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Ascesi con un Maestro Himalayano: L'Autobiografia di uno Yogi
Ascesi con un Maestro Himalayano: L'Autobiografia di uno Yogi
Ascesi con un Maestro Himalayano: L'Autobiografia di uno Yogi
E-book483 pagine6 ore

Ascesi con un Maestro Himalayano: L'Autobiografia di uno Yogi

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Info su questo ebook

Prima di accompagnarvi in ​​questo viaggio avventuroso, dalla costa meridionale dell'India alle vette innevate del leggendario Himalaya a nord e viceversa, in cui incontreremo persone straordinarie e faremo esperienze insolite, spesso incredibili, vorrei rivolgere una Poche cose Finora, ho tenuto per me la maggior parte delle esperienze che desc

LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2022
ISBN9788194718789
Ascesi con un Maestro Himalayano: L'Autobiografia di uno Yogi
Autore

Sri M

Sri M was born in Tiruvananthapuram, Kerala. At the age of nineteen and a half, attracted by a strange and irresistible urge to go to the Himalayas, he left home. At the Vyasa Cave, beyond the Himalayan shrine of Badrinath, he met his Master and lived with him for three and a half years, wandering freely, the length and breadth of the snow clad Himalayan region. What he learnt from his Master Maheshwarnath Babaji, transformed his consciousness totally. Back in the plains, he, as instructed by his Master, lived a normal life, working for a living, fulfilling his social commitments and at the same time preparing himself to teach all that he had learnt and experienced. At a signal from his Master he entered the teaching phase of his life. Today, he travels all over the world to share his experiences and knowledge. Equally at home in the religious teachings of most major religions, Sri M, born as Mumtaz Ali Khan, often says "Go to the core. Theories are of no use" Sri M is married and has two children. He leads a simple life - teaching and heading the Satsang Foundation, a charitable concern promoting excellence in education. At present he lives in Madanapalle, Andhra Pradesh, just three hours from Bangalore.

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    Anteprima del libro

    Ascesi con un Maestro Himalayano - Sri M

    Ringraziamenti

    Desidero esprimere la mia profonda gratitudine agli amici che con il loro aiuto hanno reso possibile la pubblicazione di questo libro.

    A Kaiser Karachiwala, che lavorando indefessamente e con grande cura è riuscito a dare un senso alle mie note, spesso confuse, e le ha trasformate in un manoscritto leggibile.

    A Balaji e Shreedhar, che in modo così generoso ed efficiente, si sono assunti il compito della pubblicazione e degli aspetti commerciali.

    A Shobha Reddy, che dal principio si è assunta la responsabilità delle fotografie e ha costruito un formidabile archivio fotografico, nonostante la mia riluttanza ad approvare quest'impresa, e che con grande attenzione e con dedizione mi ha aiutato a riordinare le immagini che troverete in questo libro.

    A Roshan, mio figlio, e al mio amico Radha Mahendru, che mi hanno aiutato in particolare a selezionare le fotografie ed elaborare l'impaginato.

    A Vijay Bhasker, che si è occupato del lavoro di ufficio.

    Infine, a tutti i miei cari amici, il cui grande desiderio di conoscere i segreti e sconosciuti capitoli della mia vita, mi ha spinto più di ogni altra cosa a cominciare questo libro.

    Grazie a ciascuno di voi.

    Premessa

    Prima di portarvi con me in un avventuroso viaggio di andata e ritorno dalle coste meridionali dell'India ai picchi innevati della mistica Himalaya, incontrando individui straordinari e condividendo esperienze incredibili ed inusuali, vorrei dire qualche parola per mettere questo racconto nella giusta prospettiva.

    Fino ad ora, avevo serbato nel mio cuore la maggior parte delle esperienze descritte, senza far trapelare nemmeno agli amici più cari se non un vago accenno a ciò che giaceva nascosto nelle profondità della mia coscienza.

    Perché sono stato così restio al riguardo e perché adesso, come si suol dire, ho deciso di vuotare il sacco? Risponderò adesso a queste domande.

    Il mio Maestro Babaji, nonostante avesse accennato che un giorno avrei scritto un’autobiografia, non mi ha dato il via libera per farlo, cosa che io attendevo da lui, fino a due anni fa. E anche allora, prima di iniziare riluttante a scrivere, mi sono dibattuto per oltre sei mesi, principalmente per due ragioni: innanzitutto, temevo che il sincero aspirante spirituale venisse catturato dagli aspetti fantastici di questa storia affascinante e potesse perdere di vista gli aspetti pratici e necessari al cammino spirituale; inoltre, temevo che un lettore critico, trovando alcune parti della narrazione incredibilmente strane, potesse pensare che tutto il racconto fosse il frutto della fantasia. Alla fine mi sono deciso a scrivere questa biografia sulla base delle considerazioni che seguono.

