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Nonostante il velo: Donne dell’Arabia Saudita
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Nonostante il velo: Donne dell’Arabia Saudita
E-book441 pagine6 ore

Nonostante il velo: Donne dell’Arabia Saudita

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NUOVA EDIZIONE

In Arabia Saudita, il paese più opaco del mondo arabo, le donne sono confinate nel ruolo disegnato dalla Sharia, dipendono a vita da un guardiano, non possono guidare l’automobile e sono segregate nel mondo femminile. Ma dietro questa cortina di ferro, sono proprio le donne a esprimere le più forti istanze di rinnovamento.
È quanto Michela Fontana ha scoperto vivendo e lavorando due anni e mezzo a Riad, durante i quali ha esplorato dall’interno la società saudita, incontrando attiviste, donne d’affari, studentesse, giovani professioniste, islamiste radicali, scrittrici, semplici mogli e madri. Nonostante il velo è una straordinaria polifonia di voci. Attraverso lo sguardo delle donne racconta i paradossi e le ambiguità del paese che ha ispirato alcuni dei più pericolosi movimenti fondamentalisti, fornendo una chiave di lettura per interpretare un mondo islamico che fatichiamo a comprendere, semplicemente perché non lo conosciamo.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2018
ISBN9788868991395
Nonostante il velo: Donne dell’Arabia Saudita
Autore

Michela Fontana

Giornalista e saggista milanese, Michela Fontana ha vissuto quindici anni tra Stati Uniti, Canada, Svizzera, Cina e Arabia Saudita. Il suo libro Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming (Mondadori, 2005), tradotto in francese e in inglese, ha vinto il “Grand Prix de la biographie politique” nel 2010. Ha pubblicato inoltre Percorsi calcolati (1996) e Cina, la mia vita a Pechino (2010), entrambi con la casa editrice Le Mani.

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    Anteprima del libro

    Nonostante il velo - Michela Fontana

    Prefazione

    Mentre il libro va in stampa nell’edizione aggiornata, la riforma più a lungo invocata e sognata dalle attiviste saudite – la possibilità di guidare l’automobile – sembra essere in dirittura di arrivo.¹ È una rivoluzione dall’alto valore simbolico, che modificherà la fisionomia della società saudita, fino a oggi una delle più conservatrici del mondo arabo e la più chiusa verso l’emancipazione femminile. Anche perché altre riforme sociali, alcune delle quali riguardano proprio le donne, sono state annunciate dal trentatreenne erede al trono Mohammed Bin Salman (detto MBS), figlio di re Salman² e vero ispiratore delle recenti politiche del governo saudita. Il piano Vision 2030, ideato insieme al padre, promette di dare importanza crescente all’inserimento della donna nella società e nel lavoro e di modificare profondamente, entro il 2030, il volto dell’Arabia Saudita che ho conosciuto e che racconto nel mio reportage. Dalla riapertura, dopo 35 anni di proibizione, dei cinematografi alla progressiva disponibilità del paese a concedere visti turistici a non islamici, al parziale allentamento della segregazione di genere, al ridimensionamento del potere della polizia religiosa, ognuna di queste riforme limiterà il ruolo che i religiosi wahhabiti hanno avuto nel paese sin dalla sua formazione e il potere di condizionamento sulla stessa famiglia regnante dei Saud.

    Naturalmente una cultura così radicata come quella saudita e una società così poco abituata al confronto con la modernità e all’apertura non si potranno cambiare in pochi anni, ammesso che il futuro re non incontri ostacoli sul suo cammino. Inoltre non bisogna dimenticare che le aperture sociali e politiche di Mohammed non contemplano un allentamento del potere assoluto di casa Saud o un’apertura alla democrazia e alla tutela dei diritti umani.

    Del resto, sono soprattutto le necessità economiche e geopolitiche a spingere MBS verso il cambiamento in un mondo mediorientale in costante sommovimento e all’interno del quale l’Arabia Saudita di casa Saud si sente minacciata da più parti. E i giovani sudditi, che formano la stragrande maggioranza della popolazione, non potranno non condividere le aperture sociali del giovane Mohammed che, almeno anagraficamente, è uno di loro e potrà diventare il primo re giovane dopo una lunga sequenza di sovrani saliti al trono già anziani. Il futuro re è determinato, spregiudicato, pronto alla guerra in Yemen contro gli avversari sciiti, deciso alla resa dei conti all’interno della famiglia reale, come dimostra la sua recente campagna contro la corruzione che ha ridimensionato potere e ricchezze dei principi più in vista. Vuole essere lui, che paradossalmente ha studiato soltanto in Arabia Saudita, a forgiare un paese più moderno, che non dipende interamente dai proventi del petrolio, che riduce l’impiego dei lavoratori stranieri. E che ha bisogno di donne che lavorano, che guidano, che possano raggiungere da sole negozi e uffici. E che in futuro saranno anche in grado – almeno teoricamente – di uscire di casa e fuggire da un padre o un marito violento, alla guida di un automobile.

