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I carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna
I carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna
I carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna
E-book275 pagine3 ore

I carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna

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Info su questo ebook

Le origini dei riti ancestrali tramandati nei secoli e l’influenza degli antichi culti dionisiaci

Quando si parla del carnevale si pensa al divertimento e alla trasgressione. La maschera produce da sempre un alter ego, richiama una magia che fa regredire nel tempo risvegliando nell’inconscio il contatto con l’invisibile: una sorta di stato alterato della coscienza. In effetti questa festa ha un retaggio antico, con celebrazioni fortemente legate al dio Bacco, e prima ancora alla sua versione greca, Dioniso. Resti di queste celebrazioni si sono mantenuti in varie località della Sardegna, e questo libro li esamina nel loro insieme in relazione alla gestualità delle maschere, all’abbigliamento e agli strumenti tradizionali che portano con sé. Ne emerge un’eredità immateriale, a volte spettacolare, che affonda le sue radici in tempi lontani.

I riti spettacolari, tra suoni di campanacci e archetipi millenari nell’isola più misteriosa del mediterraneo

Tra le tradizioni da scoprire:

• sos colonganos e s’urtzu
• la maschera di Cuglieri
• la maschera di Neoneli
• ad Ardauli risorgono le vecchie maschere
• l’importanza dell’edera
• il fuoco di S.Antonio e i carri navali di Torpè
• l’impianto della vigna
• il fantoccio
• il bue muggente
• su battileddu
Dolores Turchi
Studiosa di tradizioni popolari, vive a Oliena (NU). Ha fondato e diretto per oltre vent’anni il semestrale di cultura «Sardegna mediterranea» e collabora con giornali e riviste stranieri. Con la Newton Compton ha pubblicato Le tradizioni popolari della Sardegna; Leggende e racconti popolari della Sardegna; Samugheo; Maschere, miti e feste della Sardegna; Lo sciamanesimo in Sardegna, I carnevali e le maschere popolari della Sardegna e ha curato Tradizioni popolari di Sardegna di Grazia Deledda.
LinguaItaliano
Data di uscita4 gen 2018
ISBN9788822718471
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    Anteprima del libro

    I carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna - Dolores Turchi

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Introduzione

    Parte prima

    Un carnevale dionisiaco

    I carnevali

    Parte seconda

    La più antica testimonianza delle maschere di Samugheo

    Austis - Sos Colonganos e s’Urtzu

    Le maschere di Gadoni

    La maschera di Neoneli - Sos Corriolos

    La maschera di Cuglieri - Sos Cotzulados

    S’Eritaju

    La maschera di Sorgono - Is Arestes

    Le maschere di Ortueri - Is Sonaggiaios

    Ad Ardaùli risorgono le vecchie maschere

    L’importanza dell’edera

    S’istranada

    Il fuoco di Sant’Antonio e i carri navali di Torpè

    Ollolai e sas Mascaras limpias

    La maschera di Lodè

    Lardajolu

    L’impianto della vigna

    Il fantoccio

    Il carnevale di Bosa

    Le maschere bianche

    Il carnevale di Oristano

    Il bue muggente

    I baccanali a Roma

    Conclusioni

    Bibliografia

    Tavole fuori testo

    em

    553

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1847-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Dolores Turchi

    I carnevali e le maschere tradizionali della Sardegna

    Le origini dei riti ancestrali tramandati nei secoli e l’influenza degli antichi culti dionisiaci

    omino

    Newton Compton editori

    Introduzione

    In ogni luogo e in ogni tempo le maschere furono considerate portatrici di prosperità e benessere. Quando bussavano alle porte delle case erano accolte con gioia e ogni famiglia dava loro quel che poteva. Non vi era alcun diniego perché si credeva che le maschere portassero una buona annata con l’arrivo della pioggia e la rigenerazione della terra.

