I Romanzi di Cesare Pavese: Il carcere - La casa in collina
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Ci invita, inoltre, a scrivere la nostra storia e a prendere decisioni autentiche, senza essere influenzati dal passato. Ma Pavese non riesce a superare il passato. Non schierandosi, mentre il mondo brucia, permane in una situazione d'ignavia e d'isolamento come unica possibilità di sopravvivenza. Si limita a costruire dal'interno il tipo psicologico dell'ignavo, dell' uomo alla perenne ricerca di un alibi.
In un appunto de Il Mestiere di vivere, che risale al '38, il periodo del Carcere, si legge «Tu non sei nato olimpionico e mai lo sarai, i tuoi sforzi sono inutili... chi ha ceduto una sola volta al tumulto può sempre cedere un'altra... la tua salvezza sta solo nella vigliaccheria... nel ritirarsi nel guscio ... nel non correre il rischio. Ma se il rischio ti cerca?».
L'incontro con l'alter ego avviene sulla collina.
Sta per finire il secondo conflitto mondiale. Il protagonista è Corrado, un professore che scappa dalle bombe e dalle retate rifugiandosi di sera sulla collina, un rilievo montuoso poco elevato, subito a ridosso del Po.
Corrado desidera partecipare alla lotta clandestina, ma il suo animo è bloccato dalla paura di comprendere, dall'incapacità a comprendere il significato stesso della sua vita e dell’indifferenza che nutre nei confronti della militanza politica.
Sul suo rifugio incontra Cate, una vecchia fiamma, ora una ragazza madre con un figlio senza padre. Dino potrebbe essere suo figlio.
La giovane donna, generosa e temeraria, lotta con una banda partigiana. Corrado. che stagnava nella solitudine e nell'ignavia, deve fare i conti con il suo alter ego rappresentato da questa donna che affronta la vita con coraggio. Sempre tormentato, torna con Dino nel suo rifugio sicuro sulle Langhe fino a quando i partigiani avanzano favoriti dalla neve invernale.
Solo dopo aver assistito alle rappresaglie dei tedeschi e, soprattutto, quando osserva sulla neve i corpi dei cadaveri sconosciuti s'intravede una fioca coscienza di un uomo in cerca di un senso alla propria esistenza «Ci si sente umiliati perché si capisce che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e glie ne chiede ragione».
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Anteprima del libro
I Romanzi di Cesare Pavese - Federico Petrarca
CESARE PAVESE
La formazione scolastica e universitaria
Cesare Pavese è stato uno scrittore, poeta, traduttore italiano. Considerato uno dei maggiori scrittori italiani del XX secolo, la sua opera è ancora oggi letta e apprezzata in tutto il mondo.
Nacque a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, in Piemonte, il 9 settembre 1908. Trascorse l'infanzia e l'adolescenza nel paese natale, dove il padre Eugenio era cancelliere presso la Pretura e la madre Consolina Mesturini casalinga. Nelle Langhe, un'area rurale del Piemonte, la sua famiglia possedeva un piccolo podere.
Erano 5 figli, Maria era la sorella più grande di lui di sei anni, una sorella e due fratelli morirono in tenerissima età. Grande sostenitrice del lavoro del fratello, di cui fu fonte di conforto e sostegno durante i suoi periodi di depressione, Maria lavorò presso l'editore Einaudi come dattilografa e correttrice delle sue bozze. Morì nel 1995 all'età di 86 anni.
La madre dello scrittore proveniva da una famiglia di ricchi commercianti di Ticineto Po. Per motivi di salute si faceva aiutare a crescerlo da Vittoria Scaglione, sorella di Giuseppe Pinolo
, falegname, musicista e amico di Cesare Pavese per tutta la vita. Uomo semplice e umile, ma anche molto intelligente e curioso, amava leggere e suonare il clarinetto. A lui Pavese si ispirò per il personaggio di Nuto del romanzo La luna e i falò ambientato nelle Langhe dove Pavese e Scaglione hanno trascorso insieme la loro infanzia e giovinezza. Scaglione morì a Santo Stefano Belbo nel 1988 all'età di 83 anni.