    Sarà capace il futuro re di cambiare la profonda cultura paternalista fino ad abolire totalmente la segregazione di genere e la figura del guardiano (padre, marito, fratello, figlio maschio), che ha ancora sulle donne potere assoluto, rendendole eterne minorenni, e impedisce loro di viaggiare senza la sua autorizzazione, di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio, di sposarsi con uno straniero? Oppure tutto sembra cambiare perché non cambi davvero nulla, in una società dove l’evoluzione è necessariamente lenta e la primavera araba del 2011 non si è fatta sentire?

    La chiave è riposta negli sviluppi geopolitici mediorientali, nel quadro economico, ma anche nel sentire profondo della società saudita e nel ruolo che le donne che io ho conosciuto da vicino e che racconto si sapranno conquistare.

    maggio 2018

    1 - La proibizione alla guida avrà termine dal giugno 2018.

    2 - Salito al trono nel gennaio 2015.

    Nota dell’autrice

    Il libro si basa sulle interviste che ho condotto nei due anni e mezzo in cui ho vissuto a Riad (da luglio 2010 a dicembre 2012) e durante una visita successiva. Dati, statistiche, citazioni, in particolare di sceicchi o religiosi, e i testi delle fatwas, ove non diversamente specificato, sono tratti dai giornali sauditi in lingua inglese Arab News e Saudi Gazette, e da trasmissioni televisive saudite.

    Per tutelare le donne con cui ho parlato, cito per esteso soltanto i nomi delle personalità pubbliche e, tra le intervistate, di quelle che me lo hanno esplicitamente consentito. Ho invece usato soltanto il nome proprio oppure nomi fittizi per le altre e, per non renderle riconoscibili, ho modificato alcuni particolari non significativi delle loro biografie.

    In Arabia Saudita le donne, qualunque sia la loro posizione sociale, si chiamano tra di loro usando il nome proprio, senza alcune formalità, e io mi sono volentieri adeguata. Trovo i nomi arabi femminili particolarmente suggestivi e mi piace il fatto che la maggioranza di essi abbia un preciso significato. Ho chiesto ad alcune donne di tradurmi il loro nome, e poi è diventata un’abitudine, ecco perché accanto ad ogni nome proprio femminile che ha un significato pongo tra parentesi la sua traduzione.

    Per quanto riguarda la trascrizione delle parole e dei nomi arabi, dal momento che non esiste una translitterazione riconosciuta internazionalmente, mi sono attenuta a quella comunemente adottata in Arabia Saudita.

    Introduzione

    Il nero delle donne

    Era notte e dal finestrino dell’aereo osservavo le luci di Riad, una ragnatela ordinata di un giallo intenso e uniforme, che risaltava nel buio totale del deserto circostante. Stavo per entrare in un regno separato dal resto del mondo, chiuso al turismo, che impone regole stringenti di comportamento sociale anche ai visitatori stranieri che vi entrano per lavoro.

    Il nero del deserto era assoluto. Come il colore dell’abaya che portavo nella valigia a mano, un leggero soprabito che copre il corpo fino ai piedi, di uno sgradevole e scivoloso materiale sintetico, che sarebbe stata la mia divisa obbligatoria non appena toccato il suolo saudita. E come il velo abbinato, l’hijab, che avrei dovuto indossare sui capelli. Me li aveva ceduti, con un senso di liberazione, un’amica appena rientrata in Europa dopo un anno di soggiorno in Arabia Saudita. A lei non sarebbero più serviti. Sedute più avanti nell’abitacolo, alcune ragazze saudite, salite sull’aereo in jeans e magliette colorate, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, si erano già preparate indossando la loro divisa nera e nascondendo il volto dietro la mascherina che lascia scoperti soltanto gli occhi, il niqab, o addirittura il velo che copre interamente il viso.¹ Erano divenute sagome informi e irriconoscibili, come tutte le altre donne che avrei incrociato per le strade del paese. Nero e ancora nero, un colore a cui avrei dovuto abituarmi e che avrei finito per detestare, fino a decidere di non indossarlo più quando sarei stata libera di scegliere.

    Stavo arrivando nel cuore della penisola arabica, non per un breve soggiorno, o per un servizio giornalistico, ma per viverci stabilmente con mio marito che vi si trasferiva per lavoro. Sapevo che giornalisti e scrittori sono sporadicamente ammessi nel paese, ma con molti impedimenti e soltanto previa autorizzazione del ministero della Cultura. Ed ero consapevole che, per la prima volta nella mia vita, l’appartenenza al genere femminile mi avrebbe imposto una posizione sociale separata e sarei stata sottoposta a limitazioni nella libertà di movimento che fino al giorno prima avrei considerato incomprensibili e inaccettabili: la più nota, la proibizione di guidare l’automobile, che vale anche per le straniere. L’Arabia è uno dei paesi dove la segregazione dei sessi è tra le più rigide al mondo, ovvero le donne, sia in pubblico che in privato, non possono mescolarsi agli uomini ma frequentare soltanto altre donne, in un harem diffuso fatto di divieti, di soglie, di proibizioni. Questo significa, per capirci, che la maggior parte dei negozi, uffici, banche, pasticcerie ha due entrate, una per le donne e una per gli uomini, e nei ristoranti le donne possono sedersi soltanto con un congiunto prossimo di sesso maschile (marito, padre, fratello) oppure con le amiche, nella zona riservata alle famiglie, protette dagli sguardi da opportuni drappi scuri.