    Per prima cosa, mi sono reso conto che a me spettava scrivere quello che avevo sperimentato e che dovevo lasciare alla piccola minoranza dei lettori scettici la decisione di accettarlo o rifiutarlo. Ritenevo che sarei stato ingiusto nei confronti della maggioranza dei lettori se avessi esitato a raccontare la mia storia per paura di una minoranza.

    Secondo, dopo la pubblicazione dell’Autobiografia di uno Yogi sono comparse poche autentiche biografie spirituali e gli autori delle poche pubblicate non sono più vivi e quindi disponibili al pubblico. Inoltre, per quanto autentica sia l’autobiografia di Swami Yogananda, egli non ha trascorso molto tempo nell'Himalaya, quindi ho pensato che fosse importante raccontare le mie esperienze, specialmente quelle avvenute nell’Himalaya, ora che posso incontrare di persona i lettori.

    Terzo, volevo dimostrare che grandi Maestri come Babaji e Sri Guru influenzano le maree della evoluzione spirituale silenziosamente, dietro le quinte del palcoscenico del mondo, anche se pochi sono a conoscenza della loro esistenza.

    Mi appello al lettore affinché, se lo ritiene necessario, tralasci quelle parti che appaiono troppo fantastiche per essere vere e si soffermi sul resto, in modo da non perdere i grandi insegnamenti di Sri Guru e Babaji. Per quanto riguarda il mio Guru posso solo ripetere quello che disse Swami Vivekananda¹ del suo: Una particella di polvere dei suoi piedi benedetti avrebbe potuto creare migliaia di Vivekananda. Sostituite M a Vivekananda e saprete quello intendo.

    Quindi, cari lettori, seguitemi in questo viaggio meraviglioso.

    Che la benedizione dei Maestri vi accompagni.

    Iniziamo il viaggio

    1. Il Principio

    Quarant'anni fa, un giovane di diciannove anni, proveniente dal Kerala, lo stato più meridionale dell'India, fu trovato mentre era immerso in profonda meditazione nella caverna di Vyasa² vicino a Badrinath, nell’Himalaya, al confine con la regione indo-tibetana. Persino a quei tempi, non era una cosa comune che un adolescente si ritirasse sull’Himalaya per meditare.

    Ciò che rese l’episodio quasi incredibile fu il fatto che il giovane in questione non era nemmeno di religione indù. Come sia diventato uno yogi e quale mondo misterioso ed affascinante di inimmaginabili potenza e grandiosità si sia aperto davanti a lui, questa è la storia della mia vita. Ero io quel giovane uomo.

    Se me lo permettete, inizierò dal principio.

    Camminiamo assieme il più velocemente possibile verso la dimora delle nevi eterne. Lì, tra i picchi himalayani coperti di ghiaccio, viveva il mio amico, filosofo e guida - il mio carissimo insegnante e Maestro - la cui grazia e benevolenza mi ha permesso di imparare a volare in alto nelle più vaste dimensioni della coscienza.

    Le parole non rendono giustizia alla gloria di quelle sfere ma, in fondo, sono i soli strumenti che abbiamo a nostra disposizione. Quindi, cari amici, iniziamo il nostro viaggio, camminando nelle fitte foreste, descrivendo i panorami bellissimi, i fiori brillanti che ondeggiano gentilmente, gli uccelli dal canto melodioso, il grande fiume che scorre impetuoso, gli alberi alti che si ergono silenziosi e così via andando, fino a quando, girato l'angolo, ci troviamo all'improvviso di fronte alla grandiosa e imponente bianchezza dell'Himalaya innevata e rimaniamo privi di parole dallo stupore. Gli antichi Rishi³ non dicevano forse: Yad vaacha na abyuthitam, ‘il potere e la gloria che nemmeno le parole possono comprendere’?

    Sono impaziente come voi di portarvi faccia a faccia con Parvati⁴, la figlia riservata di Himmavan, Signore delle montagne. Ma, prima di cominciare la nostra ascesa, dobbiamo preparare alcuni bagagli necessari: lo farò senza sprecare tempo e mi limiterò all'essenziale.

    Sono nato a Thiruvananthapuram, ‘la città del Signore Vishnu⁵ che dorme sul serpente Anantha’. In sanscrito, Anantha significa anche ‘senza fine, infinito’. Trivandrum, come era stata chiamata dagli inglesi che governarono l'India per centinaia di anni, è una città sulla costa, la capitale del Kerala, nella punta meridionale dell'India. Nel 1948 questa regione assomigliava più a un villaggio cresciuto a dismisura, con le sue colline, i suoi fiumi e il suo verde rigoglioso.