Pavese ricorda così la morte del padre causata da un tumore al cervello, avvenuta il 2 gennaio 1914: «Mio padre morí che avevo sei anni e io giunsi a venti senza sapere come un uomo si comporta in casa. […] Mia madre aveva cercato di tirarmi su duramente come farebbe un uomo, e ne aveva ottenuto che tra noi non usavano né baci né parole superflue, né sapevo che cosa fosse famiglia».
Frequentò le elementari all’istituto privato delle signorine Trombetta, in via Garibaldi a Torino, il ginnasio inferiore presso l’Istituto «Sociale» dei Gesuiti, nell'ottobre 1923 inizia la formazione presso il ginnasio superiore «Massimo D'Azeglio (e non il liceo «Cavour» come viene riportato da molti biografi).
Aveva già cominciato a «infilare in versi le ideucce brulicanti per il suo cervello» sulla Rivoluzione di Russia; una «canzonetta politica zoppa, e sciancata» dal titolo «Trotzky e Lenin van morti» che, invero, è composta da due quartine mirabili per armonia di verso e per concisione epigrammatica; una tentata poesia; un ingenuo diario in prosa.
Il 1922 erano state compiute azioni che verranno evocate da una ragazzo di appena 14 anni nella poesia Una generazione, scritta nel 1934: la Camera del Lavoro venne assaltata il 18 dicembre dalle squadre d’azione torinesi; erano stati incendiati il Circolo dei Ferrovieri e quello intitolato a Carlo Marx; la sede de «L’Ordine Nuovo» era stata distrutta.
Al liceo classico «Massimo D’Azeglio» di Torino ebbe come compagni Guido Bachi, Giorgio Curti, Remo Giacchero, Tullio Pinelli, Carlo Predella. Suo professore di italiano e latino fu Augusto Monti, crociano, gramsciano, gobettiano. Vi erano anche Umberto Cosmo, Raffaele Ciaffi, Oreste Badellino (!). Delle sue infinite letture ricorderà in particolar modo Le monde avant l’apparition de l’homme di Camille Flammarion. Così scriveva a Bianca Garufi il 21 febbraio 1946: «...era il primo vero libro che leggessi, e sapevo tutto del periodo siluriano e giurassico e capivo che i romanzi d’avventure che avevo letto da ragazzo erano la stessa cosa, e insomma diventavo quello che sono».
Dopo aver tentato di scrivere versi, risultanti alquanto pedanti, si esercitò fino a raggiungere risultati soddisfacenti. Decise quindi di raccoglierne alcuni che inviò agli amici per avere e consigli.
Il 1926 conseguì la maturità classica lasciando finalmente «quella stia da capponi che è la scuola» (Lettera a Tullio Pinelli, 1° agosto). Continuò e si fece intenso il rapporto con Augusto Monti che in profonda amicizia lo incoraggiava («Per voi la scuola nostra comincia ora… venite a parlarmi dei vostri studi, delle vostre opere, dei vostri giorni…» confrontandosi in modo schietto e sincero: «il primo dei miei scolari, il primo che, uscito dalla mia scuola, abbia voluto entrar nella mia amicizia, il primo quindi anche cronologicamente dei miei scolari piú miei, è stato anche quello con cui ho piú a lungo e piú tenacemente discusso – anzi, letteralmente, litigato». Pavese divorava i classici: studiò il greco, il tedesco sul Faust, Orazio, Ovidio, Quintiliano, Boccaccio, Shakespeare, la Légende des Siècles e le Foglie d’erba di Walt Whitman lo affascinarono tanto che si laureò con una tesi proprio su Whitman.