    In Arabia Saudita la religione è pervasiva e l’osservanza delle sue regole imposta per legge e fatta rispettare con inflessibile rigore dalla polizia religiosa, i mutaween,² membri di un ente la cui denominazione è un programma: Comitato per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù (Haya). Sono loro a controllare che negozi, uffici, ristoranti, supermercati, bancarelle dei suq chiudano – per almeno venti minuti – in occasione di ciascuna delle quattro preghiere diurne, a cui se ne aggiunge una quinta notturna, preannunciate dal canto assordante, perentorio e onnipresente del muezzin. Quando scocca l’ora – che varia lungo il mese e durante l’anno, secondo le scadenze del calendario lunare, rendendo necessario consultare ogni giorno un’apposita tabellina – tutti i musulmani devono recarsi a pregare in una delle innumerevoli moschee che sorgono a pochi isolati di distanza una dall’altra. Anche negli orari di piena attività lavorativa. Unico paese islamico a essere così rigoroso.

    L’Arabia Saudita è un paese dove stato e religione si sovrappongono e la legge, diritto di famiglia incluso, è espressa soltanto dalla Sharia (strada battuta), che comprende il Corano, considerato la parola di Dio, e i detti e gli atti del Profeta Maometto, gli hadith, anch’essi con valore normativo.³ Nelle scuole pubbliche si studia prevalentemente religione fino all’università e l’educazione fisica femminile è proibita. La grande maggioranza degli abitanti crede letteralmente nell’esistenza del paradiso e dell’inferno e teme, se non segue le regole predicate dagli imam⁴ nei sermoni, trasmessi dagli altoparlanti per tutta la città ogni venerdì, di essere destinata a bruciare tra le fiamme per l’eternità. In Arabia Saudita non è ammessa la professione di alcun tipo di culto religioso che non sia l’islam (letteralmente sottomissione) e, all’interno dell’islam, non è consentita un’interpretazione diversa da quella ufficiale, chiamata in Occidente wahhabismo,⁵ una variante del salafismo, a cui si richiamano anche gruppi come Al-Qaeda e l’Isis.⁶ La musica è proibita nei luoghi pubblici, non esistono cinema e teatri.

    In Arabia Saudita le donne sono considerate eterne minorenni: per uscire di casa, studiare, viaggiare, sposarsi, farsi ricoverare o dimettere dall’ospedale devono chiedere il permesso al loro guardiano;⁷ nel caso in cui la donna lasci il paese, al guardiano viene automaticamente inviato un sms di controllo sul suo cellulare da parte della Polizia di frontiera. Tanto impietoso è il paese verso la sua parte femminile, che nella graduatoria sulla disparità di genere del Global Gender Gap Report del 2012 l’Arabia Saudita occupa il 131° posto su 134 paesi.

    Ciononostante, resta il fatto che il regno saudita, il maggior esportatore di petrolio al mondo, con un quarto delle riserve di oro nero della Terra, sia un paese estremamente influente nella politica globale, necessario interlocutore dei grandi del pianeta (tradizionalmente buon alleato degli Stati Uniti, anche se oggi il rapporto tra i due paesi si è logorato), protagonista di primo piano nell’influenzare le politiche mediorientali, come ha dimostrato il ruolo determinante nelle vicende egiziane, con l’appoggio economico e politico ai militari per sconfiggere i detestati Fratelli Musulmani.

    Ma il regno saudita ha anche un ruolo guida nell’islam e il suo sovrano si fregia del titolo di custode delle due sacre moschee ovvero quelle di Mecca e Medina, le due città sacre vietate agli infedeli (i non musulmani) visitate ogni anno da milioni di pellegrini provenienti da tutto il mondo. Volgendosi in direzione della Mecca, la qibla, si inchinano a pregare ogni giorno oltre un miliardo di musulmani di tutto il mondo. L’Arabia Saudita è il paese che, grazie ai petrodollari, ha potuto esportare negli anni la propria visione integralista dell’islam, finanziando la costruzione di moschee in tutto il mondo e sponsorizzando gli imam più conservatori, riuscendo così a orientare in senso fondamentalista anche paesi islamici tradizionalmente più moderati. Di nazionalità saudita sono stati e sono alcuni dei più pericolosi terroristi, primo tra tutti Osama Bin Laden,⁸ e quindici dei diciannove autori di uno dei più cruenti attentati della storia, l’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001.

