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Ouro Preto
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E-book338 pagine4 ore

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Il saccheggio del Museo Nazionale di Baghdad all’indomani della caduta di Saddam Hussein nell’aprile del 2003 è l’occasione per l’incontro e l’inizio di uno scellerato legame d’affari tra un colonnello dell’esercito americano e un potente faccendiere arabo. Sedici anni dopo, Antonio Coco, capitano del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri di Parma, assiste casualmente all’omicidio di un imprenditore francese nelle cantine Moet & Chandon a Epernay e si affida all’amico e collega Toni Cordell, responsabile italiano dell’European Bureau of Investigation and Recovery, per approfondire le indagini che ufficialmente non sono approdate a nulla.
Inizia da qui il vagabondare di Toni Cordell tra Reims, Baghdad, Houston, Londra, Dresda e il Brasile seguendo una traccia che sembra prospettare il tremendo rischio della creazione di ordigni di nuova concezione e di inimmaginabile potenza. La situazione si complica allorché l’aereo privato del colonnello americano viene coinvolto in un fatale incidente. Le indagini portano infine a Doha, nel Qatar, dove in modo del tutto inaspettato converge e si intreccia una seconda pista legata alla sfida per il recupero di un’opera d’arte d’inestimabile valore sottratta in un museo di Boston quasi trent’anni prima e mai più ritrovata: Concerto a tre di Vermeer. Tra colpi di scena e pericoli mortali le due vicende procedono di pari passo fino all’imprevedibile finale.
Quarto romanzo con protagonista la coppia di investigatori Antonio Coco e Toni Cordell.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2019
ISBN9788832925562
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    Anteprima del libro

    Ouro Preto - Pietro Montanari

    Bianca.

    1

    Baghdad

    11 aprile 2003, venerdì mattina

    Da più di un’ora una folla vociante di iracheni, militari, poliziotti, impiegati della municipalità, dirigenti statali, commercianti e semplici abitanti della città era stipata nel salone di Al-Elwiya, il club che gli inglesi avevano costruito nel centro di Baghdad un’ottantina di anni prima, ai tempi del mandato britannico sulla regione mesopotamica. Il numero delle persone strette le une alle altre, il caldo e il fumo delle sigarette avevano reso l’ambiente irrespirabile. Voci altissime spesso sovrapposte tra loro tentavano in modo tumultuoso e disordinato di farsi ascoltare, di lanciare richieste di aiuto e di avere risposte utili da parte degli interlocutori, una decina di ufficiali della coalizione in rappresentanza delle varie armi schierati al tavolo di presidenza che invano tentavano di dare all’assemblea una parvenza di ordine.

    Molte erano state le istanze rivolte agli occupanti, la maggioranza delle quali si riferiva alla necessità di prestare maggior attenzione agli eventi senza controllo che si verificavano in quei giorni nella capitale e nel paese e al grande rischio che comportava il nascente stato di anarchia che si andava delineando.

    Non siamo in grado di controllarli, saccheggiano anche le armi, che spariscono chissà dove! esclamò un poliziotto iracheno con voce stentorea.

    Vengono tutti da Saddam City, ho dovuto sparare in aria per allontanarli dal mio negozio, se non ci difendete voi ci difenderemo da soli con le armi! fece eco un commerciante dal volto congestionato.

    È inconcepibile che l’Iraqi Museum, che raccoglie tutta la nostra storia sia stato vandalizzato e saccheggiato senza che nessuno di voi si sia opposto! gridò una donna che molti riconobbero come una importante funzionaria del Museo nazionale.

    Tuttavia i militari sembravano poco sensibili a quegli stringenti e accorati appelli. Per lo più si limitavano a fornire assicurazioni generiche trincerandosi dietro il fatto che non rientrava nei loro compiti stabilizzare la comunità civile.

    Il paese è in pericolo di guerra civile, dovete obbligare i poliziotti a riprendere servizio, ribadì una voce in tono deciso.

    Il dibattito andò avanti ancora un po’ finché gli ufficiali della coalizione sancirono il termine della riunione aggiornandola al giorno dopo.