    È capitato di frequente di domandare a dei giovani come si sentono quando indossano una maschera. La risposta è stata quasi sempre la stessa: «Non sono più io, mi sento un’altra persona», come se la maschera producesse un alter ego, una magia che fa regredire nel tempo risvegliando nell’inconscio il contatto con l’invisibile, una trasformazione che fa supporre uno stato alterato di coscienza.

    Ho cercato di approfondire in questo libro il carnevale sardo nei punti più oscuri e meno comprensibili a prima vista. Alcune particolarità, specialmente per quanto riguarda la gestualità, col tempo sono quasi scomparse, ma restano dei segni dell’antico rito ancora rilevabili dall’attento osservatore.

    In tutti i paesi dell’area mediterranea e non solo, inizialmente il culto di Dioniso era il medesimo, ma, come avviene per tutte le cose, col passare dei secoli ovunque vi sono state delle modificazioni, ogni comunità lo ha adattato alle proprie esigenze, cambiando nomi, abbigliamento, esibizioni.

    Dioniso è il nome che i Greci davano a Bacco, chiamato spesso Pater Liber dai Romani. Questa divinità era ritenuta fondamentale, essendo il dio della vegetazione, oltreché dell’estasi, perciò la necessità di un rito fertilistico, essenziale per l’umanità, è rimasta un po’ dovunque per cui in ogni carnevale tradizionale, specie nei luoghi più isolati, nelle comunità a carattere agrario quando si rappresentava la passione e la morte del dio era presente una vittima che veniva sacrificata in sua vece, ma che presto sarebbe rinata trasformando il pianto in riso, la tristezza in gioia, la morte in nuova vita.

    Un’esigenza che l’umanità ha avvertito da sempre osservando la natura e il ciclo annuale della vegetazione che si rinnova continuamente: il mito dell’eterno ritorno.

    Per questa ragione gli uomini hanno immaginato un dio che deve nascere e morire come l’erba dei campi, per cui i riti in suo onore, che si facevano ogni anno, erano volti a sollecitare la benefica pioggia.

    Questa immaginaria divinità, in buona parte abbandonata con l’avvento del cristianesimo, ha continuato a riemergere nei periodi critici durante la prolungata siccità e le carestie. Dove è riuscita a sopravvivere è stata banalizzata fino a diventare puro spettacolo folkloristico e con questa funzione è stata riesumata in vari paesi, a livello puramente spettacolare ormai privo di contenuto, ma sempre affascinante nell’esibizione che affonda le sue radici in tempi lontani, preistorici.

    Una eredità immateriale che in Sardegna ha subito un revival in questi ultimi decenni; infatti i giovani di molti paesi si sono riappropriati delle proprie maschere, dei miti che le circondano, avendo individuato in esse una forte attrazione per chi le osserva.

    Si va alla ricerca delle proprie radici e si scoprono esseri immaginari, appartenenti soprattutto al mito, che avevano un significato profondo per gli antenati. Esseri che pare vogliano riprendere il loro posto, crearsi uno spazio rurale e urbano tipicamente spettacolare a dispetto della tecnologia che ha invaso prepotentemente anche i piccoli centri.

    Si potrebbe pensare a una ritualità che riemerge inconsciamente anche se in realtà tutti sanno che ormai si tratta di semplici attrattive turistiche; eppure, quando al calar del sole i figuranti del carnevale sardo fanno la loro comparsa qualcosa si muove entro lo spettatore come se il vecchio dio, il Maimone sardo, si fosse risvegliato tra il frastuono dei campanacci e avesse scosso gli archetipi riportandoci indietro di millenni, quando i riti in suo onore generavano terrore per la sua morte e gioia per la sua rinascita.

    Vedere d’improvviso i Mamuthones che avanzano lentamente sotto il carico dei pesanti campanacci, udire il loro ritmo cadenzato quando il cielo si fa più scuro dà la sensazione di tuffarsi in un passato remoto che muove le corde più intime generando meraviglia e timore per ciò che non si riesce a capire.

