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Un semplice gesto d'amore
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E-book350 pagine4 ore

Un semplice gesto d'amore

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Info su questo ebook

Al-Raqqa-Siria, capitale del sedicente Stato Islamico. Fatima, una bambina cristiana, per scappare dalle atrocità jihadiste dell’Isis, intraprende con la sua famiglia il viaggio della speranza verso la Libia per imbarcarsi di notte in una “carretta del mare”, con destinazione le coste siciliane. Diventeranno dei profughi e affronteranno pericoli di ogni genere pur di sopravvivere.
Verona-Italia. Francesco, un bambino di nemmeno nove anni che tutti conoscono per la sua vivacità e inventiva, darà prova della sua generosità verso il prossimo.
Francesco e Fatima incroceranno i loro destini a Verona, presso il reparto di oncoematologia pediatrica.
“Un semplice gesto d’amore” rappresenta un intreccio di vissuti, tragedie e piccoli, ma importanti gesti che troveranno il loro senso nell’amicizia e nella solidarietà umana.
Denuncia altresì le condizioni di vita dei bambini siriani che, nell’indifferenza del mondo, sono vittime e spettatori di atrocità perpetrate in una guerra civile scatenata da lotte di potere tra diverse fazioni etniche, politiche e religiose.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2020
ISBN9788866603467
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    Anteprima del libro

    Un semplice gesto d'amore - Sergio Gobbo

    Giancarla

    I

    Al-Raqqa - Siria

    Il furgoncino di Ammar era arrivato.

    «Salite, presto, dobbiamo partire in fretta!» sospirò Ammar, guardandosi furtivamente attorno e aprendo lo sportello laterale per far salire il suo amico Alì, con la moglie e i suoi due figli piccoli.

    Tutto il piano di fuga era stato concepito nel silenzio più assoluto tra Ammar e Alì. Non volevano compromettere le loro vite in quella assurda guerra.

    Nessun altro era stato coinvolto in quel progetto, neppure i componenti delle loro famiglie che ignoravano completamente il piano ideato, nel tentativo di fuggire da quell’orrore.

    Una parola di troppo, uscita anche per errore, poteva essere usata dai miliziani dell'Isis come pretesto per ucciderli tutti, senza neanche dare loro la possibilità di difendersi da eventuali accuse capziose o prive di fondamento. Bisognava diffidare di chiunque; c’erano troppe spie Daesh in giro e fanatici tra la folla dei civili, entusiasti dell’avvento della jihad.

    «Siediti davanti Alì, con me» disse Ammar. «Voi qui, sul sedile in mezzo» sistemò i due bimbi insieme ai suoi figli maschi, profondamente assonnati, visto che ormai era notte fonda.

    «Tu, mettiti qui dietro» indicando il sedile posteriore a Afrah, per mettersi accanto alla sua consorte e a Fatima.

    In una cultura maschilista, come quella propugnata dall’Isis, non poteva esserci all’interno di quel veicolo una distribuzione degli spazi diversa da quella che era stata indicata da Ammar.

    Una collocazione alternativa nel veicolo sarebbe stata indubbiamente notata, qualora fossero incappati lungo il tragitto in qualche pattuglia di controllo delle milizie jihadiste, sparse per tutta la città e nel territorio siriano. 

    Nel furgone avevano riposto poche cose essenziali: qualche capo di abbigliamento recuperato in mezzo alle macerie e taniche di acqua e gasolio utili per il lungo viaggio.

    Ammar, prima di risalire sul furgone, si guardò attorno e riuscì a stento a trattenere le lacrime. Quello che vedeva non era più la sua al-Raqqa. Aveva ancora impressa l’immagine di una città viva, dove neanche il frastuono dei mezzi in transito, riusciva a coprire le grida impetuose dei bambini che si trovavano a giocare in strada, mentre gli anziani, seduti sull’uscio di casa o nelle panchine delle varie piazzette, trascorrevano le loro giornate tra una chiacchiera e l’altra. Una città vitale a misura d’uomo, un sistema urbanistico edificato sulle rive del fiume Eufrate, la cui posizione strategica faceva gola a molti, visto che rappresentava il centro del sistema idrico di tutto il territorio settentrionale siriano.