    Sono nato il 6 novembre 1948 in una famiglia di emigranti Pathan⁶, i cui antenati erano venuti in Kerala come mercenari per unirsi all’esercito del Maharaja di Travancore, il potente Marthanda Varma. Per usare un'espressione familiare, questa è la tipica storia ‘dalle stalle alle stelle’, ma in un contesto particolare: un ragazzo normale che raggiunge vette himalayane nell’espansione della coscienza, grazie alla sincerità, all’attenzione concentrata, alla volontà di rischiare e alla determinazione a non accettare il fallimento.

    Ci fu un altro fattore che, ovviamente, considero come il più importante: la guida e le benedizioni di un grande Maestro, il cui amore e affetto senza limiti mi aiutarono a intraprendere questo viaggio attraverso territori largamente inesplorati; un Maestro che non limitò mai la libertà di porre domande, che non mi tenne mai per mano troppo a lungo per non farmi diventare pigro e dipendente e che perdonò tutte le mie debolezze e le mie reazioni compulsive. Come potrei mai dimenticare questo grande essere, padre, madre, Maestro e caro amico, tutto in una persona sola?

    Fu la compassione che lo portò ad entrare nella mia vita quando io avevo appena nove anni oppure c'era un legame che andava oltre l’estensione temporale della mia attuale esistenza? Lascio a voi la decisione alla fine di questa storia.

    Babaji⁷ (padre), come chiamavo il mio Maestro, diceva spesso: "Sii semplice e diretto, senza giri di parole. Vivi nel mondo come chiunque altro: la grandezza non deve mai essere pubblicizzata, coloro che si avvicineranno la scopriranno da soli. Sii un esempio per i tuoi amici e conoscenti di come si possa vivere felici in questo mondo e allo stesso tempo sintonizzati con l’abbondante energia e gloria della consapevolezza infinita.

    Non posso però astenermi dal menzionare alcuni fatti risalenti a prima di quel giorno predestinato in cui il Maestro benevolente entrò nella mia vita, sei mesi dopo il mio nono compleanno.

    Fin dalla nascita avevo la tendenza a incrociare una gamba sopra l'altra: potete vedere questa posizione nella prima foto che mi venne fatta solo due mesi dopo la nascita. Quest’abitudine si protrasse mentre crescevo e trovai che la classica posizione a gambe incrociate degli yogi era la più confortevole per sedermi. Anche oggi, ovunque io vada, amo sedermi a gambe incrociate, persino a tavola, se gli ospiti non hanno obiezioni.

    Dall'età di cinque anni e mezzo fino all'età di dieci, soffrii d’incubi terribili e ricorrenti. Verso mezzanotte, vedevo nel sonno un mostro gigantesco e semiumano, con denti ed unghie lunghe ed affilate, che assomigliava a una danzatrice di Kathakali⁸ e che cercava di afferrarmi e portarmi via. Mezzo addormentato, scappavo fuori di casa con il mostro al mio inseguimento gridando: Devo andare via di qui!

    I miei genitori mi rincorrevano e mio padre era l'unico che riuscisse a svegliarmi da quello stato di trance, gridandomi il mio nome nelle orecchie. In ogni modo, quell’apparizione non riuscì mai a catturarmi. Furono provate varie cure, incluso l'indossare talismani, ma non ebbero effetto. I sogni finalmente sparirono dopo il mio primo incontro con il Maestro; trascorsero molti anni prima di capire da che cosa stavo scappando e dove volevo andare.

    La mia nonna materna aveva legami con la cultura Sufi⁹ e mi intratteneva con racconti di questa tradizione. La sua storia preferita (come pure la mia) era quella della vita di un santo sufi di nome Peer Mohammed Sahib, che visse secoli fa in un piccolo villaggio chiamato Tuckaley, in quello che era allora il regno di Travancore. Come il famoso santo di Varanasi, Kabir Das¹⁰, Tuckaley Peer Mohammed Sahib era anch’egli un tessitore. Mentre lavorava al telaio, cantava canzoni in Tamil¹¹ piene di devozione e di intuizioni mistiche. In Tamil Nadu queste canzoni, conosciute come Paadal, sono ancora famose in alcuni gruppi di sufi . Quando invecchiò divenne cieco e veniva accompagnato da un giovane che era suo discepolo. C’era un episodio della vita di questo santo sufi in particolare che mia nonna amava raccontare ed io ascoltare.