    Dolores Turchi

    Parte prima

    Un carnevale dionisiaco

    Leggendo le poesie di Bonaventura Licheri si nota che alcune descrizioni si susseguono quasi uguali, il che è normale, giacché nelle linee essenziali si ripete sempre lo stesso rito. Certamente l’intento del Licheri, quando scriveva queste poesie, non era quello di tramandare tradizioni folkloriche ai posteri. Egli, ad anni di distanza, rievocando il tempo in cui accompagnava il Vassallo, intendeva esclusivamente esaltarne la tenacia e la forte tempra nella predicazione. Si avverte da ogni componimento la grande ammirazione che nutriva verso il maestro per la sua vasta cultura e il sincero amore filiale che lo legava a lui. Ma nell’evidenziare la fermezza del Vassallo e la decisa condanna contro ogni forma di paganesimo superstite verso cui minacciava la scomunica, egli non può tralasciare di parlare delle maschere del centro Sardegna che in maniera evidentissima, in pieno Settecento, ancora replicavano i loro riti per un dio chiamato Maimone, di cui si ricordano ancora le invocazioni per la richiesta della pioggia. Un dio del quale ogni anno si rappresentava la passione che aveva subito prima di morire, attraverso la passione che si infliggeva a una vittima umana che solo all’ultimo momento, prima di essere gettata sul rogo, veniva sostituita da un fantoccio, spesso chiamato Zorgi (il fecondatore).

    Che questa vittima simboleggiasse una divinità pagana, il Vassallo ben lo sapeva e pertanto tutte le sue prediche fatte in gennaio, tra la festa di Sant’Antonio e San Sebastiano, culminavano con la minaccia di scomunica verso coloro che, pur ritenendosi cristiani, ancora ricordavano questo dio (Dioniso Mainoles) nelle loro esibizioni, ostentando ossi di animali che, secondo la credenza, avrebbero dovuto rigenerare nuova vita. Un rito propiziatorio di fertilità che ricordava antiche usanze presenti persino tra i Celti, come quella del dio Thor che dopo aver mangiato la carne dei suoi capri ne riunisce gli ossi e questi riprendono a vivere⁴⁵. Leggende antichissime, che partivano da rituali di caccia per poi strutturarsi in forme religiose. Sicuramente il Vassallo conosceva le prediche fatte contro i mascheramenti durante le calende di gennaio da diversi Padri della Chiesa. Restano famose ancora oggi quelle attribuite a Sant’Agostino.

    Dioniso era divinità traco-frigia entrata tardi nella Grecia classica, ma ben conosciuto nel mondo cretese-miceneo. In Sardegna penetrò in tempi lontani, probabilmente attraverso i Micenei, intorno al xiii-xiv secolo a.C. Quanto sia stata forte la penetrazione micenea all’interno dell’isola lo dimostrano i numerosi templi a megaron che negli ultimi decenni sono venuti alla luce. C’è da credere pertanto che una forma di religione dionisiaca cretese-micenea (si pensi al culto della bipenne in Sardegna) sia penetrata in tempi antichissimi, non mediata dalla religione romana, benché anche Roma conoscesse il culto dionisiaco, soprattutto nella forma bacchica. Basti pensare ai Baccanali romani proibiti dal Senato nel 186 a.C. Ma Roma conosceva anche Dioniso psicopompo, come attestano alcuni sarcofagi ostiensi e romani che rappresentano scene bacchiche⁴⁶. La forma tragica e cruenta del culto dionisiaco superstite in Sardegna pare non sia stata sfiorata dalla religione orfica che lo aveva reso più mite in altre regioni, e questo ne denota l’antichità. Nella nostra isola penetrò sicuramente in tempi assai lontani, nella forma più primitiva e selvaggia, e tale si mantenne per decine di secoli, se ancora il Licheri poté vederlo in un aspetto tanto cruento. Ai suoi tempi tutte le maschere portavano ancora un carico di ossi animali sulle spalle, con funzione apotropaica e rigenerativa che, agitati, producevano quel rumore roco tipico delle bàttole, dei crotali e delle tabelle usate durante la Settimana Santa. Tale rumore, a Cuglieri, pare fosse intensificato dalle conchiglie che usavano i "Cotzulados". Anche le maschere degli altri paesi sono definite dal Licheri con nomi particolari. A Ortueri le chiama Maimones, cioè col nome generico che si dà a tutte le maschere, ma a Cheremule, dove sono scomparse da tempo, sono chiamate "sos impeddados, mentre quelle di Austis vengono dette sos Colonganos", il cui termine ha più o meno lo stesso significato.