Si era infatuato per la soubrette Milly (Carolina Francesca Giuseppina Mignone), della famosa compagnia di Ripp e Bel Ami, ma, nel mese di luglio 1927 scrisse a Mario Sturani esponendo il semplice motivo per cui si era imposto che svanisse dalla sua mente: «... È tornata la mia ballerina. […] | Il primo giorno l’ho voluta rivedere, poi mi sono imposto di girare tutta la notte per le strade delle mie colline, tra i boschi. […] È bella, sí, giovane, meravigliosa, tutto quello che si può dire, ma ci sono le poltrone in mezzo tra me e lei e nelle poltrone ci sono sempre seduti molti uomini. Questo piccolo fatto mi ha fatto riflettere e a poco a poco, e ci ho sofferto mica poco, la bella, la divina, la venerea lavoratrice delle gambe mi è svanita dalla mente. Cioè, è ancora qui, come un bel ricordo, ma certo non si accenderà piú».
A tale infautazione si contrappose l’amore per «una ragazza» che gli donò una «poesia intensa»: «Prima di te tutte le mie pagine non erano che sfoghi sforzati e tremendi, fulminei, di lunghe sofferenze grige che a un tratto culminavano in una irresistibile potenza di spasimo, o cose morte stentate e sofferte in segreto e con immensa vergogna. Ma ora dopo la tua apparizione azzurra, […] la poesia è diventata una cosa sola colla mia esistenza». A questa ragazza dedica 25 liriche, tra queste «Ti amo, bambina», «Ho tentato baciarti e tu mi hai morso», «La rosa che mi hai data è tanto triste», «Penso, bambina, quando accanto a te», ecc.
Molte privilegiano il motivo del suicidio accennato anche nelle lettere contemporanee. Il 12 luglio scriveva a Tullio Pinelli: «È, in fondo a ogni mio esaltamento, l’esaltamento supremo del pensiero del suicidio. Oh, un giorno ne avrò bene il coraggio! Lo vagheggio di ora in ora tremando. È il mio ultimo conforto».
Lo stesso Monti caldeggiò la nascita della «confraternita» di ex allievi dellle sezioni A e B del D’Azeglio. Nella «confraternita» entrarono a far parte anche Ludovico Geymonat, Franco Antonicelli, Giulio Cesare Argan che nel D'Azeglio non erano mai entrati.
La «confraternita», inoltre, aveva anche rinsaldato i rapporti di amicizia con molti giovani conosciuti in precedenza, oltre a Mario Sturani, Norberto Bobbio, Federico Chabod, Giulio Einaudi, Massimo Mila, Vittorio Foa, Remo Giacchero, Enzo Monferini, Leone Ginzburg che li accolse nella propria casa ove ebbe luogo la prima riunione dei futuri intellettuali che si chiamavano con soprannomi: «Barone» (è Pavese), «Bindi» (è Bobbio), «Pollo» (è Sturani).
Ormai, prima di laurearsi, aveva acquisito competenze tecniche che lo soddisfacevano. Il 29 luglio così scriveva a Carlo Pinelli: «un tempo smaniavo a applicarmi al tavolino, ebbene, ora, senza sforzo, mi preparo per un esame biennale, studio un mucchio di cose e di tanto in tanto dò fuori come un galletto poesie e novelle».
Aveva ormai acquisito padronanza nel verso libero tanto che allo stesso Pinelli scriveva il 5 agosto: «... in mezzo alla vita che ci circonda, non è piú possibile scrivere in metro rimato come non è lecito andare in parrucca e spadino» ed esibiva le poesie dell’anno raccolte poi in Le febbri di decadenza.
Aveva appreso «lezione tecnica» che gli facilitava «il mestiere dell’arte e la gioia delle difficoltà vinte, i limiti di un tema, il gioco dell’immaginazione, dello stile, e il mistero della felicità di uno stile, che è anche un fare i conti con l’ascoltatore o lettore possibile».