    L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta, regno esclusivo degli uomini; durante la mia permanenza il paese era guidato dal quasi novantenne re Abdullah⁹ e da un gruppo di anziani. Tutti poligami, come vuole la tradizione. Le loro mogli – e le donne in generale – sono assenti da ogni gruppo di potere e nei resoconti storici i loro nomi sono ritenuti inessenziali. Dopo la morte, nel 1953, del fondatore Abdulaziz Al-Saud, noto in Occidente come Ibn Saud, soltanto i suoi figli si sono avvicendati sul trono,¹⁰ occupando i ministeri e le cariche più importanti, spesso per tutta la vita.¹¹

    Mentre atterravo a Riad, nutrivo la profonda intenzione di non lasciarmi intimorire. Sentivo che l’esperienza che mi accingevo a vivere sarebbe stata unica e indimenticabile. E avrei scoperto che il mio essere donna l’avrebbe arricchita, non impoverita, dandomi accesso a un mondo segreto, precluso agli uomini, ricco di stimoli. Lo avrei vissuto come un privilegio, convinta che il metro di misura per capire l’evoluzione della società nei paesi islamici è proprio il ruolo riservato alla donna. Soltanto moglie o madre, destinata esclusivamente alla procreazione, come vorrebbe la tradizione, oppure anche protagonista a pieno titolo del mondo dell’educazione e del lavoro, parte attiva e imprescindibile dello sviluppo economico.

    Capire il ruolo della donna e l’evoluzione del suo stato nella società saudita, così peculiare, così unica, è come assistere a un esperimento di laboratorio, il cui risultato non potrà non influenzare il mondo islamico negli anni futuri. Intanto perché la società saudita è molto più complessa e frammentata di quanto non si creda; la modernità si fa strada lottando contro le forze della conservazione, e le contraddizioni che ne derivano per la divisione dei ruoli maschile e femminile sono esasperate. E poi perché la società saudita, sotto l’apparente staticità, e in assenza di proteste di piazza, sta cambiando dall’interno, a cominciare dai rapporti dentro la famiglia. Fermarsi agli stereotipi – anche se fondati – sull’oppressione femminile oppure sui privilegi dell’elevato numero di donne che godono di enormi ricchezze non basta più a descriverla. Il tasso di divorzi è oggi il più alto del mondo arabo; un numero crescente, anche se ancora minoritario, di giovani donne punta sull’educazione e vuole trovare lavoro prima di sposarsi e avere figli. Più della metà degli studenti universitari sono donne, come la maggioranza dei giovani che possiede un dottorato; le studentesse trascorrono ore al computer, utenti entusiaste di Twitter, Facebook, YouTube e, grazie alla rete, comunicano anche con i ragazzi, eludendo la segregazione. Le donne che trovano impiego (soltanto il 17 per cento di quelle che lo cercano, contro il 75 per cento degli uomini),¹² tradizionalmente confinate nei ruoli di insegnante, infermiera, medico, possono oggi aspirare alle professioni di avvocato, consulente finanziario, architetto, designer, ingegnere, frequentando le università private che propongono nuove specializzazioni. Sono sempre più numerose le donne di affari e cresce il numero delle giovani che avviano piccole imprese commerciali. Anche le artiste, fino a ieri dilettanti infelici e solitarie, si professionalizzano ed escono allo scoperto, come le undici saudite che hanno esposto le loro opere, insieme a quelle dei colleghi uomini, alla Biennale di Venezia.¹³ Scrittrici come Rajaa Alsanea raggiungono il successo internazionale con libri coraggiosi come Ragazze di Riad,¹⁴ e un numero crescente di donne trova nella scrittura di romanzi e racconti un’arma di denuncia delle proprie condizioni.

    Sono in molti a credere che l’esperimento delle donne saudite sia destinato ad avere successo, ma il risultato non è scontato. Lo sforzo verso l’emancipazione potrebbe essere bloccato se nei paesi che hanno vissuto la Primavera Araba, e oggi lottano per avere riforme e far ripartire le economie con una maggiore partecipazione democratica dei cittadini, dovesse alla fine prevalere l’islamismo più regressivo, pronto a rispedire le donne dentro le case, a soggiogarle, a velarle. In nome della Sharia, come è successo con la rivoluzione iraniana nel 1979. E quindi influenzare in senso conservatore anche casa Saud, che farebbe marcia indietro sulla strada delle timide riforme a favore delle donne messe in cantiere da re Abdullah. Non va poi dimenticato che, se i reali sauditi, come molti dissidenti auspicano, dovessero in futuro essere messi da parte a favore di un regime democratico, a vincere le elezioni potrebbero essere gli islamisti¹⁵ più radicali, oggi bene organizzati e ancora molto influenti.