    Avendo appreso che nel sud dell'India viveva un sant'uomo, due indovini arabi andarono a visitarlo. Rimasero compiaciuti di ogni cosa, ad eccezione del fatto che quell'uomo non avesse alcun desiderio di intraprendere il pellegrinaggio alla città santa della Mecca, un atto dovuto per ogni mussulmano fisicamente abile, in quanto parte dei suoi doveri religiosi. Il santo di Tuckaley giustificava il suo non andare in pellegrinaggio dicendo che era cieco e che quindi non poteva affrontare un viaggio così lungo, ma insisteva nel dire che aveva visto il pellegrinaggio e che la Mecca era proprio lì dove lui viveva. Secondo i visitatori arabi questo era blasfemia, ma la attribuirono al delirio di un folle. Peer Mohammed non rinunciava però alle sue affermazioni, quindi ordinò al suo discepolo di portare un vecchio vaso di terracotta pieno d’acqua e chiese ai visitatori arabi di guardarvi dentro. Uno alla volta, entrambi videro nel vaso l’intero pellegrinaggio alla Mecca e, con sommo stupore, scorsero sé stessi che circumdeambulavano la Kaaba¹², accompagnati dal Santo tessitore. Si gettarono ai suoi piedi e diventarono suoi discepoli.

    Vicino alla tomba di questo santo si trova quella di un mio antenato paterno che fu anch’egli suo discepolo.

    Dai cinque ai nove anni, venni in contatto con l’Induismo e il Cristianesimo. Nonostante l’età, iniziai a rendermi conto di quanti pregiudizi avessero gli appartenenti a una religione nei confronti dell’altra. Per esempio, mia nonna, che andava in estasi parlando dei santi mussulmani, aborriva sia la religione che le divinità induiste. Mi metteva in guardia dal mangiare cibo nelle case dei nostri vicini indù, per paura che il cibo fosse stato offerto alle loro divinità che lei considerava profane. Spesso si riferiva agli indù chiamandoli idolatri e credeva che l’avvento dell’Islam fosse la cosa migliore accaduta all’umanità. I buoni mussulmani si assicuravano un posto in paradiso.

    Venni mandato in una scuola della media borghesia inglese, gestita da suore di un qualche ordine. Qui venivamo incoraggiati, ma non costretti, a farci il segno della croce quando passavamo davanti alla cappella e alla grotta della Vergine Maria e ci furono insegnati molti canti religiosi cristiani. Amavo il volto barbuto e gentile di Gesù come era raffigurato nei quadri appesi ovunque e rimasi sorpreso quando una suora ci insegnò che i mussulmani erano adoratori del sole e gli indù adoravano le creature del male.

    I nostri vicini erano tutti indù e, quando andavo nelle loro case, rimanevo affascinato dal grande numero di divinità che adoravano. Mi chiedevo spesso come mai una signora appartenente a una famiglia di brahmini¹³ ortodossi mi volesse molto bene e amasse rimpinzarmi di dolci, mentre mia nonna mi proibiva di mangiarli. D’altro canto, c’erano vicini indù attratti dal biryani¹⁴ di montone che mia madre cucinava e distribuiva ai vicini Nair nel periodo del Ramazan¹⁵ e del Bakri Id¹⁶. Io, invece, desideravo idli¹⁷, sambar¹⁸ e il cibo vegetariano tipico della cucina malayali¹⁹, servito sulle foglie fresche di banana.

    Il mio primo vero contatto con le pratiche devozionali indù, oltre alle immagini e ai quadri degli dei che venivano adorati sui piccoli altari nelle case dei vicini, fu una processione kirtan²⁰ che passò all’improvviso di fronte a casa nostra una domenica mattina. Ero seduto vicino alla cucina, nell’intento di rimettere assieme i pezzi di un giocattolo che avevo smontato per capire come funzionasse, quando il ritmo commovente (ritmo vadishyaami) dei tocchi del mridanga²¹, accompagnati dal suono dolce dei cembali, mi coinvolse totalmente.

    A torso nudo e indossando dei pantaloncini, gettai via il giocattolo e corsi all’ingresso, mentre il cuore mi batteva forte. Una strana scena si presentò ai miei occhi. C’erano quattro uomini di mezza età che cantavano e ballavano sulla strada; indossavano tutti dei perizomi corti, arrotolati in vita, ad eccezione di uno. Questi era un bell’uomo alto, con la pelle chiara, la barba fluente, lunghi capelli e una ghirlanda di fiori bianchi attorno al collo; indossava un kaupin o perizoma sottile color ocra che copriva a malapena i genitali, il resto del corpo era completamente nudo. Tutti e quattro erano a piedi nudi. Uno aveva un mridanga al collo e, mentre batteva con entrambe le mani ad occhi chiusi, scoppiava di continuo in risate estatiche. Un altro sembrava completamente assorto nel suonare un paio di piccoli cembali e dondolava la testa da un lato all’altro. Il terzo andava di porta in porta, a ricevere le offerte di frutta, verdura e qualche volta anche di denaro, date con grande rispetto dai vicini in piedi sulle porte di casa. Il quart’uomo, quello alto e barbuto, dava l’impressione di essere il capo del gruppo. Guidava il coro, mentre ballava cantando ‘Hare Rama Hare Rama....’ al ritmo perfetto del mridanga e dei cembali, con gli occhi chiusi e le lacrime che gli segnavano il volto: era in uno stato di semincoscienza. Vidi alcuni vicini che gli si avvicinarono e che si prostrarono ai suoi piedi.

