Il Regno della Polvere: Frammenti di un mondo diverso nell'esperienza atipica di un ufficiale italiano
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Anteprima del libro
Il Regno della Polvere - Gregorio Giungi
fotografica
Prologo
Sapevo quello che facevano i Talebani, quello che volevano e da dove venivano. Avrei vissuto nel loro stesso luogo, li avrei forse incontrati… Ma quel giorno in sosta all’aeroporto militare di Abu Dhabi, al momento di ripartire verso Kabul, mentre passeggiavo sulla pista rimasticando i miei pensieri attorno all’aereo che mi avrebbe portato in casa loro, l’immagine di essi creata dai miei insegnanti nella mia mente non mi bastava più. Non bastava a contenere la mia ansia curiosa…
No, era fame. Fame di novità, di avventure e di verifiche concrete…volevo di più di quel che avevano già offerto alla mia conoscenza le mille lezioni accademiche. Volevo la realtà dell’esperienza…
Mancava ancora tempo al decollo. Le attese cui ci costringevano le autorità aeroportuali degli Emirati erano rese interminabili dall’incertezza… Gli orari che ci comunicavano erano puntualmente vaghi…meri punti di riferimento, regolarmente disattesi.
Le verifiche e le avventure mi avrebbero aspettato ancora un po’.
Mi accontentai di ricordare quel che avevo appreso sul mio nemico. Guardando l’orizzonte opaco di caligine, in cui si stagliavano a sovrastare il deserto, irreali come un miraggio, le torri moderne della città, cercai di intravvedere attraverso il mio sapere il volto dei miei barbuti avversari, di coloro che forse avrebbero preso la mia vita.
I TALEBANI
Nascita, Vittoria e Declino
Scrivere oggi dei Talebani comporta, per chi scrive, il rischio di dire cose già note. Molto si è già detto, infatti, degli Studenti coranici afghani che, con Libro e Moschetto
, presero il potere in Afghanistan pacificando un paese dilaniato dalla guerra civile e creando lo Stato teocratico più rigoroso dell’era islamica moderna. Correrò comunque il rischio di annoiare il Lettore parlandogli delle loro origini e della loro storia, poiché questo è indiscutibilmente necessario per capire la natura e la reale identità del fenomeno talebano.
I Talebani hanno radici antiche ed esogene. Sì, perché in effetti non è in Afghanistan che, a ben vedere, essi davvero nascono. Gli Ulema afghani che per primi gettarono i semi del movimento di pensiero religioso che, più di un secolo dopo, avrebbero dato vita al movimento talebano erano nella seconda metà del diciannovesimo secolo cittadini della Grande India britannica, comprendente all’epoca quei territori della famosa ‘Tribal Belt’ nord-occidentale che – pur essendo storicamente terre pashtun – oggi vengono a trovarsi, come tutti sanno, in Pakistan, a ridosso del confine orientale afghano. Orbene, nel 1857 – ed anche questo alcuni di voi lo sapranno – vi fu in India una grande rivolta anti-britannica (detta dai Britannici Ammutinamento indiano
e dagli Indiani Prima Guerra di Indipendenza indiana
) la quale, pur non potendosi definire una rivolta islamica, fu però grandemente sostenuta ed alimentata dai musulmani d’India, in particolare dalla loro aristocrazia e dal loro ceto intellettuale. Tale rivolta – o forse il suo fallimento – divise la società indiana, ed anche il mondo islamico di allora in realtà si ritrovò spaccato fra modernisti fedeli alla Gran Bretagna e tradizionalisti che volevano liberarsi del dominio inglese; questi ultimi, dopo la repressione della rivolta, fondarono nel 1867 la madrasa di Deoband, una località nei pressi di Dehli. E’ lì che gli Ulema afghani della cintura tribale – e probabilmente anche alcuni loro parenti provenienti dal confinante Afghanistan – saranno educati, in un’atmosfera culturale di rigida ortodossia religiosa, nel rifiuto delle innovazioni ed in particolare di quelle ispirate dai dominatori occidentali¹. Ma la particolarità della Scuola Deobandi che qui ci incuriosisce e che ci interessa meglio trattare è un’altra: essa fu anche una scuola profondamente influenzata dalla filosofia mistica ed esoterica dei Sufi², ai cui Ordini appartenevano buona parte di insegnanti ed allievi della scuola. Ciò è curioso, poiché il Sufismo è contraddistinto tradizionalmente da moderazione e tolleranza, ed il suo spirito mal si combina col fondamentalismo religioso. Il lettore deve però considerare quale potesse essere lo stato d’animo allora imperante tra gli indipendentisti indiani dopo la sanguinosa repressione inglese, assolutamente caratterizzata da quelli che oggi – come gli stessi storici britannici, con onestà intellettuale, generalmente ammettono – verrebbero definiti brutali crimini di guerra (peraltro commessi anche da parte indiana, è doveroso aggiungerlo); questa specie di fondamentalismo sufi
, dunque, fu probabilmente promosso ed alimentato da un forte fattore emotivo.