    Negli anni vissuti a Riad ho scoperto che sempre più donne saudite si fanno protagoniste del loro destino. Non più rassegnate e sottomesse, ma attive e coraggiose. E vogliono che le loro voci siano udite. Per due anni e mezzo le ho cercate, le ho interrogate, le ho ascoltate. Sono loro il tesoro nascosto del paese.

    Vite parallele a Riad

    In Arabia Saudita ho vissuto, se così si può dire, due vite parallele. Anzi tre. Una più formale, dove seguivo mio marito alle cene tra stranieri o alle attività sociali legate al suo lavoro. Erano incontri misti (uomini e donne insieme) dove alcuni uomini sauditi e, in rarissimi casi, donne saudite o più spesso mogli non saudite di sauditi (la precisazione è d’obbligo nella società locale) si mescolavano agli stranieri. Formale era anche la mia vita numero due – una vita che esiste soltanto in Arabia Saudita e in pochi altri paesi islamici molto conservatori – perché come donna, o meglio come moglie, venivo risucchiata nel circuito esclusivamente femminile fatto di cene e incontri sociali di vario genere. Non ho mai frequentato tante donne nella mia vita: saudite mogli di uomini in vista che mi invitavano ai matrimoni di figli e parenti, donne vicine alla corte reale che mi invitavano a presentare le condoglianze alle mogli ai funerali di membri della casa reale, principesse un po’ eccentriche che inauguravano le loro gallerie d’arte, principesse tradizionaliste che organizzavano sfavillanti serate di beneficenza, la moglie del governatore di Riad che riceveva le nuove arrivate, la regina Hessa (una delle mogli di re Abdullah, che curava le relazioni sociali femminili) che apriva occasionalmente le porte di uno dei suoi palazzi alle straniere e così via. A ciò si aggiungevano gli inviti delle mogli dei diplomatici di Riad e alle quali i mariti necessariamente delegavano i compiti sociali e istituzionali femminili. Nella vita numero due (matrimoni e funerali inclusi), giova ripeterlo, incontravo soltanto donne.

    La mia vita formale è stata certamente interessante, mi ha aperto porte altrimenti invalicabili, in rarissime occasioni è stata divertente, ma certo non era sufficiente, da sola, ad aiutarmi a capire il paese. Era ripetitiva, rituale, per forza di cose superficiale. E così, quasi di nascosto, per non creare imbarazzi a nessuno, in un paese che contrasta ogni libera iniziativa, mi sono impegnata a costruire la mia terza vita, defilata da ogni ritualità e ufficialità, incontrando le donne (e in vari casi, anche gli uomini) a tu per tu e invitandole a parlare con me. Ero io a scegliere i sauditi, di diverse estrazioni sociali, che mi interessava incontrare. Ero io a scegliere, per quanto possibile, quali mete del paese esplorare. Andavo a trovare le donne a casa loro, negli uffici, le incontravo nei locali femminili, oppure le invitavo a casa mia, una villetta all’interno del cosiddetto quartiere diplomatico, un grande complesso residenziale protetto da posti di blocco dove alloggiavano molti stranieri e avevano sede quasi tutte le ambasciate.¹⁶ All’inizio ho dovuto superare diffidenze, mettendo bene in chiaro che lavoravo come scrittrice indipendente ed ero pronta ad ascoltare senza pregiudizi. Dopo alcune difficoltà iniziali, è stato facile superare le difese del mondo femminile di fronte alle mie domande più o meno personali, riuscendo a mantenere un tono distaccato quando ciò che ascoltavo mi turbava o sconcertava, e ho costruito una rete di contatti e di amicizie su cui potevo contare, e che è stato triste lasciare quando sono partita.

    È grazie alla mia terza vita (peraltro impossibile senza le altre due) che ho potuto scrivere questo libro.

    A fare gli onori di casa, nel mio percorso saudita, saranno alcune delle donne coraggiose che hanno partecipato a una manifestazione per il diritto alla guida, venticinque anni fa, e ne hanno pagato duramente le conseguenze. Si è trattato dell’unica manifestazione femminile organizzata della storia del regno saudita. Insieme a loro incontrerete le nuove giovani attiviste, utenti dei social media, che tra mille difficoltà ma con determinazione organizzano campagne di protesta sulla rete per i diritti delle donne. Ma il viaggio nell’universo femminile non si fermerà al mondo, ristretto, dell’attivismo. Molte donne di diverse estrazioni sociali faranno sentire le loro voci, in una polifonia di storie uniche e a volte drammatiche. Ascolterete progressiste e liberali, donne d’affari, studentesse, giovani professioniste, islamiste, scrittrici, o soltanto figlie, mogli e madri, più o meno felici o rassegnate. Dalle loro voci si capirà cosa significa, nella vita di tutti i giorni, sottostare al guardiano e come ci si abitua ad accettare la segregazione, l’impossibilità di viaggiare liberamente e di difendersi dagli abusi. Ascolterete i sogni delle più giovani, le frustrazioni delle sconfitte, la sofferenza delle vittime, l’anelito ambiguo verso l’emancipazione. In un paese dove l’islam ha un ruolo pervasivo, si parlerà di sogni e desiderio di amore, di successi nel lavoro, ma anche di accettazione passiva e di rinunce. Di immense ricchezze e disperate povertà. Si parlerà di famiglia e cultura tribale, ma anche di desiderio di indipendenza. Prendendo spunto dalle voci femminili si parlerà della storia peculiare del regno saudita, per capire le origini dell’islam più conservatore e integralista, che oggi cerca di affermarsi con virulenza in altre aree del Medio Oriente. Si parlerà di amicizia e ospitalità, ma anche di violenza e odio più o meno dissimulato verso l’Occidente. Verrete sorpresi dalle mille sfaccettature di una società in evoluzione che per alcuni versi respinge e per altri sembra essere così inaspettatamente affine alla nostra.