    Seduto in prima fila un arabo che era stato fino ad allora silenzioso, alto e imponente, vestito con una dishdasha bianca e un gutrah pure bianco in testa, attese che la sala si svuotasse e solo allora si avvicinò al tavolo dei militari.

    Baghdad era caduta nelle mani dei militari della coalizione due giorni prima, il nove aprile e lo stesso giorno i network americani avevano trasmesso e ritrasmesso fino alla noia a tutto il mondo la scena che si era svolta in piazza Firdos dove la statua di Saddam Hussein era stata agganciata dall’argano di un carro M88A2 e trascinata a terra.

    Solo venti giorni erano passati dal lancio dei primi missili Cruise seguiti dalle incursioni degli F117 che avevano dato il là all’invasione nella notte tra il diciannove e il venti marzo.

    La veloce avanzata delle truppe della coalizione, stimata in quasi trecentomila soldati tra statunitensi e alleati, le preponderanti forze aeree, il moderno ed efficace equipaggiamento avevano ben presto avuto la meglio. La difesa degli iracheni poteva contare su un maggior numero di soldati ma con minor motivazione alla lotta e su un numero superiore di carri armati ma per lo più ormai obsoleti. Nelle fasi iniziali, nel sud dell’Iraq, c’erano stati diversi combattimenti e le truppe di Saddam avevano provocato anche ingenti perdite alla coalizione, tuttavia ben presto era apparsa evidente la superiorità della macchina da guerra guidata dagli statunitensi. Adesso nella capitale occupata i gangli vitali della nazione erano ormai stati neutralizzati o messi sotto controllo e non era infrequente assistere allo spettacolo di interi drappelli di soldati dell’esercito iracheno che svestivano la divisa, gettavano i Kalashnikov e indossavano i più sicuri abiti civili. Anche i volontari della jihad, arrivati da Afghanistan, Cecenia, Palestina si liberavano delle tute nere e si davano alla fuga mentre i pericoli maggiori erano rappresentati dai cecchini che sparavano appostati in edifici semidistrutti.

    Come risultato dello stato di anarchia che si era creato varie decine di migliaia di sciiti dei quartieri più poveri come Saddam City si erano riversati in massa nelle zone più ricche della città distruggendo e saccheggiando tutto ciò che poteva ricordare il passato regime sunnita, edifici pubblici, scuole, ospedali, biblioteche. E subito dopo, inevitabilmente, era stata la volta di supermarket, negozi, abitazioni private e ovunque si potesse fare bottino. I cancelli del Rashid, l’hotel più lussuoso della città erano stati sfondati e mobili, suppellettili, tappeti, televisori caricati su decine di macchine e portati via. Il quartier generale delle Nazioni Unite, la sede del Comitato Olimpico, il palazzo della Repubblica, perfino la Biblioteca nazionale e il Museo nazionale avevano subito danneggiamenti, incendi e saccheggi di enormi proporzioni sotto gli occhi disinteressati dei soldati alleati.

    Siamo soldati, non poliziotti, rispondevano a chi gli chiedeva di intervenire.

    Gli arsenali privati dei due figli di Saddam Hussein erano stati completamente ripuliti del loro prezioso contenuto. Cassette di bombe a mano, pistole Beretta nelle loro confezioni originali, Kalashnikov russi e fucili austriaci, mitra automatici americani e munizioni di ogni tipo, perfino bazooka anticarro, erano spariti senza che fosse stato messo in atto alcun controllo. Come conseguenza nella capitale si assisteva al fiorire della violenza, un tutti contro tutti dove trovavano posto delinquenti abituali, cittadini comuni in lotta per la sopravvivenza, ex militari spinti dall’odio anti-occidentale e sciiti desiderosi di vendetta a caccia di sunniti.

    Questa era la situazione e questi i rischi che molti patrioti iracheni andavano prospettando ai capi della coalizione nel salone del club Al-Elwiya, senza tuttavia apprezzabili risultati.

    L’arabo si rivolse in un inglese perfetto alla persona che sulla divisa dell’esercito americano mostrava i gradi di colonnello.