    Per questi motivi, al-Raqqa entrò a far parte di un piano più ampio di espansione del Califfato dell’Isis che, travalicando i confini dell’Iraq, volle estenderlo fino alla Siria, facendola diventare la capitale del sedicente Stato Islamico.

    Da allora, lo scenario del paesaggio che Ammar aveva sempre visto era stato completamente travolto.

    Quei bei palazzi che si ergevano lungo le vie storiche non esistevano più! Ce n’erano pochi rimasti in piedi, tutti sventrati dai vari bombardamenti. Le strade erano coperte da masserizie e rifiuti abbandonati, alcuni dei quali che galleggiavano nel pantano dell’acqua stagnante della pioggia caduta il giorno prima e che esalavano odori acerbi e nauseabondi.

    All’assordante entusiasmo dei suoi abitanti, si era sostituito un silenzio tombale, generato dalla paura di uscire allo scoperto per i cecchini che sparavano ad ogni cosa si muovesse, di incappare in qualche mina antiuomo o in qualche fanatico miliziano che potesse attentare alla loro vita.

    «Dai Ammar, dobbiamo andare!»  Stephanie lo richiamò alla cruda realtà. «Non possiamo farci più niente. Sali e partiamo» aggiunse con un mormorio.

    Ammar chiuse lentamente il portello per non fare rumore e mise in moto il furgone per partire, rivolgendo con sdegno il suo ultimo sguardo verso l’imponente bandiera nera che era stata innalzata dall’Isis, sopra l’unica parte che era rimasta in piedi del colonnato di un vecchio edificio, ormai pericolante.

    «Sto male solo a guardarla» replicò con rabbia Ammar. «Se rimaniamo qua, ci uccideranno tutti!»

    Infatti, l’Isis, nel perseguimento della jihad, aveva iniziato una vera e propria persecuzione nei confronti di tutti i cristiani in quanto infedeli, sterminando, con metodi atroci, quanti incappassero nel loro cammino, distruggendone i simboli e profanando tombe e chiese.

    In città, entrambe le due famiglie erano conosciute per il loro attivismo religioso a servizio della Chiesa greco-cattolica dedicata alla Nostra Signora dell’Annunciazione, trasformata ora nel quartiere generale dei miliziani jihadisti.

    Il timore di sicure ritorsioni nei loro confronti era fondato.

    Sarebbe bastato che qualcuno li denunciasse e sarebbero stati uccisi.

    Ammar, inoltre, si era accorto che un loro conoscente era attratto sempre più dal suo furgone; quest’ultimo, pur di entrarne in possesso, era pronto anche a denunciarlo in barba alle convinzioni religiose.

    Ammar era un affermato ingegnere civile di quarant’anni, sposato con Stephanie, una ricercatrice inglese di trentasei: aveva vinto una borsa di studio in ingegneria chimica dei processi industriali, prima di decidere di abbandonare la patria natia per amore.

    Si erano conosciuti all’Università ad Oxford nella quale avevano convissuto per tutto il periodo degli studi per poi trasferirsi in Siria, dapprima ad Aleppo, poi a Damasco e definitivamente, ad al-Raqqa.

    Non fu semplice per Stephanie decidere di trasferirsi definitivamente in Siria. Prendere tale decisione significò sacrificare la propria carriera e il proprio stile di vita da occidentale, per abbracciare una cultura completamente diversa, come quella araba e, in particolar modo, quella siriana, dove la maggioranza della popolazione era di fede sunnita e aveva creato una società basata prevalentemente sull’Islam.

    L’amore per Ammar aveva però prevalso e, dopo il loro matrimonio, dalla loro unione erano nati Fatima, che aveva compiuto da poco otto anni, John Samer di quasi sette e Matthew Jamal di tre.

    I due figli maschi avevano il doppio nome, uno arabo e uno inglese, per accontentare tutti e due i genitori. Fatima, visto che rievocava il luogo in cui era apparsa la Madre di Gesù ai tre pastorelli portoghesi, era un nome che aveva messo d’accordo entrambi i genitori. Tale scelta era in linea con il loro credo religioso, essendo dei ferventi cattolici, appartenenti alla minoranza cristiana presente in Siria.