    Ecco il mio viaggio tra le donne saudite, ecco le loro storie.

    1 - Si chiama ghata al wajha, viene indossato sopra l’hijab e calato sul viso. È sufficientemente leggero per consentire alle donne di vedere senza che il loro volto traspaia. Nel testo, per semplificare, lo chiamerò velo totale, per distinguerlo dal niqab che lascia scoperti gli occhi.

    2 - Letteralmente mutawa (singolare di mutaween) significa volontario.

    3 - L’insieme degli hadith si chiama Sunna (consuetudine).

    4 - L’imam è colui che guida la preghiera, la guida spirituale.

    5 - Per le origini del wahhabismo e la sua rilevanza nel paese vedi capitolo 4.

    6 - Stato islamico dell’Iraq e della Siria.

    7 - Il guardiano è chiamato wali amr; per consuetudine in Arabia Saudita si usa anche il termine mahram, che ha un significato più generico. A partire dal 2018 si parla di una parziale limitazione dei poteri del guardiano, nel caso in cui la donna voglia iscriversi all’università, ottenere un incarico amministrativo pubblico, farsi ricoverare per alcuni trattamenti in ospedale.

    8 - Osama Bin Laden fu privato della cittadinanza saudita nel 1994. È stato ucciso il 2 maggio ad Abbottabad, vicino a Islamabad, Pakistan, da un’unità antiterrorismo USA.

    9 - Re Abdullah (nato nel 1923 o 1924, la data precisa non è certa) è deceduto il 23 gennaio 2015, mentre questo libro era in fase di stampa. Gli è succeduto il fratello unilaterale Salman (nato nel 1935) e come principe ereditario è stato designato il fratello unilaterale Muqrin, nato nel 1945, il più giovane tra i figli rimasti in vita di Ibn Saud (il trentacinquesimo) nato da una schiava yemenita. Nell’aprile dello stesso anno ha luogo per la prima volta il salto generazionale: il fratello Muqrin viene estromesso dalla linea di successione a favore del nipote Mohammed bin Nayef, che diventa principe ereditario. Nel giugno del 2016, con un rimpasto inaspettato, il re estromette il nipote dalla linea di successione e nomina principe ereditario il proprio figlio Mohammed bin Salman.

    10 - Per le successioni al trono dopo la morte di Abdulaziz al-Saud, vedi alla fine del libro.

    11 - Come Sultan, ministro della Difesa per 49 anni; Nayef, ministro degli Interni per 37; e Salman, attuale re che è stato governatore di Riad per 48 anni. Il figlio di re Faisal, Saud, nato nel 1940, è stato ministro degli Esteri per quarant’anni.

    12 - BBC News, 13 dicembre 2012.

    13 - Mostra Rhizoma, Biennale di Venezia 2013.

    14 - Vedi capitolo 16.

    15 - Userò nel testo il termine islamismo (e islamista) per indicare l’islam politico e fondamentalista.

    16 - Il posto di blocco esiste dal 2003, anno degli attentati ai quartieri residenziali di Riad (vedi capitolo 11).

    1

    Harem

    Il nostro harem di Fez era circondato da alte mura e, a eccezione del piccolo ritaglio quadrato di cielo visibile dal cortile, la natura non esisteva. Certo, se una donna correva su in terrazza, poteva accorgersi che il cielo era più grande della casa…

    Fatema Mernissi, La terrazza proibita

    Pochi giorni dopo il mio arrivo, dopo essere stata accompagnata da un’amica in un grande magazzino per comprarmi una nuova abaya e un hijab, sono stata invitata con mio marito nella villa fuori città del proprietario di una catena di supermarket, insieme a un ristretto gruppo di coppie straniere che vivevano nella capitale. Era venerdì, festività per eccellenza in Arabia Saudita, il giorno in cui, secondo l’islam, fu creato Adamo e in cui avrà luogo il Giudizio universale. Il venerdì tutti gli uomini devono recarsi in moschea per la preghiera pubblica di mezzogiorno e per ascoltare il sermone dell’imam. Le donne non hanno lo stesso obbligo ma, in caso decidano di recarsi nel luogo di culto, sono confinate in una zona separata.