    Il termine che il Licheri usa per definire le maschere di Samugheo è "Ossudos che equivale a garrigados con cui definisce quelle di Mamoiada le quali portano ugualmente un carico di ossi sulle spalle che essi chiamano garriga". Altra caratteristica che viene spesso messa in rilievo è la maschera di sughero (caratzas de ortigu), che sembrano portare quasi ovunque tutti, tranne quelli che avevano il volto imbrattato di fuliggine e sangue. Non si parla mai di maschere di legno. La maschera lignea richiede un impegno e una maestria nell’esecuzione che non tutti dovevano possedere. La maschera di sughero poteva invece essere modellata con facilità da chiunque. Inoltre aveva la caratteristica della leggerezza. Con tutta probabilità, finito il rito, veniva gettata nel fuoco come il fantoccio. Rinnovarla anno dopo anno come si rinnovava il dio e la vegetazione che rappresentava doveva essere nell’ordine delle cose.

    È probabilmente per questa ragione che non ci sono pervenute maschere lignee molto antiche. Senza volerlo, il Licheri conferma cose già intuite, come ad esempio il perché una persona folle o poco avveduta è chiamata ancora oggi Mamuthone o Maimone.

    Dai suoi versi veniamo a conoscenza di cose finora solo sospettate e mai accertate: la vittima del carnevale, quella che doveva rappresentare la passione e la morte del dio della vegetazione, dell’ebbrezza e dell’estasi, veniva stordita oltreché col vino, anche con una certa dose di sostanze tossiche. Questo spiega anche perché tale vittima, nei carnevali sardi, è scomparsa prima delle altre maschere e perché in alcuni paesi dove il carnevale è stato riesumato, la vittima manca⁴⁷.

    45 S. Sturluson, Edda, a cura di G. Delfini, Milano 1975.

    46 G. Pesce, Sarcofagi romani di Sardegna, L’Erma, Roma 1957.

    47 D. Turchi, Maschere, miti e feste della Sardegna, op. cit. Vedi anche D. Turchi, Su Carrasecare. Immagini del carnevale in Barbagia, Comunità Montana del Nuorese, Nuoro 2005.

    I carnevali

    Quando si parla del carnevale si pensa al divertimento, alla trasgressione, a Bacco, dio del vino. E invero, il carnevale è anche questo, cioè il retaggio dei Saturnalia latini, con le sfilate di carri allegorici, con l’inversione dei ruoli, quando i servi si vestivano da padroni e i padroni da servi, giacché «semel in anno licet insanire».

    Resti di questo carnevale si sono mantenuti in località come Viareggio e in parte anche in Sardegna, come a Tempio, per esempio. Ma c’è un altro aspetto del carnevale che si è tenuto nella Sardegna dell’interno e in altre parti d’Europa che riguarda l’altra faccia di Bacco, la faccia oscura, ossia Dioniso, dio della vegetazione e della fertilità.

    Le maschere tradizionali compaiono alla vigilia della festa di Sant’ Antonio Abate e come primo atto si aggirano intorno al grande falò che viene allestito per quell’occasione, compiendo tre giri di rito intorno al fuoco, prima in un verso poi in senso contrario, quasi volessero simboleggiare una discesa agli inferi e una risalita.

    La leggenda legata a Sant’Antonio Abate parla infatti della discesa all’inferno di questo santo per rubare il fuoco ai démoni e donarlo agli uomini che fino ad allora ne erano sprovvisti.

    È una leggenda cristianizzata e mostra vari anacronismi, giacché si rifà ad un mito ben più antico: al furto del fuoco agli dèi da parte di Prometeo per donarlo agli uomini.