    Alì invece era un giovane avvocato di trentasei anni ed era sposato con Afrah, una ragazza del luogo, di sei anni più giovane. Avevano due figli maschi, Abdul e Husaam rispettivamente di dieci e sette anni.

    Le due donne, per il viaggio, si erano messe l’una il niqab e l’altra il chador, pronti da togliere una volta superati i territori caldi in mano ai fondamentalisti islamici. Dopodiché avrebbero finalmente indossato solo abiti occidentali.

    Tali precauzioni erano necessarie visto che il Califfato aveva imposto a tutti le loro restrizioni e la legge della sharī‘a, specialmente nei confronti delle donne, segregandole ed obbligandole a vestire solo abiti decorosi e conformi ai dettami religiosi dell’Islam, ma aveva anche volutamente diviso gli alunni maschi dalle femmine e sostituito i programmi di insegnamento del Corano con quelli della jihad.

    Erano state innalzate dappertutto le loro tetre bandiere nere e iniziate rappresaglie contro la popolazione, con esecuzioni sommarie nei confronti degli oppositori e di chi non voleva convertirsi allo Stato Islamico e alla jihad.

    Chi non si sottometteva, sarebbe stato assoggettato a fustigazione pubblica, tortura e morte. Le decapitazioni, impiccagioni, crocifissioni e fucilazioni erano all’ordine del giorno, obbligando tutti ad assistere, con l’intento di incutere il terrore tra le genti e far capire chi fosse ora al comando.

    Uscire dalla città non era semplice!

    Ammar si immise a bassa velocità nella strada principale mantenendo i fari spenti per non destare rumori sospetti e tentare di raggiungere una delle strade periferiche della città. Il silenzio imperante nei luoghi attraversati, veniva rotto solamente dal frastuono che si creava nell’incappare nelle molteplici buche presenti sulla strada. La tensione all’interno del furgone era tesa come una lama di un coltello; avevano ben in mente quello che era successo a una famiglia di loro conoscenti. Mentre fuggivano di notte con le poche cose che ancora possedevano, erano stati fermati a un posto di blocco da alcuni combattenti. Una volta fatti scendere dal loro mezzo con il mitra puntato alla testa e dopo aver controllato che non avevano soldi con loro, li avevano messi in ginocchio e li avevano freddati alla tempia, iniziando dal capofamiglia, per poi uccidere la moglie e i loro tre piccoli bambini.

    Non c’era molto da discutere se ti fermavano.

    «Stephanie, come sta Fatima?» chiese Ammar, quasi a rompere il silenzio e l’inquietudine del momento.

    «Credo abbia nuovamente la febbre» rispose la moglie, mentre accarezzava i lunghi capelli della sua piccolina per tentarla di rilassarla dalla tensione del momento.

    «Papy, sto bene, non ti preoccupare!» rispose la bimba dalla parte posteriore del furgone, mentre si asciugava i grandi occhi resi cisposi dalle lacrime di commozione per l’improvvisa fuga dalla città.

    Fatima aveva palesato negli ultimi tempi dei sintomi che preoccupavano non poco i suoi genitori. Aveva iniziato con una sudorazione eccessiva, spesso notturna, accompagnata da lamenti vari mentre dormiva. In principio era stata attribuita a frequenti incubi condizionati dalle scene di esecuzioni di massa alle quali era stata costretta ad assistere, ma, successivamente, erano comparsi altri sintomi: febbri continue con brividi, una stanchezza persistente, debolezza, perdita di peso ed emorragie frequenti di sangue dal naso.

    Ad al-Raqqa avevano tentato di farla visitare da quei pochi medici che erano rimasti ancora in città, ma non erano stati in grado di formulare una diagnosi completa, dato che tutte le strumentazioni tecnologiche per effettuare gli ulteriori accertamenti erano andate distrutte.

    Quindi, l’intento dei genitori era quello di portarla lontano dalla guerra, per farla curare e guarire da quella strana sintomatologia, ma, per quanto non fosse nel pieno delle sue migliori condizioni psicofisiche, Fatima risaltava per la sua particolare bellezza.