    Mi avevano spiegato che molti sauditi facoltosi posseggono ville nel deserto, che amano chiamare ranch oppure fattorie, dove trascorrono i fine settimana¹ insieme alla famiglia allargata. Grandi complessi circondati da mura color sabbia, spesso arricchite di merlature, che corrono lungo il deserto per centinaia di metri prima di rivelare i portoni di ingresso, le fattorie sono dotate di parchi, fontane, prati all’inglese, piscine e, in alcuni casi, zoo di animali esotici. Costruite sulla sabbia e sulle rocce del deserto, richiedono quantità enormi di acqua per l’irrigazione. L’Arabia Saudita, dotata in passato di una ricchissima riserva di acqua fossile nel sottosuolo, ormai depauperata per avveniristici e fallimentari esperimenti di agricoltura nel deserto, ricorre oggi in maniera massiccia all’acqua marina desalinizzata, i cui costi proibitivi sono coperti da sovvenzioni governative senza troppe preoccupazioni, grazie ai privilegi di un’economia basata sui proventi dell’industria petrolifera.

    Era la prima volta che varcavo la soglia di una casa saudita. Quando il grande portone di legno si è aperto su un cortile alberato, nel cui centro zampillava una fontana, a riceverci c’era il padrone di casa in tenuta sportiva di stile americano, bermuda, maglietta e cappellino da baseball, insieme a un gruppo di parenti e amici vestiti in modo più formale. Tutti indossavano il tradizionale vestito lungo bianco, il thobe e portavano sul capo il grande foulard quadrato di stoffa a scacchi bianchi e rossi (smagh), oppure totalmente bianco (ghutra),² tenuto fermo dal tipico cordone nero di forma circolare (agal).³ Intorno a loro, gruppi di bambini di sesso maschile giocavano su quadricicli fuoristrada, girando all’impazzata intorno alla fontana, oppure sedevano vicino ai padri giocando con i loro tablet. Non era presente alcuna donna. Il padrone di casa mi ha stretto la mano e ha presentato me e mio marito agli altri ospiti, che aspettavano all’ingresso di uno dei padiglioni che si aprivano sul cortile. Tutti hanno dato la mano a mio marito, ma pochi di loro l’hanno stretta anche a me, preferendo ritrarsi e appoggiando la mano destra sul petto, per evitare il contatto fisico con un’esponente del sesso femminile. Subito dopo l’ospite, scusandosi con la domanda retorica «Non le spiace vero?», mi ha affidato a un domestico indiano per farmi accompagnare nei padiglioni femminili. Da quel momento non ho più visto mio marito e gli altri uomini fino al momento di lasciare il ranch a fine pomeriggio.

    Il domestico mi ha accompagnata lungo un portico laterale fino a raggiungere un gruppo di edifici, circondati da un impeccabile prato all’inglese, e mi ha lasciata sola vicino a una piacevole cascata di spruzzi impalpabili di acqua vaporizzata che scendevano dal soffitto per rinfrescare l’atmosfera torrida dell’estate saudita. Pochi minuti dopo mi è venuta incontro Sofia, l’esuberante giovane moglie marocchina del padrone di casa, la consorte numero tre, così mi avevano detto, essendo quattro il numero di mogli consentito dalla legge islamica e permesso in Arabia Saudita, a differenza della maggior parte degli altri paesi musulmani dove il codice civile, integrando la lettera della Sharia, vieta la poligamia. A lei il compito di fare gli onori di casa.

    Avevo già incontrato Sofia a un ricevimento misto a casa di amici stranieri. In tale occasione non indossava né abaya hijab, portava i capelli neri sciolti sulle spalle, era vistosamente truccata e vestita in modo provocante, rivelando generosamente le sue forme prorompenti. Mi era stato confermato che il marito la mostrava senza problemi agli stranieri, violando le regole della segregazione, molto rigide nel caso di donne di nazionalità saudita, le quali possono mostrare il viso soltanto al consorte e ai parenti più stretti. Lo strappo alle consuetudini consentito a un ricevimento tra stranieri non si ripeteva alla fattoria, dove la separazione dei sessi era applicata con rigore. Sofia si adeguava. E così dovevo fare io, nonostante fossi una straniera e avessi ottenuto il privilegio di essere presentata agli ospiti di sesso maschile.

    «Non posso farmi vedere nemmeno dai domestici uomini» mi ha spiegato in inglese Sofia sorridendo, per scusarsi di avermi fatto attendere da sola sotto il porticato. Poi mi ha fatto strada camminando a fatica, nel caldo opprimente, sui tacchi altissimi. Indossava leggins aderenti e una maglietta scollata con decorazioni animalier. Procedendo lungo il portico, mi ha mostrato, al di là di una vetrata, la piscina coperta riservata alle donne, dove bambini di entrambi i sessi, ancora troppo giovani per essere separati, imparavano a nuotare sotto la sorveglianza di domestiche filippine avvolte nell’abaya e con il velo nero stretto intorno al capo, un abbigliamento opprimente dato che in piscina temperatura e umidità erano certamente molto elevate.