Nel 1930, si laureò con una tesi su Walt Whitman. Dopo la laurea, trovò lavoro come impiegato presso la casa editrice Einaudi, dove rimase per tutta la vita e pubblicò le opere conosciute in tutto il mondo, piene di poesia e di bellezza, caratterizzate da un forte senso di solitudine e di malinconia con personaggi che sono spesso degli antieroi in cerca di trovare il loro posto nel mondo, interrogandosi sul senso della vita e sulla morte.
Il 27 agosto 1950 si suicidò a Torino. Aveva 41 anni.
Dal Premio Strega al suicidio
Nel 1949 l'editore Einaudi nel 1949 pubblicò nella collana I supercoralli tre romanzi brevi di Cesare Pavese in una raccolta intitolata La bella estate che il 24 giugno dell’anno successivo gli valse il Premio Strega commentato dallo scrittore con un parole che sembravano un epitaffio «a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita», (17 agosto, MV, 400).
È Leone Piccioni, critico letterario tra i più apprezzati da Pavese, autore di saggi su Ungaretti, Federigo Tozzi, Carlo Emilio Gadda, Giacomo Leopardi racconta fedelmente la sua reazione all’annuncio della vittoria nell’introduzione all’edizione del 1968 de La bella estate nella collana I Premi Strega diretta da Maria Bellonci per le edizioni del Club degli Editori.
La sua è una testimonianza affidabile per aver utilizzato gli inserti dei diari ed è una testimonianza diretta in quanto presente alla serata di premiazione che racconta così:*
.«Tardo giugno 1950: illuminazione assai forte su quella terrazza, cineoperatori (la TV non c’era ancora), gente assai fitta, un caldo da scoppiare: era notte ma si sudava, il pavimento (asfalto, non so, mattonelle) ribolliva: vestiti leggeri, per quanto se ne volesse, un bel caldo!
Per la prima volta a me accadde di vedere quella sera Cesare Pavese di persona. Arrivò in atteggiamento assai singolare, e per me indimenticabile, asciutto e schivo, a disagio ma anche un poco abbandonato a quell’insolito piacere (un piacere che avrebbe dovuto essergli sgradito, ma lì per lì, sgradito davvero non gli era), da pochissimi conosciuto personalmente, ma da tutti amato o avversato come scrittore e come personaggio, già un mito vivo per la letteratura di allora, in un momento per lui cruciale anche rispetto a quella che di lì a poco fu la volontaria fine della sua vita.
Vestito di chiaro, profilo teso sotto gli occhiali, anche se rispondeva sorridendo ai saluti, e poi ai complimenti – reso noto l’esito della votazione – non mutava lo stato della sua tensione. Vinse a mani basse, com’era giusto, ampiamente doppiando gli altri candidati della «cinquina», con enorme distacco di voti anche dal secondo: e di rado premio letterario fu meglio assegnato di questo dato a Pavese per La bella estate. Di fronte a saluti, ad applausi, a complimenti, Pavese cercava piuttosto rifugio nello sguardo e nella vicinanza della bella attrice americana Doris Dowling, sorella di Costance, di cui Pavese era, in quel momento, molto innamorato, ma già in una profonda crisi sentimentale come poi, dalle date del diario, Mestiere di vivere, fu facile ricostruire. (E che sorte tragica e amara toccò anche a quelle due splendide sorelle!)».
Per quella sera del Premio, nel diario è scritto:
«Domattina parto per Roma. Quante volte dirò ancora queste parole? È una beatitudine. Indubbio. Ma quante volte la godrò ancora? E poi? Questo viaggio ha l’aria di essere il mio massimo trionfo. Premio mondano, D. (oris) che mi parlerà – tutto il dolce senza l’amaro. E poi? e poi? Lo sai che sono passati i due mesi? E che, any moment, può tornare?» (22 giugno)».