    Con i suoi occhi azzurri, la carnagione chiara e lunghissimi boccoli biondi, tutti ricciolini, assomigliava sempre più alla mamma, mentre dal papà aveva assunto solo alcuni tratti orientali.

    Quando usciva all’esterno, i suoi genitori le facevano indossare, per precauzione, lo hijab, il velo islamico che le copriva il capo, onde evitare di incappare in qualche fondamentalista che potesse sentirsi offeso nel vedere una femmina a testa scoperta.

    Ma proprio a causa della sua bellezza e del luccichio di quegli occhi color cielo, venne notata da uno dei capi delle milizie, qualche giorno prima della loro partenza. Ne rimase colpito al punto che si recò da Ammar, per richiederla come promessa moglie per il suo primogenito di ventidue anni.

    Angosciati da tale agghiacciante e vomitevole richiesta, consapevoli che una risposta negativa li avrebbe condotti a morte sicura, in quattro e quattr’otto presero solo il necessario e decisero di partire subito, il più velocemente possibile.

    Erano tra i fortunati che avevano ancora un mezzo per fuggire da quell’orrore, rispetto alla lunga orda umana di profughi che avevano iniziato a scappare a piedi o con qualsiasi mezzo di fortuna dalla città, portandosi dietro quelle poche cianfrusaglie che erano riusciti a racimolare e che, oggi, rappresentavano il loro unico «tesoro».

    Quelle persone avevano perso tutto: la propria casa, le proprie attività con i frutti di una vita di lavoro e, in particolar modo, la loro dignità.

    Ora, però, la cosa più importante da salvaguardare era la propria vita e quella dei propri cari.

    Sotto la marmitta del furgoncino, tra le parti meccaniche del veicolo, era stata legata e nascosta una piccola fascia, nella quale era stata realizzata una tasca con cerniera, per riporre tutti i loro sudati risparmi e il ricavato dalla vendita delle loro due abitazioni, avvenute prima che venissero distrutte dai bombardamenti in città.

    Sarebbero serviti per rifarsi una nuova vita in qualche località dove non ci fosse nessuna guerra e venissero garantiti i loro diritti fondamentali; inoltre Ammar e Stephanie, con quei soldi, avrebbero potuto pagare anche le cure per Fatima.

    Avevano nascosto nel vano motore e nel cruscotto interno altre due buste, con delle discrete somme di denaro, ma sempre allettanti, che potevano servire nel caso in cui fossero incappati in qualche controllo disseminato in città o nei predoni durante la traversata del deserto.

    Sotto i sedili, invece, due pistole procurategli da un contrabbandiere della zona; sarebbero servite in caso di un’eventuale aggressione alla loro incolumità.

    Uscendo dalla città, volsero un ultimo sguardo e, senza parole, partirono.

    Lontano, si scorgevano i resti della Moschea di Uways al-Qarnī in cui si conservavano le spoglie del compagno del Profeta, Ammār b. Yāsir, distrutta per la radicale intolleranza contro l’etnia sciita.

    Una volta varcati i confini della città e superati gli appostamenti dei miliziani dell’Isis, iniziarono ad accelerare e, finalmente, poterono tirare un sospiro di sollievo.

    Davanti a loro vi erano almeno tre giorni ininterrotti di viaggio, più di tremilacinquecento chilometri: destinazione Zuwara, Libia, circa cento chilometri a ovest di Tripoli.

    Dovevano attraversare la Siria, la Giordania, l’Egitto e la Libia per arrivare quasi al confine con la Tunisia, a Zuwara, davanti alle spiagge del Mar Mediterraneo.

    La prima tappa prevista era il confine giordano e poi via, in direzione Aqaba, in Giordania, la città portuale situata nell’omonimo golfo sul Mar Rosso.

    Ad Aqaba avrebbero preso il traghetto per Nuweiba per entrare in Egitto e proseguire così il loro viaggio.

    Alternandosi alla guida e prevedendo pochissime e brevissime soste, l’auspicio era quello di poter arrivare il prima possibile a Zuwara.

    In quella località si sarebbero dovuti incontrare con un trafficante, il cui contatto lo avevano avuto da un conoscente di Alì, per poi, successivamente, tentare la traversata del Mediterraneo.