    Una strana felicità mi riempì il cuore e ricordo che anch’io iniziai a ridere. Quindi, corsi in casa per cercare una monetina, di cui ora non ricordo il valore, ritornai sulla porta, attraversai la strada e la depositai nel sacchettino tenuto in mano dall’uomo che raccoglieva le offerte. Fu allora che sentii la voce di mia nonna che mi chiamava. Mentre tornavo velocemente verso casa, sentendomi in colpa per aver fatto qualcosa che non dovevo, mi voltai per dare un ultimo sguardo allo strano uomo seminudo che ballava sulla strada; i suoi occhi si aprirono e i nostri sguardi si incrociarono per un istante prima che rientrassi in casa.

    La processione proseguì; la musica svanì lentamente e scese uno strano silenzio. Mia nonna non approvava quello che avevo fatto, ma lasciò correre, limitandosi a un piccolo rimprovero. Molti anni dopo scoprii che l’uomo in estasi che avevo visto era Swami Abhedananda, che viveva in un ashram²² non lontano da casa mia. In seguito, quando ero studente al college, ebbi molte occasioni piacevoli di incontrarlo, ma di questo parlerò in seguito.

    All’incirca nello stesso periodo lo zio di mia madre, che era un appassionato fotografo, mi accompagnò ad assistere al festival di Aratu²³ nel Forte Orientale. Il vecchio forte era stato costruito dai Maharaja attorno al grande tempio di Anantha Padmanaba Swamy, la loro divinità tutelare. Come ho già rammentato, il nome originale della città di Trivandrum, Thiruvananthapuram, deriva dal nome di questa divinità, che viene descritta come quella ‘dal cui ombelico fuoriesce il loto’. Ogni anno il complesso del tempio viene decorato da festoni, fiori e luci e il pantheon intero delle divinità indù è in mostra nella forma di statue a grandezza umana o superiore, adornate da costumi colorati e gioielli. Mentre osservavo i gopuram²⁴ all’ingresso dell’antico tempio, mi sembrò che qualcosa si muovesse nell’ombelico e fui catturato da un incredibile desiderio di entrarvi, anche se, a sei anni, non sapevo cosa vi si trovasse all’interno. Lo zio materno mi disse che non ci avrebbero permesso di entrare, perché non eravamo di religione indù.

    Ricordo chiaramente lo zio che indicava un’insegna dipinta di bianco, che recitava in inglese e malayalam: L’ingresso è vietato ai non indù. La discriminazione tra due comunità costituite dagli stessi esseri umani mi sconcertava; all’epoca non avevo altra possibilità se non quella di accettare la sconfitta e tornare indietro. Come potevo sapere allora che, con il passare del tempo e con il mio crescere, sarei stato testimone delle profonde divisioni tra le comunità create dall’ortodossia in nome della religione?

    Lo zio materno mi comprò delle caramelle alla menta per rallegrarmi e mi portò alla porta meridionale del palazzo del governo, a quattro chilometri di distanza. Lì, non molto lontano dall’ingresso, un uomo leggermente in carne, con capelli ingrigiti e il volto gradevole non rasato, era sdraiato su di un letto, completamente nudo ad eccezione di un mundu²⁵ che copriva metà del suo corpo. Mi parlò dolcemente, mi strinse la mano e mi diede un dolce; mi disse che era felice di vedermi indossare i calzoncini rossi.

    Più tardi venni a sapere che era il leader comunista veterano A.K. Gopalan, che aveva intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro il governo di allora. Lo zio materno, che aveva simpatie comuniste, mi aveva portato a conoscere questo personaggio di cui aveva un grande rispetto. Forse c’era qualcosa di magico negli occhi dolci di Mr. Gopalan o nel suo tocco gentile da far sì che venissi attratto da Karl Marx e da Il Capitale negli anni del college.

    A proposito di magia, mi ricordo chiaramente molti momenti speciali, alla sera, seduto nel cortile posteriore di casa a guardare le nuvole. Nella mia immaginazione, assomigliavano a vette innevate che attendevano di essere scoperte. Molto più tardi, quando vidi un’immagine dell’Himalaya in un libro in un caffè, mi chiesi: Non l’ho forse vista prima nelle nuvole, seduto sul retro di casa, quando avevo solo sei anni?