(Ed era certo Costance che poteva «tornare»: «For C. Ripness is all» fu la dedica de La luna e i falò. «To C. from C.» sarà quella di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi).
Poi, passati venti giorni (14 luglio):
«Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla. L’ultima dolcezza l’ho avuta da D. (oris), non da lei. Lo stoicismo è il suicidio. Del resto sui fronti la gente ha ricominciato a morire». (La guerra di Corea era in pieno corso).
Alla premiazione Pavese si era fatto accompagnare da Doris Dowling, sorella della diva americana di cui era innamorato, suscitando la curiosità e i pettegolezzi dei presenti: «Il premio fu la solita cosa – un premio dato tra gente che se ne infischia. Ma stavolta li ho battuti: la mia compagnia era tale che io costituivo il centro non solo intellettuale ma altresí mondano e scandalistico della serata. A bomba atomica bomba atomica» (a Lalla Romano, 17 luglio, LII, 550).
Una lettera che nulla faceva presagire sull’imminente suicidio ma, soprattutto, una lettera dove non confessava la propria amarezza, annotata nel Diario, per non avere avuto Constance, bensì la sorella Doris, accanto a sé in occasione del conferimento del premio.
Constance Dowling non era presente e, ultima, grande delusione della sua vita, non lo sarà più.
La Dowling, in Italia dal 1947 al 1950, recitò in alcuni film italiani, fra i quali Miss Italia accanto a una giovane Gina Lollobrigida. Durante la sua permanenza in Italia, nella sera del Capodanno 1949, i due si incontrarono a casa di amici a Roma. Il poeta-scrittore s’innamorò di lei ma, deluso da Roma e dal suo ambiente, tornò a Torino. Qui s’incontrarono nuovamente e trascorsero insieme alcuni giorni in un intenso, ma estremamente breve, idillio d’amore.
La bella illusione svanì ben presto, l’attrice partì per Roma e poi se ne tronò a Hollywood. Non rispose mai alle numerose lettere dell’innamorato: Cara Connie, volevo fare l’uomo forte e non scriverti subito, ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa. (...) Ti amo. Cara Connie, di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è quasi nuova per me
. Nessuna risposta.
Sperando sempre nel suo ritorno, Pavese le inviò la dedica de La luna e i falò (For C. - Ripeness in all
) ma, quando venne a conoscenza che la Constance aveva una relazione con un attore conosciuto sul set del suo ultimo film, aveva finalmente chiaro che l’aveva perduta per sempre e il mancato riscontro alle sue lettere era stato un velato ammonimento. Connie era passata dal suo letto a quello di Andrea Cecchi.
Scrisse le sue ultime poesie, tra cui Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,(gli occhi di Connie!). E, ne Il mestiere di vivere, scrive Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte
.
Il profondo, antico disagio esistenziale pervade totalmente lo scrittore. Torna puntualmente il senso di solitudine e di emarginazione presente nelle sue opere, torna l’ombra minacciosa della morte, torna il vizio assurdo
, come lo definì egli stesso nella stessa poesia. A questo punto organizza la sua uscita di scena.
Il 26 agosto scrive a Mario Motta, direttore della rivista Cultura e realtà: Chi «è tornata»? L'americana? Ho altro da pensare. Ciao. Pavese
.
Il giorno successivo, il proprietario dell’hotel Roma di Torino decide di sfondare la porta della stanza 346 ove alloggia un cliente all’apparenza stralunato. Il letto sfatto, sul comodino delle bustine di sonnifero e I dialoghi con Leucò, testamento della morte prematura e della sua infelicità, il libro a lui più caro.
Per i giornalisti un bigliettino, chiede di non fare troppi pettegolezzi
, riferendosi ovviamente a quella sua ultima tormentata relazione con Connie che, come da testimonianza del nipote, morirà non per attacco cardiaco, riferito ufficialmente, ma, da non crederci, per suicidio con sonniferi.