    Colonnello Sanders, posso avere l’onore di parlare con lei?

    Vado di fretta, fu la secca risposta.

    Non più di cinque minuti, è una cosa della massima importanza.

    L’americano alzò lo sguardo fissando il volto dell’arabo su cui spiccavano penetranti occhi neri e una barba curatissima.

    Va bene, mi dica mentre mi accompagna all’ingresso. Così dicendo mise sottobraccio una cartella di documenti e si avviò a passo rapido.

    Per prima cosa permetta che mi presenti. Sono Muhammad bin Khaled al-Faleh, sono nato a Doha e faccio parte di un ramo cadetto della dinastia Al Thani, che governa l’emirato del Qatar.

    Buon per lei, commentò Sanders senza rallentare.

    Desidero parlarle del Museo nazionale di Baghdad, che purtroppo è sotto l’azione di vandali e saccheggiatori col rischio che tesori immensi di arte mesopotamica siano definitivamente dispersi.

    Non è mia competenza, non è un nostro obiettivo primario e nemmeno una opzione prevista. Non ha sentito quel che è stato detto prima in quella specie di assemblea?

    Ho sentito ma ciò che intendo è di fare a lei una proposta in merito.

    Il colonnello si fermò e si volse al suo interlocutore.

    Lei evidentemente non conosce me e il mio ruolo, ribatté scandendo ogni parola.

    Non solo la conosco benissimo ma potrei citare a memoria ogni step della sua carriera professionale, con date ed episodi a partire dal reggimento dei cavalli neri in Vietnam passando per il MIL Group a El Salvador e la Delta force in Colombia. Potrei anche citare qualche passo considerato top secret circa il suo presunto coinvolgimento nell’affaire Iran-Contras.

    Il viso di Sanders si irrigidì e gli occhi divennero due fessure che scrutavano il volto dell’arabo.

    "Cosa vuole esattamente da me?" chiese dopo qualche secondo, con voce che non tradiva alcuna emozione.

    Solo parlarle per cinque minuti, rispose l’arabo allargando le braccia.

    James Jim Sanders, colonnello delle forze speciali USA era una figura di primo piano nelle strategie militari statunitensi. Genericamente definito consigliere speciale rispondeva in linea diretta al Segretario alla difesa Rumsfeld a cui inviava periodicamente aggiornamenti sulla sua attività. Questa era consistita, nei vari scenari in cui aveva operato, per lo più nello sviluppo di tecniche antiguerriglia e nell’addestramento dei militari locali al fine di reprimere ribellioni e insurrezioni.

    La sua esperienza era iniziata allorché aveva combattuto in Vietnam nel Sessantotto e Sessantanove come comandante di compagnia nel reggimento Blackhorse dove aveva preso familiarità con interrogatori ai prigionieri considerati non propriamente ortodossi. Successivamente si era di nuovo sentito parlare di lui nel Millenovecentottantaquattro quando fu inviato a El Salvador in qualità di capo di una squadra di consiglieri militari speciali. In quei tempi gli Stati Uniti sostenevano la giunta militare che governava El Salvador, andata al potere con una serie di colpi di stato e a Sanders fu affidato il compito di addestrare e sostenere i cosiddetti squadroni della morte che dovevano reprimere la ribellione di sinistra scoppiata nel paese.

    Il colonnello si trovò in quegli anni implicato nello scandalo Iran-Contras che fece traballare la presidenza Reagan allorché venne alla luce un traffico di armi fornite dagli USA, via Israele, all’Iran, nazione notoriamente ostile agli Stati Uniti. I proventi della vendita di armi erano serviti a sostenere l’azione dei Contras, i gruppi armati controrivoluzionari che combattevano il governo sandinista del Nicaragua inviso agli USA perché filocomunista, gli stessi Contras che si finanziavano con il traffico di droga in ciò protetti dalla CIA.

    La presenza di Sanders era stata poi segnalata in Colombia agli inizi degli anni Novanta quando con le stesse mansioni di addestramento dei militari colombiani aveva contribuito alla caccia e all’eliminazione fisica del narcoboss Pablo Escobar.

