Il rappresentante di felicità
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L’erede c’era: era il 1993.
L’istante in cui me lo portarono a far vedere, ancora nell’incubatrice, rimarrà uno dei momenti più importanti di tutta la mia vita. Era felicità, felicità assoluta, ben immortalata dalla foto che mi scattò proprio in quell’istante il mio amico Cono.
Caterina ebbe poi una seconda gravidanza, che purtroppo terminò con un aborto spontaneo. Fu un brutto colpo, ma non volevo vedere mia moglie così avvilita. Allora presi Vincenzo, che allora aveva un anno e mezzo, e lo buttai sul letto dell’ospedale vicino a lei.
«Tieni, prendi Vincenzo! Su, alzati dal letto e andiamocene tutti insieme a casa».
Ho sempre pensato che la sofferenza si combatte esclusivamente con la felicità, la morte con la vita. È un po’ la mia religione personale.
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Anteprima del libro
Il rappresentante di felicità - Michele Marino
immensa.
Capitolo 1
I primi 10 anni: l’età dell’innocenza
1.1 Il lieto evento
Come tutto ciò di più intimo che so di lui, anche le informazioni sulla mia nascita provengono dagli scritti di mio padre, da quell’agenda familiare in cui ha sempre appuntato gli avvenimenti importanti, così come i piccoli momenti di quotidianità che hanno scandito i ritmi della nostra famiglia.
Fu un parto difficile, a quanto mi hanno detto, e nel momento in cui il travaglio iniziò a complicarsi, il mio papà decise di andare a piedi fino alla Chiesa di Sant’Antonio, che si trovava esattamente dall’altro lato del paese. Una persona molto religiosa come lui, in un momento del genere, non poteva che affidarsi alla preghiera.
Pare che quando finalmente tornò a casa, un secondo dopo aver varcato la porta, mia mamma partorì.
Erano esattamente le 5:35 del mattino, di martedì 10 febbraio. Non a caso, era Carnevale.
A quei tempi si partoriva in casa, con la levatrice che veniva ad assistere la futura mamma, e così avvenne anche nel mio caso.
Io però non ne volevo proprio sapere di venire alla luce, tanto che alla fine dovettero tirarmi con il forcipe.
Mia mamma Rosetta aveva 32 anni, mentre mio padre, Vincenzo, ne aveva uno in più.
Era il 1959 e per gli standard del tempo i due non erano certo giovani, ma entrambi erano arrivati tardi al matrimonio perché prima avevano preferito frequentare l’Università e laurearsi.
La famiglia di mamma è La Padula, originaria di Tramutola, un paese lucano della provincia di Potenza, famoso non a caso per le belle ragazze.
Quella di papà invece è Marino, e proviene dalla provincia di Salerno, da un paese famoso per la sua Certosa: Padula.
Ho sempre pensato che fosse uno strano gioco del destino che le origini di mio padre portassero il nome della famiglia di mia madre. Nonostante fossero molto diversi, era chiaro che erano destinati a incontrarsi.
Mio papà era una persona molto riservata, mentre mia mamma aveva un carattere allegro, nonostante la sua gioventù non sia stata certo facile.
Era il periodo del fascismo e durante la seconda guerra mondiale la famiglia fu costretta a cercare riparo nei rifugi per sfuggire ai bombardamenti a Napoli. Proprio mentre si nascondevano per tentare di sopravvivere, il suo papà - mio nonno - e il fratello di appena diciassette anni si ammalarono e morirono.
Da quel momento in poi la strada della sua famiglia fu tutta in salita.
Fino ad allora avevano condotto una vita agiata, perché mio nonno era benestante e già all’epoca giocava in borsa. Lui era un personaggio veramente particolare: ho foto di lui in Brasile, in cima al suo cavallo bianco, con alle spalle terre infinite di piantagioni di caffè. Era la sua fazenda, la tipica fattoria brasiliana.
Avrei dovuto essere ricco io, sia da una parte che dall’altra della famiglia, ma così non è stato.