    È evidente che le maschere tradizionali sono precristiane, espressione di un arcaico mondo agropastorale, e mimano un rito agrario per la richiesta della pioggia rivolto a Dioniso Mainoles, il cui nome in Sardegna si è corrotto in Maimone, nome che è tipico delle maschere sarde, ma lo troviamo collegato anche a numerosi toponimi che indicano ruscelli, fonti e sorgenti.

    Il carnevale barbaricino appare cupo, luttuoso, tragico. Non ha nulla a che fare col carnevale trasgressivo e ridanciano che trae origine dai Saturnalia; esprime passione e morte attraverso una vittima sacrificale che viene esibita lungo il percorso e che l’ultimo giorno sarà sostituita da un fantoccio che verrà arso.

    Rappresenta il dolore per il dio della vegetazione che ogni anno deve morire per poi rinascere nel ciclo annuale dell’eterno ritorno.

    Di quest’antica commemorazione ogni paese ha serbato qualcosa. Per avere una chiara visione di quello che un tempo era un rito vero e proprio è necessario esaminare attentamente tutti i carnevali tradizionali, soprattutto la gestualità delle maschere, il loro abbigliamento, gli strumenti che recano con sé. Solo allora ha un senso ciò che a prima vista appare oscuro, misterioso, incomprensibile.

    Le maschere più note del carnevale barbaricino sono i Mamuthones di Mamoiada¹. Il loro abbigliamento si compone di pelli scure che indossano su pantaloni e giacca di fustagno, di scarponi da pastore e di una maschera lignea nera, generalmente di pero selvatico, dai lineamenti tragici, che sembra esprimere sofferenza. La testa del Mamuthone è ricoperta da un fazzoletto scuro del costume femminile e sulle spalle porta un gran numero di campanacci.

    È una maschera muta che avanza con passo zoppicante, in una sorta di squilibrio deambulatorio, provocando un suono roco dato dai regolari colpi di spalla che agitano i campanacci.

    I Mamuthones sono affiancati da maschere più vivaci, dette Issohadores, perché un tempo portavano con sé una soga con la quale prendere al laccio la vittima. Oggi la pesante soga è sostituita da una leggera corda con cui si prende al laccio, per scherzo, qualche persona tra la folla.

    Sos Issohadores contrastano molto con i Mamuthones per l’accurato abbigliamento che si rifà al costume locale. Il corpetto rosso era fino all’anteguerra indossato a rovescio, un chiaro segno di lutto. I Mamuthones, visti da soli, assumono un aspetto enigmatico, misterioso; se però vengono confrontati con le altre maschere tradizionali dell’interno dell’isola, sia nell’abbigliamento che nelle movenze, oltreché nel nome, si intravede il sottofondo comune da cui emergono nonostante le differenze che col tempo si sono stabilite tra un paese e l’altro. Se poi tale comparazione si allarga oltre i confini della Sardegna, si noterà che maschere somiglianti si trovano nella Spagna, nell’arco alpino, nei Balcani e in alcune isole dell’Egeo, senza escludere l’Africa settentrionale. Allora si possono rilevare i tratti comuni che evidenziano un’unica matrice: i relitti di un culto che in tempi lontani era presente lungo le coste del Mediterraneo. Era il culto a Bacco-Dioniso che si espandeva con l’avanzare della coltura della vite.

    Il carnevale sardo viene chiamato Carrasecare, ovvero carre de secare, carne da fare a pezzi, da smembrare. Ma il termine carre non indica la carne da macelleria, che viene sempre chiamata petta o petza, carre indica la carne viva, specie quella umana. È questa carre che qualifica e rivela l’arcano significato dei carnevali tradizionali sardi e la funzione che avevano un tempo le maschere che ancora li rappresentano, benché con intenti diversi. Sono carnevali tristi, che presuppongono una vittima che anticamente andava lacerata, sbranata, come voleva il rito per commemorare il dio che era stato sbranato dai Titani. Un dio che muore

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