    Per concludere il capitolo, ecco una storia che mi raccontò il mio Maestro mentre sedevano in un luogo tranquillo sulle rive del fiume Bhagirathi, lungo il suo percorso serpeggiante giù dall’Himalaya. Penso che sia importante dirlo adesso, prima di incominciare il prossimo capitolo di questo viaggio, ma vorrei ripetere quello che mi disse il Maestro: Trai pure le tue conclusioni dalla storia che ti sto per raccontare, ma non avere fretta di farlo.

    Sul retro del tempio di Badrinath, il sacro santuario himalayano, che si trova a 4.000 metri sul livello del mare, ci sono piccole e grandi caverne abbarbicate sulla cima di dirupi quasi inaccessibili. Il tempio è aperto ai pellegrini solo durante i mesi estivi, mentre per tutto il resto dell’anno l’intera zona è coperta dalla neve. Persino i brahmini Nambutiri del Kerala, che sono i preti in carica fino dai tempi di Shankaracharya (un santo che secoli fa ristrutturò il tempio e che era anche lui del Kerala) scendono al villaggio di Joshi Mutt e attendono la successiva stagione di pellegrinaggio. Solo qualche essere straordinario rimane a vivere e a meditare nelle caverne anche durante l’inverno.

    Un secolo fa, uno di questi esseri straordinari sedeva in una di queste caverne, nudo ad eccezione del perizoma e assorto in profonda meditazione sul Sé interiore. Aveva la pelle chiara ed era bello, con i capelli fluenti e la barba nera; mentre i suoi occhi erano chiusi, un sorriso pacifico ne illuminava il volto immerso nella gioia della comunione interiore. Il giovane yogi, che aveva solo diciannove anni, proveniva da una distinta famiglia di studiosi dei Veda della città di Varanasi. I suoi antenati erano stati discepoli del leggendario yogi Sri Guru Babaji, che si crede abbia mantenuto la sua forma fisica per centinaia di anni, fino ai giorni nostri. Il padre di questo giovane, lui stesso discepolo di Babaji, aveva affidato suo figlio al grande yogi alla tenera età di nove anni. Da quel momento il ragazzo aveva viaggiato in lungo e in largo nell’Himalaya con il suo Maestro, che non aveva fissa dimora; all’età di diciotto anni aveva raggiunto il livello di yogi e da allora aveva girovagato in solitudine tra i picchi innevati di Kedar e di Badri.

    Mentre il nostro giovane yogi sedeva perfettamente immobile nello stato yogico chiamato samadhi²⁶ uno strano dramma stava per svolgersi davanti a lui. Arrampicandosi sul ripido sentiero roccioso, un anziano dall’aspetto insolito per quella zona era arrivato sulla roccia piatta antistante alla caverna. Il turbante verde, la tunica sporca di terra e oramai ridotta a uno straccio, il rosario attorno al collo e la barba colorata con l’henné indicavano chiaramente che si trattava di un fakir²⁷ mussulmano.

    Mani, braccia e gambe, così come le altre parti del corpo esposte, erano coperte di tagli e lividi, e il sangue fuoriusciva dalle ferite. Infreddolito e affamato, era prossimo allo svenimento, ma non appena pose gli occhi sul giovane yogi seduto nella caverna, l’espressione di dolore sul volto gli si mutò in un sorriso e poi in una risata isterica. Lode ad Allah urlò e poi con un sospiro, dimentico del dolore e della sofferenza, si avvicinò allo yogi che continuava a meditare e si prostrò ai suoi piedi; poi, fece una cosa che nessun indù si sarebbe mai sognato di fare, abbracciò lo yogi. Questi, scosso violentamente dalla sua trance, aprì gli occhi e allontanò il vecchio da sé. Si soffiò il naso per allontanare il puzzo che proveniva dal corpo sanguinante e distrutto dal viaggio della strana creatura e gridò furibondo: Come osi? Stai lontano da me. La rabbia, quel veleno potente che risulta a volte difficile da controllare anche per i Rishi, era penetrata nel cuore dello yogi . Per favore, Signore lo pregò il fakir, dammi la possibilità di raccontarti la mia storia. Vattene disse lo yogi, devo andare a fare un bagno nell’Alakananda e riprendere la mia meditazione. Non c’è posto qui per una persona come te, un barbaro mangiatore di carne. Vattene via!

    Il fakir non si arrese: "Ti prego, ascoltami, o grande yogi: sono un sufi e sono il primo discepolo di un grande Maestro sufi dell’ordine di Naqshabandiya. Sei mesi prima di morire il mio Maestro mi disse: ‘Amico mio, sei riuscito a raggiungere il livello spirituale a cui io sono stato in grado di portarti. Sto per lasciare il mio corpo e non esiste maestro sufi che sia disposto a guidarti ad un livello superiore; ma non ti preoccupare. C’è uno yogi himalayano vicino a Badri: trovalo e chiedi il suo aiuto’. Tu sei quello a cui si riferiva e solamente tu mi puoi salvare.