    Se tutto fosse andato secondo i loro programmi, tra qualche giorno avrebbero potuto mettere una pietra sopra a tutto quell’orrore e iniziare una nuova vita.

    Adesso era importante rimanere concentrati alla guida.

    Il viaggio era lungo e faticoso.

    L’afa e il caldo non erano certo di sollievo, ma il desiderio di libertà li aveva caricati al massimo livello.

    II

    Verona, Italia

    Mentre cadeva dal venticinquesimo piano del grattacielo di New York, guardando in alto, Spiderman vide il suo acerrimo rivale, Lizard, che lo osservava con la freddezza tipica di un animale a sangue freddo.

    Però non era sempre stato così; in origine non esisteva nessuna rivalità, anzi, tra il padre di Peter Parker e il dottor Curt Connors c’era stato un periodo di intensa collaborazione nella ricerca spasmodica di trovare la formula della rigenerazione cellulare.

    La sintonia che si era creata nel lavoro, aveva generato un legame che si era tramandato anche nei loro rapporti familiari.

    Per questi motivi, a Spiderman, alias Peter Parker, durante quel volo in caduta libera, apparvero, in brevissime frazioni di secondo, i ricordi di una parte della sua fanciullezza, quando era imperativo trascorrere la domenica tra le due famiglie e sentire, durante il pranzo, parlare esclusivamente di formule chimiche di cui non riusciva a comprenderne, malgrado provasse a impegnarsi, il reale significato.

    Ma pur avulso da tali pensieri ecco che, il proprio istinto da ragno, fece partire una ragnatela verso il basso che, estendendosi da un palazzo all’altro, creò una sorta di materasso che attutì la sua caduta facendolo atterrare sul morbido.

    Ti prenderò brutto lucertolone, non mi scapperai un’altra volta. Adesso vengo su e ti faccio a stelle e strisce, pensò tra sé e sé il piccolo Francesco, alzando il pugno a mo’ di sfida, completamente coinvolto nella lettura del suo supereroe preferito.

    «Francesco vieni a tavola» gridò la mamma.

    La lettura di Spiderman venne interrotta dalle grida della mamma che cercava di attirare la sua attenzione per invitarlo a sedersi a tavola e così pranzare finalmente insieme, visto che in quel giorno non doveva recarsi al lavoro.

    Tutto era pronto: gli spaghetti al ragù ancora fumanti sul piatto, l’aranciata nel suo bicchiere preferito e il ketchup da mettere sulle patatine fritte, così come aveva chiesto il suo piccolino.

    Solleticare il suo palato era l’unico modo per distoglierlo dalla lettura, ma nel contempo voleva renderlo felice. Accontentarlo in queste piccole richieste, significava molto per lei, era come ripagarlo dei disagi che gli procurava durante la settimana a causa dei suoi snervanti turni lavorativi, visto il suo impiego in un grande supermercato nel centro commerciale più grande della città.       

    Nerina si sentiva spesso in colpa; abbandonare un bambino di otto anni, quasi nove fra tre mesi, senza la presenza genitoriale per molte ore al giorno, la faceva sentire una madre snaturata, una donna senza sentimenti che non aveva cura del suo unico figlio.

    Tuttavia, per quanto potesse scervellarsi, non vi erano altre possibili soluzioni!

    «Mangia tutto, mi raccomando» disse la mamma. «Dai, spegni la tv altrimenti ti ci vogliono dieci ore per mangiare. Quando segui i cartoni non capisci più nulla!»

    Nerina aveva trentasei anni ed era figlia unica.

    Era rimasta sola in quanto i suoi genitori erano deceduti in un incidente stradale, dopo qualche giorno dal suo ventiquattresimo compleanno.

    Aveva conosciuto, sin da giovane, cosa fosse la sofferenza, il sentirsi soli, le difficoltà di andare avanti senza un quattrino o qualcuno su cui fare riferimento. Era stata costretta a fare ricorso a tutte le sue forze per superare questi difficili momenti, ma grazie ai suoi sacrifici, era uscita vittoriosa da questa sfida, riuscendo a ricavarsi anche una discreta autonomia economica.