    E anche lì in Iraq non erano diverse le sue funzioni, quelle di addestrare i miliziani sciiti all’attività contro-insurrezionale con la caccia agli insorti e con gli interrogatori eseguiti con ogni metodo, lecito o illecito, nonostante il suo incarico ufficiale fosse quello di consulente nel settore energetico per l’amministrazione americana.

    Noto per la sua freddezza e assenza di emozioni, intelligente, duro e attento osservatore l’aveva definito Rumsfeld, si era sempre difeso dalle accuse mossegli di violazione dei diritti umani ma i suoi metodi quantomeno spicci erano ben noti alle alte gerarchie militari statunitensi.

    Venga al dunque, non ho molto tempo, disse il colonnello all’arabo, entrambi seduti uno di fronte all’altro a un tavolino appartato nella hall del club.

    Le notizie e le foto del saccheggio del Museo nazionale stanno facendo il giro del web e non passerà molto tempo che le maggiori istituzioni culturali chiederanno a gran voce che voi americani vi preoccupiate anche della salvaguardia di ciò che rimane dei tesori del museo e schieriate i vostri soldati a protezione. Sarete criticati da tutto il mondo, non potrete esimervi da questo compito, continuò l’arabo davanti al silenzio del colonnello.

    E allora? fu l’asciutta considerazione.

    E allora, prima che ciò accada le chiedo di schierare i suoi soldati a protezione del museo e lasciare a me la possibilità di salvare e mettere al sicuro ciò che ancora non è stato vandalizzato.

    Passarono dieci secondi prima che il colonnello, un sogghigno disegnato sul volto, rispondesse all’interlocutore.

    "Primo: come le ho detto, non rientra neanche lontanamente nei miei compiti e non rappresenta per ora un’opzione praticabile. Secondo: a quel che mi risulta c’è ormai ben poco nel museo da mettere in salvo. Terzo: sono certo che salvare e mettere al sicuro sia da parte sua un eufemismo, dico bene?"

    L’arabo rispose a sua volta con un sorriso.

    Comincio dalla fine. Ero e sono ben consapevole che lei avrebbe capito perfettamente il senso di quanto le ho detto. Le famiglie che rappresento sono molto interessate a venire in possesso di ciò che rimane nel museo e che può essere definito un salvataggio di quei materiali. Anche se, soggiunse con un sorriso, capisco che lei possa interpretarlo in modo diverso. Il secondo punto. Sappiamo per certo che ci sono ancora molti reperti nel museo che sono stipati nei magazzini sotterranei, dietro porte sprangate di cui possediamo le chiavi e ingressi murati di cui conosciamo l’esistenza e la posizione. Questo materiale per ora non è stato toccato da nessuno, ma lei capisce bene che non potrà essere così ancora per molto. In quanto al primo punto lei è perfettamente in grado di ordinare a un carro armato di stazionare per un paio d’ore davanti all’ingresso del museo e ciò a fronte di qualcosa che ritengo estremamente interessante per lei.

    Il colonnello, il cui sogghigno era scomparso e i cui tratti del volto si erano fatti affilati come lame, non esitò a ribattere.

    Ho capito male o lei sta tentando di corrompermi?

    Andiamo, colonnello, si tratta di una transazione di affari. Ci troviamo in un ambiente destinato a cambiare ogni giorno, nessuna certezza per il domani, le notizie vengono esclusivamente da voi e la stampa locale pubblica ciò che voi le ordinate di pubblicare, sono le condizioni ideali perché ciò che possiamo concordare oggi non lasci una minima traccia domani…

    La frase non era ancora finita che Sanders si alzò dalla poltrona sibilando: Noi qui adesso abbiamo potere di vita e di morte, posso farla arrestare immediatamente o farla fucilare nel giro di cinque minuti.

    Lo so ma invece si siederà su quella poltrona e ascolterà la mia proposta, ribatté l’arabo dal cui volto era scomparsa ogni traccia di cordialità.

    Dopo un tempo che sembrò non finire il colonnello tornò a sedersi.