    Per due mesi ho sopportato fatiche e disavventure enormi, prima di trovarti. Potrei morire per lo sforzo fatto, ma tu accettami come tuo discepolo e la mia anima se ne andrà in pace. Ti supplico!

    Non so nulla del tuo Maestro sufi, non ho ricevuto simili istruzioni e per di più non accetto discepoli rispose lo yogi, ancora arrabbiato. Adesso scostati dalla mia strada e non farmi ritardare ulteriormente il bagno nell’Alakananda devo riprendere la meditazione che hai interrotto così bruscamente. Sparisci!

    "Va bene, o grandi yogi" disse il fakir, se questa è la tua ultima parola, non desidero più vivere. L’unico sogno della mia vita è stato infranto. Salterò nel fiume e mi toglierò la vita. Possa il Dio supremo dell’universo guidarmi.

    Fa’ quello che vuoi disse lo yogi risoluto, ma non posso fare nulla per te. Sei fortunato, perché non ti ho maledetto per la rabbia. Vattene per la tua strada e lascia che io vada per la mia. Il fakir si congedò prostrandosi ai piedi dello yogi e, con le lacrime agli occhi, si avviò verso il fiume che scorreva molti metri più in basso. Con una preghiera sulle labbra e cercando l’aiuto dell’Essere Supremo, si gettò nell’acqua vorticosa e pose fine alla sua vita.

    Il giovane yogi, sicuro di aver fatto la cosa giusta e senza avere alcun rimorso, scese fino a un incantevole punto sulla riva del fiume e, cantando il mantra appropriato per la purificazione, si immerse nelle acque gelide; poi uscì dall’acqua e si asciugò con l’unico asciugamano in suo possesso. Sedendosi su di una roccia, ringraziò il fiume sacro per aver purificato il suo corpo e la sua mente e, mentre si apprestava a risalire alla caverna, udì la voce dolce e familiare del suo Maestro che lo chiamava: Madhu!

    Da dietro una roccia apparve il grande Maestro Babaji: sembrava che l’oscurità del tramonto imminente fosse improvvisamente illuminata dalla sua presenza radiosa. Alto, dalla pelle chiara quasi come un europeo, Babaji aveva lunghi e fluenti capelli castani ed era quasi glabro; sembrava un sedicenne. Il corpo muscoloso e forte era nudo, coperto solo dal perizoma; anche i piedi erano nudi e camminava con grande grazia e dignità.

    I suoi grandi occhi meditativi caddero sul discepolo Madhu: Che cosa terribile hai fatto, ragazzo mio disse a bassa voce.

    All’istante, la gravità del gesto appena compiuto lo colpi come un fulmine. Babaji fu l’unica parola che riuscì a pronunciare prima di scoppiare in lacrime e prostrarsi ai suoi piedi.

    Controllati, ragazzo, e vieni. Saliamo assieme alla tua caverna. Raggiunsero rapidamente la caverna e si sedettero l’uno di fronte all’altro. Non ti ho sempre detto di pensare, prima di parlare, a quello che stai per dire, a chi ti rivolgi e in quali circostanze ti trovi? Avresti dovuto avere un po’ più di pazienza e ascoltare con attenzione quello che il vecchio ti stava cercando di dire. Si giudica forse un santo dal suo aspetto esteriore? Come diceva il mio grande discepolo Kabir, dai più importanza al fodero che alla spada? Hai ferito e fatto soffrire un grande devoto del Signore; tutti i frutti di tanti anni di penitenze sono andati distrutti in un lampo. Un minuto di gentilezza è più prezioso di secoli di austerità. Devi riparare a tutto questo.

    Il discepolo aveva ripreso il controllo di sé ed era calmo: Qualunque cosa tu dica, Maestro, sono pronto a farla disse.

    "Per quanto riguarda il fakir continuò Babaji mi occuperò io dei suoi bisogni spirituali. Tu hai arrestato il tuo progresso spirituale a causa del tuo comportamento arrogante e l’unico modo di ritornare sulla giusta strada è quello di sottoporti allo stesso dolore e privazione che ha dovuto sopportare il fakir. Preparati a fare l’ultimo kriya²⁸, il kechari mudra²⁹ completo e fa’ uscire il prana³⁰ attraverso il centro ajna³¹. Guideremo la tua anima affinché nasca in circostanze tali da farti attraversare le stesse sofferenze di quel pover uomo. Fallo adesso".

    Il tuo desiderio è sempre stato un ordine, Babaji, e lo eseguirò immediatamente, ma ho un ultimo desiderio.

    Esprimilo pure, figliolo.