I miei nonni paterni erano umili e non potevano offrire molto a mio padre, ma gli zii se la cavavano decisamente meglio e decisero di mandarlo in città, a Salerno, per studiare. Solo grazie a loro ha potuto frequentare l’Università, laurearsi in Lettere, e diventare poi un insegnante.
Neanche per mia mamma fu semplice continuare gli studi. Dopo essere rimasta vedova, mia nonna Marianna dovette fare mille sacrifici. I soldi dopo la guerra si erano svalutati e l’errore del nonno era stato quello di non investire i suoi averi in qualcosa di materiale, che mantenesse il proprio valore.
Così, rimasta sola, con tre figli piccoli e senza più averi per garantire la loro sussistenza, nonna Marianna andò avanti per un po’ vendendo gli ori e i gioielli di famiglia, ma era chiaro che un affitto a Napoli non se lo potevano più permettere. Scelse allora sulla cartina geografica un comune dotato di liceo classico, per permettere ai figli di studiare e costruirsi un futuro, e la scelta cadde su Sala Consilina, il paese dove io, anni dopo, sarei nato.
Mia mamma e i suoi fratelli - mia zia Amalia e mio zio Peppino - erano infatti molto bravi a scuola, e questa fu un po’ la loro fortuna, perché già a quindici sedici anni si guadagnavano da vivere con le lezioni private. Lavoravano e studiavano, e in questo modo riuscirono a pagarsi gli studi e iscriversi all’Università.
Mia mamma decise di frequentare quella di Napoli, si laureò anche lei in Lettere e poi tornò in paese per insegnare allo stesso liceo classico dove aveva studiato. Ed è proprio qui che incontrò il Professor Vincenzo Marino, il mio papà.
Fino a quel momento i miei genitori avevano percorso due cammini similari ma distanti, ma era nel loro destino incontrarsi. E infatti fu subito amore.
Cosa avevano in comune? Innanzitutto la poesia.
Erano entrambi persone molto sensibili, acculturate, che lasciavano vivere sulla carta le riflessioni più intime, gli stati d’animo, le emozioni.
Tutto, in loro, era poesia.
E si innamorarono di un sentimento che ancora oggi sopravvive attraverso i loro scritti: lettere, pensieri, poesie struggenti, come una telecronaca della loro storia d’amore.
Una passione così forte che io ho potuto scoprire e rivivere proprio leggendo queste pagine, forse il tesoro più prezioso che mi hanno lasciato in dono.
Geneticamente parlando, noi siamo un misto dei nostri genitori, e ciò che ho ricevuto dai miei può essere riassunto in una singola parola: amore.
L’amore che io ho riversato in tutta la mia vita, amplificandolo verso ogni forma vivente. Ho sempre amato tutto molto intensamente – le donne, la famiglia, la vita – e so che questo lo devo a loro.
Non amavano certo dare sfoggio di sé, e anche il loro matrimonio fu discreto, nella chiesa del paese, ma ebbe comunque una certa risonanza.
Negli anni sessanta gli insegnanti erano persone in vista, erano considerati. Ancora di più, gli insegnanti di lettere in un paese piccolino come Sala Consilina.
Non era come oggi: la loro figura, la loro professione generava rispetto.
Quella di Rosetta e Vincenzo nacque quindi come una favola: due professori, due persone belle ed eleganti, in un paesino, con la loro storia d’amore.
Un amore incredibilmente puro, ma purtroppo anche decisamente breve.
A 32 anni, dopo essersi sposato e aver avuto da poco un figlio, dopo aver appena conosciuto la felicità, il mio papà scoprì una malattia che non gli lasciò scampo e nel giro di un paio di anni finì per distruggerlo.
La mia vita, allora, inizia così: con la malattia di mio padre.
1.2 Il lutto di mamma
La prima immagine che ho di mio padre è di lui sdraiato in un letto, malato.
Purtroppo non sono molti i ricordi, ero troppo piccolo, ma ho come dei flash.