    Eppure, quando tutto sembrava girare storto nella sua vita, ecco che, in una serata, il suo destino cambiò; conobbe l’uomo della sua vita, il Principe Azzurro che aveva sognato fin da piccola e che credeva potesse esistere solo nei film.

    Moro, bello, muscoloso, un fisico statuario che, nel tempo, si era rivelato dolce, colto, sensibile, accondiscendente alle sue più impensabili richieste e che la amava alla follia.

    Antonio le aveva fatto perdere la testa, al punto che tutto ciò che ruotava attorno a lei nel mondo, sembrava nemmeno più esistere.

    A Nerina veniva spesso in mente quella splendida serata a lume di candela addolcita da una romantica cena: il mazzo di fiori che le aveva regalato, le ostriche bagnate da un prosecco millesimato e le fragole intinte nella cioccolata che colava sui loro corpi nudi.

    La voglia di stringersi l’uno all’altro, accaldati dal sudore della loro passione, con la paura di svegliarsi dal torpore e rendersi conto che invece era solo un sogno. E invece, proprio in quel momento, si sentì sussurrare in un orecchio di essere la donna della sua vita e che la amava alla follia.

    Non ci volle molto per convincersi che il karma di una persona non poteva essere per tutta la vita negativo. La ruota gira e, quando meno te lo aspetti, arriva la felicità che attendevi da tanto tempo.

    Nel desiderio di sentirsi sua, Nerina si dimenticò di usare il contraccettivo e così rimase incinta di Francesco, il suo solo e unico vero amore.

    Infatti, Antonio era così pazzamente innamorato di Nerina che, una volta saputo che sarebbe diventato papà, dal dolce adulatore che era, scomparve nel nulla.

    Nerina non voleva credere alla dura realtà; lo cercò dappertutto, ma di lui non riuscì a trovare più alcuna traccia; anche le generalità e le informazioni che le aveva rivelato si erano dimostrate del tutto false. Probabilmente, il suo intento era quello di spassarsela con quella ragazza, non certo di avere un figlio e di sentirsi obbligato a contribuire al suo mantenimento.

    Nerina, purtroppo, si era trovata al bivio: doveva decidere in fretta se tenere quel figlio o abortire. Non sapeva più cosa fare, sicuramente abortire avrebbe reso le cose più facili, ma non aveva fatto i conti con la sua forza emotiva quando, nell’esplosione ormonale, iniziò a percepire che una vita stava crescendo dentro di sé.

    Anche se non aveva ancora capito quanto intenso e profondo fosse il suo amore di mamma, capì che doveva tenerlo quando vide il suo cuoricino battere nel corso della sua prima ecografia. L’emozione di vedere quell’essere, grande come un fagiolino, era stata così intensa che l’aveva portata a maturare tale decisione. Sicuramente crescerlo da sola sarebbe stata una cosa non semplice, ma di sicuro, la sua forza e determinazione l’avrebbe aiutata a superare anche questa nuova sfida che la vita le aveva appena presentato davanti.

    Da allora, di Antonio, non aveva più saputo nulla, anzi, non voleva proprio avere sue notizie, visto il modo in cui si era comportato. Così, si era affrettata a cambiare comune di residenza, per nascondersi e far perdere definitivamente ogni sua traccia, trovando in Verona un’opportunità lavorativa e abitativa dove poter far crescere il suo ometto.

    Aveva già vissuto negli anni precedenti in quella città, per molto tempo, con i suoi genitori, prima di trasferirsi nel veneziano dove aveva conosciuto Antonio. Tornarvi, era come rientrare a casa e avere una seconda opportunità di vita, questa volta con il suo piccolino.

    Non aveva mai rivelato ad Antonio le sue origini, così come non gli aveva mai riferito di avere precedentemente vissuto nella città scaligera; ciononostante, il timore e l’ansia che da un giorno all’altro potesse ricomparirgli davanti, facendo valere anche dei diritti, quale genitore sul figlio minore, non la faceva dormire di notte.

    Però una cosa era certa!

    Se non avesse vissuto quella esperienza negativa, Francesco non sarebbe mai nato e lei non avrebbe mai potuto ricevere il dono più grande che la vita le potesse regalare.