    Bene, ecco quel che chiedo: una finestra di due ore di tempo domani mattina alle dieci con copertura dell’ingresso principale del museo e dell’ingresso sul lato est. Qui i miei uomini saranno liberi di entrare nel museo, recuperare il recuperabile e il tutto sarà finito entro mezzogiorno. E adesso veniamo alla contropartita. Domani a mezzogiorno sul conto da lei indicato, sulla banca da lei indicata, in qualsiasi paese da lei indicato le sarà accreditata la cifra che lei è libero di richiedere a me qui adesso.

    Dopo una breve pausa l’arabo aggiunse scandendo le parole: Di qualsiasi cifra si tratti.

    12 aprile 2003, sabato mattina

    Dalle nove e trenta il Bradley M2 comandato dal capitano William Moore stazionava a fianco dell’ingresso principale del Museo nazionale, il minaccioso cannone M242 da 25 mm pronto al fuoco. Dal portello sul retro del corazzato stavano rientrando i quattro soldati che poco prima avevano fatto sloggiare con la minaccia delle armi un pugno di saccheggiatori inferociti che all’interno del museo tentavano di rubare quanto possibile di ciò che era rimasto, si trattasse di vasi, suppellettili, oggetti in oro, bronzi, ceramiche, tavolette d’argilla, sigilli a cilindro; un assalto vero e proprio e una devastazione che si era compiuta fracassando armadi, vetrine, scaffali, incendiando documenti e schede e riempiendo borse, carriole e sacchi di preziosi antichi manufatti. Un paio di ordini ringhiati nel tono giusto insieme a qualche raffica degli M4 li avevano convinti a mollare tutto e disperdersi all’esterno.

    Sul lato est, il colonnello Sanders fumava la sua Camel all’interno dell’Humvee fermo davanti all’ingresso secondario del museo. Mezz’ora prima alla Browning calibro 50 posizionata sul tetto del mezzo era bastato far sentire brevemente la sua voce per disperdere movimenti sospetti di civili che si stavano avvicinando al museo con intenzioni bellicose più che evidenti.

    Mancavano pochi minuti alle dieci quando due camion telonati si avvicinarono fermandosi a fianco dell’Humvee. Dal primo saltò in strada un uomo dalla lunga barba in tenuta mimetica che sbraitò un ordine. Dai due mezzi scese una dozzina di arabi che brandendo scatole di plastica rigida, scatoloni di robusto cartone e sacchi di iuta velocemente sparì attraverso l’ingresso del museo. Subito dopo si udirono chiaramente due esplosioni provenienti dall’interno, una a breve distanza dall’altra. Ne seguì un incessante va e vieni degli uomini che trascinavano scatole e sacchi riempiti di materiali, quando non grossi pezzi trasportati a spalla e li issavano a bordo dei camion. Il movimento continuò ininterrotto fino alle undici e quarantacinque, quando a un altro ordine urlato i camion ripartirono dileguandosi rapidamente alla vista.

    Sanders fece cenno al militare alla guida e l’Humvee girò intorno al perimetro del museo fermandosi a fianco del Bradley.

    Missione compiuta, capitano Moore, può tornare al suo programma, fece il colonnello sporgendosi dal finestrino.

    2

    Doha

    13 febbraio 2014, giovedì mattina

    Al terzo giorno di fitti e impegnativi colloqui e confronti e finalmente in vista della fase conclusiva, il colonnello Jim Sanders si era chiesto più volte perché diavolo avesse accettato quell’impegnativo incarico che lo aveva portato in Qatar. In tutta la sua vita aveva privilegiato l’azione e le decisioni veloci e ora si trovava da troppo tempo col sedere incollato a una poltrona di pelle beige, per quanto comoda, dovendo scegliere con attenzione ogni sua parola e tentare di interpretare correttamente quelle dei suoi interlocutori. La meeting room 101 del Qatar National Convention Centre aveva tutte le caratteristiche di comfort ma nonostante ciò già Sanders aveva avvertito i primi segni di insofferenza, oltre a quelli della necessità urgente di una toilette.