    Con la voce rotta dalla profonda emozione e le mani giunte in preghiera, il giovane discepolo disse: Maestro, ti amo con tutto il cuore. Promettimi che non mi abbandonerai, che non mi perderai di vista e che non permetterai che io venga travolto da pensieri ed occupazioni mondane. Ti prego, promettimi che veglierai su di me e mi riporterai ai tuoi piedi benedetti.

    Questo te lo prometto disse il grande Maestro, mentre gli occhi radiosi emanavano visibilmente una tenera compassione. Il mio discepolo più avanzato, Maheshwarnath, che tu non hai incontrato, verrà da te molto presto nella tua prossima esistenza. Lui sarà la tua guida. Ad un certo punto della tua vita futura, vedrai anche me e mi parlerai come stai facendo adesso. Ma ora ti devi affrettare, perché questo è il momento giusto per lasciare il corpo.

    Il sole era ormai tramontato e una bellissima luna d’argento divise le nuvole per testimoniare il gioco sacro che si stava svolgendo. Il giovane discepolo, con le lacrime negli occhi, si prostrò ancora una volta ai piedi della sua guida; Babaji allungò la mano destra, la pose sulla sua testa, lo benedì e all’istante scomparse nella notte. Madhu, rimasto solo, si sedette nella posizione del loto, fece qualche profondo respiro, praticò il kechari mudra che ne interrompe il fluire e, concentrandosi sul centro situato tra le sopracciglia, lasciò il corpo.

    Questa è la fine della storia che mi raccontò il mio Maestro Maheshwarnath.

    2. Visita del Maestro Himalayano

    È venuto il momento di raccontare del modo così inusuale in cui il mio Guru³² mi contattò e ristabilì il legame.

    Avevo poco più di nove anni, allora. Noi, cioè mia madre, mio padre, mia sorella, la mia nonna materna ed io, vivevamo in una casa abbastanza grande in Ambujavilasom Road, nel quartiere di Vanchiyoor, una zona tranquilla non molto lontana dal centro della città. La casa veniva chiamata Palliveedu e mio padre pagava un affitto di quaranta rupie che allora era considerato principesco. C’era poco spazio tra la porta d’ingresso e il cancello che si apriva sulla strada, ma il cortile sul retro era molto ampio - quasi mezzo ettaro - pieno di alberi di cocco e jackfruit e di rampicanti fioriti. Mia madre teneva delle galline ed era una gioia vederle zampettare assieme ai pulcini colorati di rosa; il colore serviva ad evitare che venissero rapiti dai nibbi. Avevamo anche un paio di capre.

    Mio padre, oltre ad essere un imprenditore edile, faceva affari anche con la carta riciclata. Per poter immagazzinare i cumuli di carta da macero raccolti dalle tipografie, era stata costruita una grossa rimessa nel cortile: era il nascondiglio preferito da me e mia sorella, che aveva due anni e mezzo meno di me. Qui giocavamo a nascondino o ci sedevamo semplicemente sui sacchi e ci divertivamo inventando nuove parole o rime senza senso.

    Il cortile era circondato da un muro di cinta molto basso, a malapena un metro, ed era fatto di terra battuta; al centro, ai rami di un vecchio albero di jackfruit, era appesa un’altalena. Ci divertivamo ad andare in altalena e molto spesso si univano a noi i figli dei vicini, che scavalcavano facilmente il muro di cinta. C’era anche un altro albero di jackfruit, forse più vecchio, che si ergeva nell’angolo destro del cortile: sotto quest’albero si svolse il fatto che cambiò completamente la mia vita.

    Mia sorella ed io frequentavamo il Convento dei Santi Angeli, che era raggiungibile a piedi. Quando tornavamo a casa, avevamo l’abitudine di lavarci, mangiare qualcosa e poi giocare in cortile fino al tramonto. A quell’ora, ci dovevamo lavare il viso, le mani e i piedi e sederci con nostra nonna per una breve preghiera in arabo e urdu³³; dopo i compiti e la cena, qualche volta la nonna ci raccontava delle storie delle Mille e una Notte oppure le sue esperienze; poi andavamo a letto.

    Quel giorno, mia sorella, che era più studiosa di me (non sorprende che sia diventata un funzionario amministrativo del governo indiano), smise di giocare presto e rientrò in casa prima del solito. Io camminavo in cortile senza fare nulla di particolare; l’imbrunire si avvicinava e la luce del sole si era tinta di un giallo morbido. Pensai che avrei potuto rientrare anch’io: forse avrei trovato qualcosa da mangiare in cucina. Invece, per un motivo inspiegabile, mi diressi verso il jackfruit nell’angolo estremo del giardino. C’era qualcuno in piedi sotto l’albero che mi faceva segno di avvicinarmi.

    In altre occasioni il mio istinto sarebbe stato quello di fuggire via, invece fui sorpreso dal fatto di non avere alcuna paura. Uno strano

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