    Il pensiero di avere con sé il frutto di un amore mal vissuto e corrisposto, le faceva accrescere ancora di più il profondo sentimento di amore nei confronti del figlio, consapevole suo malgrado, delle difficoltà di farlo crescere senza una figura paterna di riferimento.

    Ora l’impresa più difficile era quella di colmare di affetti quel piccolino, al punto da non fargli assolutamente pesare l’assenza di un papà al suo fianco.

    Su questo obiettivo, Nerina aveva accentrato la sua missione di genitore.

    III

    «Aiuto, aiuto! Ci hanno scoperto, ci hanno scoperto!»

    Il grido di Fatima tuonò così impetuoso che Ammar, impietrito dallo spavento, lasciò d’istinto le mani dal volante, perdendo il controllo della guida del furgone che iniziò a zigzagare verso il bordo della carreggiata.

    Alì non si fece prendere dal panico; in men che non si dica, allungò il braccio sinistro e imbracciò con fermezza il volante del mezzo riuscendo a tenerlo in strada. Volse lo sguardo verso Ammar, sembrava quasi ipnotizzato, completamente smarrito. L’angoscia lo aveva sovrastato, aveva un tremore alle mani che le faceva oscillare in maniera concitata e disordinata ma, per fortuna, il tutto durò solo una frazione di secondo, perché il forte grido del suo amico lo fece ritornare alla realtà.

    Non avevano capito cosa fosse successo, il perché di quell’allarme di Fatima. Tutti si guardavano attorno, cercavano di scrutare l’orizzonte che si proiettava nel loro campo visivo, ma il terrore che si era scatenato aveva gelato loro il sangue, aveva paralizzato le loro lingue. Nessuno era così audace da avvicinarsi al proprio finestrino per vedere cosa stesse succedendo realmente per la paura di trovarsi un uomo che potesse imbracciare un’arma contro.

    «Cosa c’è Fatima, chi ci ha scoperto?» chiese Stephanie, facendosi coraggio con voce tremolante.

    «Una macchina, una macchina dietro di noi, ci stava sfanalando con gli abbaglianti perché voleva che ci fermassimo» replicò la bimba con un pianto convulso e singhiozzante, mentre la mamma cercava di calmarla dall’agitazione che l’aveva pervasa.

    «Ma quale macchina?» chiese Afrah, nel tentativo di capire qualcosa in più di quanto stava dicendo.

    «Quella che era dietro di noi, che ci è venuta vicino al furgone e che ha sparato i suoi abbaglianti contro» rispose Fatima ancora scossa.

    «Ma quella che ci ha appena sorpassato?» domandò Ammar, riprendendo il polso della situazione.

    «Non lo so, non la vedo più, non c’è più!» replicò la fanciulla, con voce sommessa e dispiaciuta di aver provocato questa triste situazione.

    «Calmiamoci tutti, era solo una macchina che ci ha sfanalato per sorpassarci. Probabilmente si è avvicinata troppo a noi, ma è già scomparsa da quanto corre» esclamò Alì, cercando di riportare un po' di serenità all’interno del furgone.

    Ormai, l’aria era tesa; nessuno voleva parlare o dormire durante il viaggio.

    Nel congegnare il piano di fuga Ammar e Alì si erano convinti che sarebbe bastato scappare da al-Raqqa per restituire il sorriso ai volti dei loro familiari e, invece, dovettero arrendersi all’evidenza.

    Nessuno aveva voglia di sorridere!

    Non c’era nulla di cui essere felici.

    È vero che si fuggiva dall’assedio dell’Isis, dove il loro futuro ormai era compromesso, così come del resto, anche la loro stessa vita, ma contestualmente si fuggiva dalla città nella quale avevano costruito il loro nido d’amore, erano cresciuti i loro figli e avevano intrecciato le loro amicizie.

    Ora, in un attimo, era sparito tutto, nel perseguimento di una chimera, per poter ripartire da zero e iniziare nuovamente a sognare ancora come una volta. Ciò che tutti avevano ormai dimenticato, era sognare, così come facevano da bambini: quell’ingenuità, era stata profanata negli occhi dei loro figli.

    Le scene inumane alle quali avevano dovuto assistere o di cui avevano

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