    Fortunatamente in quel momento fu annunciato un intervallo di venti minuti.

    Con un sospiro di sollievo si alzò raddrizzando la schiena e scambiò due battute scherzose con il preside della TAMUQ Mark Weichold, che conosceva da tempo. A loro si unirono il ministro dell’energia e dell’industria del Qatar, Mohammed Saleh Al Saida presente come chairman dell’advisory board e l’ambasciatrice USA in Qatar Susan Ziadeh. Insieme si diressero alla zona dove erano serviti caffè e bevande.

    La Qatar Foundation for Education, Science and Community Development era una fondazione no profit ideata e fondata nel Millenovecentonovantacinque dall’allora emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani e dalla sua seconda moglie Moza bint Nasser con lo scopo di incrementare le potenzialità del paese nei campi dell’educazione, delle scienze e dello sviluppo tecnologico. Per raggiungere questi obiettivi molte università estere erano state sollecitate a stabilire i loro campus a Doha e tra queste sei università statunitensi, in tempi diversi, avevano accettato l’invito. Aveva così preso forma e iniziato a funzionare la Education city un’area di venti chilometri quadrati nella periferia della capitale in cui erano appunto ospitate sei università statunitensi, una britannica e una francese, oltre a un settore, in costante ampliamento, dedicato ad accogliere aziende internazionali produttrici di tecnologia e incubatori di start-up, richiamate anche dal fatto che la zona era stata dichiarata del tutto tax-free.

    Anche la TAMU, la Texas A&M University con sede a College Station a novanta miglia da Houston, aveva impiantato, dieci anni prima, il proprio campus universitario, la TAMUQ Texas A&M University Qatar, dotato di moderne attrezzature e un valido corpo docente portando alla laurea ottocentocinquanta ingegneri a partire dal Duemilasette e, ovviamente, ricevendone in cambio cospicui finanziamenti.

    Sull’onda del successo dell’operazione in Qatar la stessa TAMU aveva non molto tempo prima, nella seconda metà del Duemilatredici, annunciato ufficialmente un nuovo innovativo progetto da duecento milioni di dollari: quello della creazione di un campus universitario nella città di Nazareth in Israele, il cosiddetto campus della pace poiché, nelle intenzioni, avrebbe dovuto ospitare studenti israeliani e arabi. Un memorandum di intenti era stato firmato in proposito dall’allora presidente di Israele Shimon Peres da una parte e dal governatore del Texas, Rick Perry insieme al rettore della TAMU John Sharp dall’altra.

    Tuttavia, non appena annunciata, la notizia aveva creato un vespaio di critiche e forti resistenze. Gli oppositori di Peres in Israele si appellavano alle norme di legge vigenti, assai restrittive sulle università straniere operanti sul suolo israeliano mentre numerosi dissensi erano venuti da ambienti governativi del Qatar e anche gli stessi studenti qatarioti l’avevano definito un affronto al nostro popolo. A questo si erano presto aggiunti la difficoltà di reperire sponsor che garantissero i necessari fondi per portare avanti il progetto e l’atteggiamento negativo di parte dell’opinione pubblica statunitense.

    A rendere ancor più delicata la situazione pochi mesi prima era scaduto l’accordo decennale tra TAMU e TAMUQ e non si era ancora giunti alla ratifica della conferma per i prossimi dieci anni. Ovviamente TAMU non intendeva perdere i contributi che arrivavano con regolarità dalla Qatar Foundation che la mossa falsa del peace campus rischiava invece di compromettere.

    Ecco perché era assolutamente indifferibile recarsi in Qatar, negoziare e possibilmente risolvere quella grana, anche tenendo conto che proprio il Qatar ospitava la base americana di Al Udeid, a sud-ovest di Doha, con oltre undicimila militari americani, la cui permanenza era vitale per gli interessi USA e fondamentale per la vicinanza a tutto lo scacchiere mediorientale

    Sanders era da tempo in stretto rapporto con la TAMU. Essendo a capo di un’azienda di sistemi e dispositivi per l’industria bellica situata in vicinanza della stessa università di College Station, dove molti degli ingegneri alle sue dipendenze avevano studiato e si erano laureati; inoltre erano note le sue approfondite conoscenze politiche presso il Ministero della difesa e nel partito repubblicano. Per questi motivi era stato coinvolto in quella missione diplomatica in svolgimento a Doha.