    Le domestiche, per lo più asiatiche, sono una presenza costante nelle case saudite, e si incontrano anche nei luoghi pubblici, accompagnatrici silenziose delle donne benestanti quando si recano in visita alle amiche, ai ricevimenti, nei centri commerciali o nei saloni dei parrucchieri. Il loro compito è portare la borsa, i pacchi, occuparsi dei bambini, oppure custodire abaya e velo quando la loro datrice di lavoro se ne può liberare per entrare in ambienti esclusivamente femminili.

    «La piscina degli uomini è all’aperto, è più grande della nostra ed è bellissima, ma non te la posso mostrare» mi ha detto Sofia. E ha aggiunto, con civetteria, che quando viaggiava all’estero con il marito per le vacanze non era un problema per lei nuotare in bikini nelle piscine miste degli alberghi dove soggiornavano.

    Finalmente siamo arrivate in un ampio padiglione. Mi sono tolta l’abaya che ancora indossavo e ho raggiunto il gruppo delle donne, una cinquantina. Tutte sedevano su divani sistemati uno di seguito all’altro lungo le pareti nel tipico stile arabo, una disposizione che rende possibile la conversazione soltanto con la propria vicina di destra e di sinistra e con nessun’altra delle presenti, a meno di non alzarsi e cambiare posto. Di fronte ai divani erano apparecchiati tavolini con vassoi colmi di cioccolatini e datteri; due cameriere vestite con tuniche scure offrivano il galwa, il tipico caffè al cardamomo, servito in chicchere piccolissime che tenevano impilate con una mano offrendole alle ospiti, mentre con l’altra servivano la bevanda dalla caffettiera.

    In un angolo del salone sedevano, immobili e in silenzio, le donne più anziane. Molte erano sovrappeso. Tutte indossavano semplici jallabie⁴ di colore scuro e portavano i capelli raccolti all’indietro e divisi in due bande da una scriminatura in mezzo al capo, secondo la tradizione del Najd, la regione centrale del paese dove sorge Riad. Le altre parenti che arrivavano via via erano abbigliate nei modi più svariati e più o meno formali. Sgargianti abiti lunghi da sera, jallabie coloratissime, oppure abiti di foggia occidentale, quasi sempre lunghi e a maniche lunghe. Molte portavano borse dei più noti stilisti occidentali, alcune indossavano gioielli preziosi. Quasi tutte avevano in mano il cellulare. Sofia era la meno vestita, la più disinvolta ed estroversa, l’unica del gruppo delle mie immediate vicine che cercava di intrattenere noi straniere. Mi sono domandata se fossero presenti le altre mogli del marito.

    L’attesa del pranzo era una pausa che sembrava infinita, vuota di ogni attività, interrotta soltanto dall’arrivo di altre invitate, accompagnate da qualche bambino. «Molte si svegliano tardissimo» mi spiegava Sofia. «Non c’è molto da fare qui. Io quando posso faccio ginnastica, nel mio paese insegnavo aerobica. Altre si distraggono mangiando e visitando i centri commerciali.» Soltanto il rito del caffè, servito a ripetizione, spezzava la monotonia. Per rifiutare l’ennesima dose, bastava agitare la chicchera vuota e riconsegnarla alla cameriera, che la piazzava con un movimento veloce in fondo alla pila delle tazzine con un secco tintinnio. Dopo il caffè sono arrivati succhi di frutta multicolori, tè nero e verde alla menta e al ginger e ancora tartine e cioccolatini. Le saudite più giovani controllavano i messaggi sull’iPhone, le anziane guardavano le straniere con diffidenza o indifferenza, senza l’accenno di un sorriso.

    Mangiare, aspettare, stare sedute al chiuso senza possibilità di uscire o passeggiare nel parco. Pigramente, con rassegnazione. Ero intrappolata in un harem contemporaneo.

    Finalmente, nel primo pomeriggio, Sofia mi ha annunciato che il pranzo era pronto, e mi ha guidato insieme alle altre verso un’altra ala della sezione femminile. Si è arrestata davanti a una porta scorrevole socchiusa e ha parlato con i camerieri che finivano di preparare la sala, attentissima a non farsi scorgere. Quando è stata certa che l’ultimo domestico si era ritirato, ha spalancato la porta per farci entrare.

    Ci aspettava un ricchissimo buffet di specialità locali, a celebrare la tradizione dell’ospitalità araba che si rinnova come un rito solenne e quasi sacro dai tempi dei grandi pranzi a base di riso e agnello, gustati seduti a terra nelle tende beduine, menzionati dal colonnello Thomas E. Lawrence (noto come Lawrence d’Arabia) nel libro I sette pilastri della saggezza, che avevo appena letto. Ci siamo sedute senza formalità

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