Io che correvo nella sua stanza, verso il letto dove riposava, e saltavo su per abbracciarlo.
Rivedo la sua faccia: aveva dei baffetti ed era un bellissimo uomo.
A volte per giocare con me metteva una caramella, la Rossana, tra la bocca e il naso. Sapeva che mi piaceva tanto, e io infatti correvo subito da lui, gliela strappavo dalla faccia e me la mangiavo.
Ricordo il suo dottore, che aveva un nome molto particolare: il dottor Pappafico.
Mio padre morì con gli occhi aperti, e mi hanno raccontato che per appurarne la morte questo medico passò una candela accesa davanti ai suoi occhi, per vedere se seguiva il movimento con lo sguardo. Quando assodò che questo non accadeva, capì che era sopraggiunta la morte cerebrale.
Questo aneddoto mi è rimasto molto impresso, e posso proprio vederlo mentre compie quel gesto davanti al volto di mio padre.
È un’immagine acquisita, non la ricordo veramente, ma come tante altre di lui mi si è stampata in testa dopo aver ascoltato i racconti di chi gli è stato vicino. Credo sia stato il modo in cui ho cercato di colmare il vuoto che ho di lui.
E anche se non è mio, è un ricordo struggente.
Infine c’è un ultimo sprazzo di memoria, più confuso. Ho anche cercato di indagare, ma nessuno ha mai saputo darmi una spiegazione.
Quando il mio papà morì mi affidarono alle suore, perché un bambino di due anni e dieci mesi non lo porti al funerale. Io però ricordo chiaramente che proprio le suore mi fecero affacciare dalla finestra per vedere il corteo funebre che passava.
«Vedi, quella è la bara del tuo papà», mi dissero.
Se l’intento di mia mamma era stato quello di non traumatizzarmi, la loro non fu una grande decisione, ma in questo caso sono sicuro che l’immaginazione non c’entri proprio nulla, perché altrimenti non potrei ricordare così distintamente l’immenso corteo che accompagnò la bara di mio padre.
C’erano tutti: i suoi amici, i suoi alunni, le famiglie.
Per un piccolo paese di provincia, che ai tempi avrà contato non più di ventimila anime, la morte di un insegnante trentacinquenne fu un fatto eclatante. Da giornale.
Oggi la morte fa spettacolo, ci sono i mass media che pensano a esaltarla in ogni modo, sia nel caso di brave persone, sia che si tratti di fetentoni. È sempre un evento, ma in un modo molto differente.
All’epoca c’era il rispetto, c’era il lutto, e tutto il paese partecipò al nostro dolore.
Mio padre, dicono, sia stato un essere buono. Affabile, gentile, onesto, credente. Accettò la malattia con eleganza, come tutto nella sua vita. Non ha potuto godersi la sua storia d’amore, la felicità appena conquistata, ma questo non cambiò la sua essenza.
A strapparcelo fu una nefrite. Pare che trascurò un molare malato e questo causò un’infezione ai reni.
Allora questa malattia non si poteva curare e lui poté contare soltanto su dei palliativi. Spendeva soldi, andava a Napoli, veniva ricoverato in clinica e poi tornava. Ma non c’è mai stata speranza di guarigione.
Si spostava in pullman, credo, e sul libro di casa ho ritrovato anche le pagine in cui segnava le medicine da prendere, o annotava gli spostamenti per i ricoveri.
Non appena poteva, tornava a casa, da noi, ma dopo poco la malattia lo costringeva a ripartire. E in due tre anni se lo è portato via del tutto.
Credo abbia sofferto molto, perché mio zio Peppino mi ha raccontato che l’ultima volta che è tornato a casa non riusciva neanche a uscire dall’ascensore, tanto era gonfio. All’epoca non esisteva la dialisi e i liquidi che si erano formati si riversarono in tutto il corpo, gonfiandolo a dismisura.
Si sgonfiò solo dopo la morte, e tornò bello com’era prima, perché mio padre era veramente