    Il colonnello ne aveva parlato con i suoi contatti al dipartimento della difesa e dopo un paio di giorni era arrivata la decisione. La creazione di un campus a Nazareth, per le problematiche emerse, era assolutamente improponibile in quel momento e difficilmente sostenibile anche in futuro, pertanto la strategia andava modificata su due piani diversi: quello politico col governo qatariota e la Fondazione e quello tattico con la TAMUQ Veniva proposta la visita in Qatar di una delegazione USA guidata dalla sottosegretaria di stato per gli affari politici Wendy Sherman accompagnata da una decina di funzionari e da un gruppo di CEO di aziende texane di tecnologia soprattutto del settore aerospaziale. In Texas infatti di recente avevano aperto ex novo uffici o ampliato unità produttive molte grandi aziende che si occupavano di ricerca, sviluppo e commercializzazione di nuove tecnologie grazie ad agevolazioni, finanziamenti e incentivi fiscali concessi e al costo della vita molto più basso rispetto alla California. Il problema andava risolto sul piano politico ma anche la prospettiva di eventuali supporti e sponsorizzazioni alla TAMUQ costituiva un’ottima mossa.

    Quindici giorni dopo la delegazione di cui faceva parte Sanders era giunta in Qatar, aveva preso alloggio presso il Golden Tulip di Doha e aveva iniziato la prima fase dei colloqui in una sala del museo di arte islamica. Ovviamente la riunione era stata preceduta da una visita allo splendido edificio color crema, opera dell’architetto cinese Ming Pei con il chiaro intento di impressionare gli ospiti mostrando le più raffinate testimonianze dell’evoluzione storica, artistica e culturale del piccolo emirato.

    La sottosegretaria aveva giocato bene le proprie carte. Da una parte aveva dato dimostrazione della buona volontà messa in campo dagli Stati Uniti confermando che l’annunciato progetto da duecento milioni di dollari per il peace campus a Nazareth era stato cancellato e veniva sostituito da un ben più modesto finanziamento di sei milioni di dollari per un centro di ricerca marina dell’Università di Haifa, tacendo ovviamente sul fatto che ciò che stava a cuore agli americani non era tanto la biologia o la geologia marina quanto i grandi giacimenti di gas del Mediterraneo orientale. Dall’altra parte tuttavia aveva portato a casa un congruo finanziamento, o risarcimento, pari a trentuno milioni di dollari erogato dalla Fondazione in favore della TAMU.

    Nell’ultima giornata di colloqui si era andati in discesa, viste le risultanze positive dei giorni precedenti. Questi incontri avevano luogo presso il Convention Center a Educational city e interlocutori erano i dirigenti della TAMUQ.

    Era stato rinnovato l’accordo tra l’università texana e la sua ramificazione qatariota per i prossimi dieci anni e sostanziali protocolli di intenti, quando non contratti, erano stati firmati coi responsabili delle aziende presenti. In sostanza le cose erano state gestite come programmato e la delegazione aveva ottenuto il meglio dalle trattative, essendo ormai la discussione entrata nei dettagli finali.

    Sanders chiacchierò per un po’ coi suoi interlocutori, tentando anche di rispondere alle domande del ministro che sembrava particolarmente interessato ad avere informazioni sullo sviluppo della Tesla. Poi si scusò e si avviò alla toilette. Poco dopo, di ritorno, si spostò al tavolo dei rinfreschi e chiese una spremuta quando alle sue spalle udì una voce.

    Colonnello Sanders, posso avere l’onore di parlare con lei?

    L’americano restò immobile, il bicchiere alle labbra, la netta sensazione di aver già udito quelle parole e di conoscere quella voce senza tuttavia riuscire a identificarla.

    Si voltò lentamente e davanti a sé vide un arabo vestito di bianco, alto, imponente, la barba curatissima, i

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