Fu ad ogni modo questo strano connubio ‘misticismo sufi-fondamentalismo’ a produrre quel sentire che permeava la percezione religiosa nella scuola di Deoband, ed essa condizionò fortemente la formazione culturale dei Dottori della Fede
che uscirono da tale scuola. La sua particolarità fu che, in tale sentire, la comunione con Dio ricercata dai Sufi – anziché attraverso un sostanziale distacco del credente dalla vita terrena – si perseguiva invece attraverso l’osservanza religiosa in ogni aspetto della vita quotidiana e politica. Il trasporto emotivo – o, se preferite, spirituale – che caratterizzava il misticismo sufi fu trasferito dalla dimensione esoterica a quella attiva e, quindi, militante.
Questa percezione e questo sentire, questa ‘visione’ della Fede – benché, per così dire, contaminata
(sarebbe politicamente più corretto dire influenzata
), come vedremo tra poco, da altre istanze ancor più radicali – si ritrovarono dapprincipio anche nei primi Talebani; i Deobandi afghani infatti, negli anni successivi, crearono o almeno diressero una serie di madrase lungo la frontiera afghano-indiana nella succitata ‘Tribal Belt’, e furono esse che dunque presero a ‘sfornare’ il grosso degli Ulema afghani.
Quando poi, nel 1947, alla nascita dell’India moderna vi fu la separazione dal Pakistan, il fenomeno delle scuole religiose si accentuò e – a partire dagli anni ’50 – cominciò allora una sorta di evoluzione
dell’impostazione dottrinaria deobandista: grazie al finanziamento di soggetti privati e statuali stranieri – soprattutto l’Arabia Saudita – furono fondate nella stessa provincia del Nord-Ovest numerose madrase di ispirazione wahabita³, che in un certo qual modo surclassarono le originarie scuole deobandi. Il fondamentalismo di queste scuole wahabite si può forse definire ancora più arcigno
di quello delle scuole di ispirazione sufi, e furono queste nuove madrase ad attrarre via via maggiormente gli studenti afghani, forse catturati dalla semplicità puritana e rigorosa dei loro insegnamenti.
Furono queste le madrase da cui provenne, mezzo secolo più tardi, la maggioranza degli Studenti Guerrieri.
Ma torniamo di nuovo agli anni Cinquanta. In questo periodo i Deobandi pakistani si organizzarono in un vero e proprio movimento religioso e culturale, lo Jamiat Ulema-i-Islam (Società degli Ulema Islamici), il quale nel 1962 si trasformò in un partito politico, soprattutto ad opera di Ghulam Ghaus Hazarvi – un Ulama del Nord-Ovest – che ne divenne il segretario generale. Negli anni successivi il numero delle madrase ‘deobandi-wahabite’ nell’area tribale pashtun ed in tutto il Pakistan crebbe a dismisura, con il favore e l’appoggio economico dei Sauditi e del regime militare pakistano. In particolare durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan – dal 1979 al 1989 – lo Jamiat Ulema-i-Islam, ora sotto la guida di Fazlur Rehman, fondò ulteriori madrase nella ‘Tribal Belt’ e nel Baluchistan pakistano, offrendo ai profughi afghani ed ai giovani volontari pakistani un’istruzione gratuita, cibo, riparo e – cosa più importante – un addestramento militare
(A. Rashid)⁴. Queste madrase quindi cominciarono di fatto a formare una milizia religiosa, destinata nell’immediato a combattere contro i Russi in Afghanistan, e poi a costituire la nuova generazione afghana post-sovietica. Ma questa nuova milizia di studenti (taliban) guardava con profondo scetticismo a quelli che precedentemente avevano combattuto la guerra santa contro i Sovietici