Biografia
La ricerca di una biografia su Google consente di accedere a un'ampia varietà di risorse e fonti di informazioni ma la biografia più attendibile resta quella raccontata dallo stesso interessato o da chi lo ha conosciuto di persona.
Hyperpavese.com è un portale di approfondimento e ricerca sulla figura e sull’opera di Cesare Pavese. Coordinato dal Centro Interuniversitario per gli studi di Letteratura italiana Guido Gozzano – Cesare Pavese
dell’Università di Torino e del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino, include dettagli sull' infanzia dell'autore, sulla istruzione, sui risultati, sulle sfide ed eventi importanti della sua vita, sulle sue relazioni, influenze e contributi alla società.
In una sezione è stato riportato un audio di Giovanni Moretti, maestro invisibile di tanti artisti, deceduto nel gennaio 2023, che evidenzia i punti salienti della biografia di Pavese. Bisogna solo evidenziare che Cesare Pavese ha frequentato il ginnasio superiore presso il liceo Massimo D'Azeglio
e non al Cavour
.
La Fondazione Cesare Pavese ha riportato nel proprio portale diverse testimonianze di chi lo ha conosciuto, vi è anche un Dialogo con Maria Luisa Spini, nipote dello scrittore, ex professoressa di italiano, figlia della sorella Maria e del cognato Guglielmo, ultima testimone diretta dello scrittore venuta a mancare sabato 28 gennaio 2023, all’età di 94 anni.
Pavese visse nella loro casa in via Lamarmora a Torino e passò insieme anche il periodo dello sfollamento nella casa in collina, a Serralunga di Crea. Delineò così lo zio nell'intervista del maggio 2020: «Molto sensibile, troppo. Non ci parlava mai dei suoi libri: forse non ci riteneva degni. Mia madre lo venerava, e a me e a mia sorella ripeteva sempre di non entrare nella stanza»
Primo fotogramma del documentario Cesare Pavese: l'uomo
Link consigliati
hyperpavese.com, portale di approfondimento e ricerca sulla figura e sull’opera di Cesare Pavese;
fondazionecesarepavese.it/, in particolare, si consiglia di visitare questo link per la bibliografia;
https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Pavese, link consigliato dalla stessa Fondazione Pavese. Su questa pagina, di per sé molto ampia, sono riportati numerosissimi link per la conoscenza approfondita dell'autore. Molte voci sono collegate a wikisource ove viene riportato materiale utile.
PRIMA CHE IL GALLO CANTI
Prima che il gallo canti fu per Cesare Pavese il libro della consacrazione. È composto da due romanzi scritti a distanza di quasi dieci anni e pubblicati insieme nel 1948. Il carcere fu scritto tra il 1938 e l'anno successivo, La casa in collina tra il 1947 e il '48.
In alcune pagine manoscritte, datate 13 settembre-7 ottobre 1944 (cfr. nel volume Racconti: Il fuggiasco, p. 504) e 16 febbraio 1947, vi sono abbozzi che si riferiscono a episodi riportati nell’ultima parte del romanzo: la traversata della campagna occupata dai tedeschi, ad esempio, e l’incontro con l’amica d’un tempo, ritrovata con un figlio, riportato nel volume Racconti: La famiglia, p. 288.
Il carcere trasfigura l'esperienza del suo confino in Calabria, La Casa in collina rappresenta la grande pagina bianca della sua vita: la mancata partecipazione alla Resistenza mentre alcuni dei suoi amici più cari morivano nella lotta antifascista.
L'esperienza del confino in Calabria
In Stefano, personaggio principale del romanzo Il carcere, è riconoscibile lo stesso Pavese. Nonostante il suo disimpegno dalla politica (aveva solo tentato di proteggere la donna amata, militante nel Pci), Pavese fu arrestato per antifascismo e frequentazione di ambienti sovversivi. Imprigionato nel carcere di Torino, poi in quello di Roma, fu infine condannato a tre anni di confino in Calabria, a Brancaleone ove rimase tra l’agosto del 1935 e la primavera del 1936 per condono della pena in occasione del successo nella guerra d’Etiopia.
