda di quel tempo, la sua moda era quella di darsi da fare con le ragazze. Non era mai senza i suoi occhiali da sole indipendentemente che piovesse o ci fosse il sole, lo faceva per distinguersi dalla gente comune. Cercavamo di sopravvivere con quello che avevamo e, nel frattempo, ognuno di noi cercava di prendere un diploma che ci desse una qualche stabilità. Credo che nessuno volesse veramente fare il lavoro per il quale stavamo studiando, tutti volevamo una cosa sola: formare una band di successo. Agli Smile sembrava non mancasse molto all’obiettivo mentre io mi ero da poco unito a un gruppo di Liverpool chiamato Ibex. Andavamo in giro in lungo e in largo per il paese in un odioso furgoncino cercando di raccattare qualche serata con la speranza di trarne anche un profitto. L’entusiasmo non mi mancava mai, ero veramente convinto che avrei sfondato e questo mi faceva guardare con ottimismo al futuro. Continuavo a seguire gli Smile, li trovavo molto forti, mi piaceva il loro suono, il modo in cui abbinavano la chitarra di Brian con la batteria di Roger. Avevano tutte le carte in regola per diventare una grande band ma mancavano di una cosa: non intrattenevano il pubblico.

    Suonavano bene, ci mettevano passione, ma non erano dotati del carisma necessario che permettesse loro di creare uno spettacolo di livello superiore a una mera esibizione strumentale.

    «Dovete coinvolgere di più il pubblico, creare un evento, non solo limitarvi a suonare buona musica» dicevo loro.

    Non era presunzione la mia, solo avevo già lo spettacolo nel sangue e un’ampia visione di quello che ci volesse per sfondare nel Music Business. Dopo aver pubblicato il loro primo singolo in America, gli Smile si sciolsero perché Tim si era stancato e non vedeva un futuro in quello che stavano facendo.

    Ero con loro il giorno che prese la decisione di lasciare.

    Brian e Roger erano un po’ demoralizzati, erano da poco passati dalla pubblicazione di un singolo in America a quella di vedere la band sfasciarsi per la decisione di un singolo componente.

    Brian scuoteva la testa in continuazione e aveva l’aria di uno a cui avevano appena scopato la moglie.

    «Proprio adesso che eravamo quasi sul punto di avercela fatta» sibilò a voce bassa.

    Quella era la mia occasione, l’occasione che aspettavo da tempo; avevo trovato due validi musicisti con cui avrei potuto dar sfogo a tutte le mie idee.

    Volevo incoraggiarli a non mollare! Diedi a Brian un colpo sulla spalla, poi feci il mio annuncio: «Non c’è problema caro, canterò io per voi».

    Brian alzò la testa e mi guardò perplesso. La sua aria smarrita si fece quasi preoccupata. «Tu Fred? Tu vorresti unirti a noi?»

    Non era per niente convinto. Anche se trovavano in

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