(A. Rashid, ibidem). Tale atteggiamento fu poi senz’altro consolidato dai fatti della guerra civile seguita alla ritirata sovietica e alla fine del regime comunista afghano, guerra che dimostrò l’inadeguatezza politica ed il personalismo dei vecchi Mujaheddin, corrotti ed avidi di potere, le cui lotte di fazione precipitarono l’Afghanistan nell’anarchia e, come vedremo, la dirigenza pakistana nel panico. Nei primi anni ’90 tuttavia la Jamiat di Fazlur Rehman riuscì ad entrare nel nuovo governo di Islamabad, grazie ad un’alleanza elettorale addirittura col Partito del Popolo pakistano di Benazir Bhutto, e ad instaurare una ‘special relationship’ con i Militari, i Servizi Segreti (in particolare con il principale di essi, l’ISI – Inter Services Intelligence) ed il Ministero degli Interni. Era soprattutto il Ministro degli Interni Naseerullah Babar, sembra, che all’epoca cercava disperatamente tra i Pashtun un nuovo referente in sostituzione dei vecchi e logori mujaheddin, almeno per consentire la riapertura delle importanti vie commerciali con l’Asia centrale senza che i convogli in partenza dal Pakistan cadessero in imboscate o subissero pesanti taglieggiamenti da parte dei locali ‘warlords’ afghani
(F. Biloslavo)⁵. Ripristinare e difendere le relazioni commerciali internazionali era allora uno dei due obiettivi dichiarati della politica regionale pakistana in Afghanistan, cioè quello urgente e a breve termine; l’altro, quello a lungo termine, era riprendere il controllo del loro storico cortile di casa
attraverso uno stabile e solido governo amico ed allineato, vale a dire quello che storici e giornalisti volgarmente definiscono governo-fantoccio
. Anche per questo, avevano bisogno di un nuovo ed affidabile ‘cavallo vincente’. Lo videro nei Talebani, pronti, addestrati a migliaia nelle madrase e rinforzati dai volontari pakistani, che avevano seguito gli stessi studi radicali
(F. Biloslavo, ibidem). Il loro obiettivo era ambizioso e gradito ai loro sostenitori pakistani come ai loro finanziatori sauditi: conquistare e normalizzare in nome del Corano l’intero Afghanistan
. Ci riuscirono (quasi del tutto) nel giro di due anni. La dirigenza pakistana aveva scommesso sul cavallo giusto. Apparentemente.
I Talebani cominciarono la loro ascesa verso il potere nel 1994, affermandosi sullo scenario politico-militare sotto la guida del leggendario e misterioso mullah Mohammed Omar. I primi miliziani ad agire al suo comando, a quanto si sa, non provenivano però dalle province pashtun d’oltre confine, ma più semplicemente dalla sua madrasa. Omar era infatti da tempo il mullah di una piccola madrasa da lui fondata a Singesar, un piccolo villaggio nei pressi di Kandahar dove lui si era trasferito con la sua famiglia – cresciuta negli anni fino a comprendere tre mogli e cinque figli – continuando nel contempo i suoi studi di teologia nel vicino capoluogo. Pur non essendo mai stato, viene riferito, un personaggio particolarmente carismatico (specialmente in pubblico), si era costruito un notevole prestigio sia per il suo comportamento in guerra – fu ferito quattro volte, perdendo l’occhio destro, mentre combatteva contro il regime comunista di Najibullah – sia per la sua solida e coerente etica religiosa. Nell’ottica afghana, era insomma il tipo d’uomo tutto d’un pezzo cui la gente istintivamente si rivolgeva quando era nei guai, per un consiglio od un aiuto. E così accadde nella primavera del 1994. La prima impresa riportata di Omar e dei suoi Talebani ha i contorni fumosi ed incerti del mito, ma sembra in effetti che – con buona pace dei loro detrattori e a dispetto dei cinici dietrologi che videro in lui un semplice strumento dell’ISI sin dall’inizio – essa abbia i tratti della più classica impresa cavalleresca. Alcuni suoi vicini di casa si erano rivolti a lui segnalandogli che il signorotto del posto aveva rapito due ragazzine e le aveva portate nel suo accampamento per violentarle (fatto, ahimé, del tutto plausibile, all’epoca). Il mullah radunò i suoi Taliban e li armò alla meglio (di quei tempi, era plausibile anche reperire armi lì per lì, se poi quei giovanotti le armi non le avevano già, cosa anche più probabile), guidandoli subito all’attacco dell’accampamento. Lo espugnò eliminando buona parte dei Mujaheddin ed impiccando il responsabile dello stupro, per poi liberare le ragazzine. La fama che si procurò con questo gesto pose la base per le imprese successive ed attirò nella sua madrasa sempre più giovani, che si misero ai suoi ordini. Ma soprattutto, lo fece notare dai Pakistani.
Nell’ottobre del ’94 Omar aveva ormai sotto di sé