Il romanzo nasce così da una storia di privata solitudine che segnò profondamente lo scrittore.
Il carcere, sia come spazio fisico che come stato mentale, rappresenta la prigione che ogni individuo si crea intorno a sé e dalla quale può essere difficile liberarsi. Come metafora, il carcere rappresenta i confini e i limiti autoimposti che ci tengono prigionieri nella nostra vita quotidiana. Spesso ci ritroviamo intrappolati da abitudini, paure e atteggiamenti negativi che ci impediscono di realizzare il nostro pieno potenziale e di vivere una vita soddisfacente.
Ambientato nell'ambiente tetro e opprimente di un carcere, il protagonista di Pavese riflette sulle sue scelte di vita e sulle conseguenze che lo hanno portato alla sua situazione attuale.
Sollevando interrogativi sulla natura della libertà, sull'impatto delle decisioni passate e sulla possibilità di redenzione, Pavese ci trascina nella mente e nell'anima dei suoi personaggi, immergendoci in un intenso viaggio interiore per approfondire i temi della solitudine, dell'isolamento e della disperazione esistenziale alla continua ricerca del senso di vivere nella società moderna.
Con uno stile di scrittura poetico e potente, ricco di sfumature e introspezione psicologica, caratterizzato da una grande precisione nel linguaggio, lo scrittore, con il suo racconto intenso e coinvolgente, esplora le profondità delle emozioni umane ed esamina la ricerca di significato in un mondo apparentemente privo di significato, scontrandosi sempre con la pagina bianca della sua vita.
Pavese e la pagina bianca della sua vita
La pagina bianca della vita è una metafora che indica la possibilità di iniziare qualcosa completamente nuova e senza alcun preconcetto. Rappresenta un momento di opportunità e libertà in cui siamo liberi di scrivere la nostra storia e prendere decisioni senza essere influenzati dal passato.Ci invita ad esplorare il nostro potenziale e le infinite possibilità che la vita offre, un invito a liberare la nostra creatività e a dare forma ai nostri sogni.
Ci invita a scrivere la nostra storia e a prendere decisioni autentiche, senza essere influenzati dal passato.
Ma Pavese non riesce a superare il passato. Non schierandosi, mentre il mondo brucia, permane in una situazione d'ignavia e d'isolamento come unica possibilità di sopravvivenza. Si limita a costruire dal'interno il tipo psicologico dell'ignavo, dell' uomo alla perenne ricerca di un alibi.
In un appunto de Il Mestiere di vivere, che risale al '38, il periodo del Carcere, si legge «Tu non sei nato olimpionico e mai lo sarai, i tuoi sforzi sono inutili... chi ha ceduto una sola volta al tumulto può sempre cedere un'altra... la tua salvezza sta solo nella vigliaccheria... nel ritirarsi nel guscio ... nel non correre il rischio. Ma se il rischio ti cerca?».
L'incontro con l'alter egosulla collina
Sta per finire il secondo conflitto mondiale. Il protagonista è Corrado, un professore che scappa dalle bombe e dalle retate rifugiandosi di sera sulla collina, un rilievo montuoso poco elevato, subito a ridosso del Po.
Corrado desidera partecipare alla lotta clandestina, ma il suo animo è bloccato dalla paura di comprendere, dall'incapacità a comprendere il significato stesso della sua vita e dell’indifferenza che nutre nei confronti della militanza politica.
Sul suo rifugio incontra Cate, una vecchia fiamma, ora una ragazza madre con un figlio senza padre. Dino potrebbe essere suo figlio.
La giovane donna, generosa e temeraria, lotta con una banda partigiana. Corrado.