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Il Senatore Bellosguardo
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Il Senatore Bellosguardo
E-book158 pagine1 ora

Il Senatore Bellosguardo

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Info su questo ebook

Filippo svolge un lavoro particolare: sgombera le case dei defunti, gettando via le cose che erano soliti usare o anche solo accarezzare con gli occhi, ed eliminando quelle dare così loro la morte definitiva.

Ed è ciò che è chiamato a fare anche per il senatore Benito Stefanelli, deceduto da poco.

Fra mobili antichi e classici souvenir, Filippo trova però qualcosa di inaspettato: un manoscritto.

Un giallo, per l'esattezza. La storia è ambientata nel 1961 a Monte Capretta, un piccolo paese vicino Roma.

Il paesino viene sconvolto quell'anno dalla morte della bella e ricca Doralice, suicidatasi a casa sua durante una cena con ospiti.

Suo marito Euro, però, non è convinto che si sia trattato di suicidio, e organizza una nuova cena, esattamente un anno dopo la morte di Doralice e con gli stessi invitati di allora, per costringere il colpevole ad uscire allo scoperto.

Chi potrà essere stato? Onorina, la dirimpettaia innamorata di Euro, e desiderosa di divenirne la consorte?

Angelo Bellosguardo, l'ambizioso sindaco di paese che aveva una relazione clandestina con Doralice?

O Antonio, una vecchia fiamma della defunta, che le doveva un'importante somma?

O, ancora, la sorella Agata, che alla sua morte erediterà una fortuna?
LinguaItaliano
Data di uscita17 nov 2020
ISBN9791220301206
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    Anteprima del libro

    Il Senatore Bellosguardo - Gianfranco Sassu

    già.

    Cap. 1

    Un ometto mingherlino ma con una pancia da bevitore di birra, non più alto di centosessanta centimetri, forse meno. Il volto incorniciato da una folta barba bianca, lunga e incolta più del necessario, e da capelli altrettanto bianchi e altrettanto incolti che facevano delle pieghe ondulate sul collo e sopra le orecchie. La sommità della testa era probabilmente pelata, ma questo nessuno avrebbe mai potuto giurarlo, giacché una scoppoletta di velluto nero, con visiera come si conviene, gli copriva costantemente la testa di giorno e forse anche di notte, come molti sostenevano.

    Questo era Filippo Scanu.

    Gli occhi erano neri, furbi, mobilissimi, per registrare e tenere sempre sotto controllo tutto ciò che lo circondava.

    Età? Una sessantina, provavano a ipotizzare i suoi amici.

    Di lui si sapeva (il suo accento lo accusava senza ombra di dubbio) che era sardo, che un tempo era stato sposato con una tipa di Iglesias, che aveva una figlia da qualche parte su al Nord, che aveva lavorato come operaio saldatore lungo le linee ferroviarie di mezza Italia.

    Inoltre, poiché ne narrava i dettagli appena trovava qualcuno disposto a sorbirsi il suo racconto, si sapeva che aveva partecipato come comparsa in un film nientemeno che del grande Federico Fellini. Quale fosse stato quel film nessuno poteva dirlo: ad ogni racconto c’erano un particolare nuovo e un diverso protagonista, che rendevano difficile individuarne il titolo. A volte poteva riferirsi ad Amarcord, a volte a Le notti di Cabiria, chissà. Un giorno si confondeva e parlava di un bagno nella Fontana di Trevi, un altro tirava in ballo la descrizione di un’antica Roma ricostruita di sana pianta giù a Cinecittà.

    Spesso, quando la serata all’osteria procedeva stanca, e già partivano i primi sbadigli, qualcuno se ne usciva con un: «Dai, Filippo, raccontaci di quando hai fatto l’attore!» e lui, facendo un po’ la finta della ritrosia, partiva con la storia, una storia sempre diversa.

    Filippo Scanu aveva un furgoncino malridotto attrezzato per caricare qualunque cosa, con cui sgomberava cantine e faceva piccoli trasporti.

    E svuotava a pagamento le case di chi era appena morto.

    Cap. 2

    La famiglia Stefanelli lo aveva chiamato un giovedì pomeriggio di settembre dell’anno 2001. Filippo ricordava il giorno perché il giovedì pomeriggio giocava a bocce al Circolo Arci della Magliana e il telefono aveva squillato proprio durante una bocciata facile facile. Che sbagliò, naturalmente.

    Prese il cellulare e bestemmiando rispose alla chiamata.

    «Sono Dorina, la figlia del senatore Benito Stefanelli. È lei che svuota appartamenti e porta via mobili e oggetti?»

    Neanche un buongiorno.

    Filippo la trovò subito antipatica.

    «Comandi.»

    «Avrei una casa da svuotare.»

    «Trecentomila a stanza.»

    Aveva alzato il prezzo proprio per l’antipatia che gli suscitava quella voce e per la bocciata sbagliata.

    «Va bene. Via Tommaso Veniero, 15.»

    Neanche un commento sulla cifra richiesta.

    Ovvio che si parlava di lire, ma anche se fossero stati, come di lì a poco, euro, Filippo ebbe la sensazione che la proposta sarebbe stata accettata con la stessa rapidità.

    «Domattina alle nove sono lì.»

    «Puntuale mi raccomando, ché domani, guardi, ho una giornata talmente incasinata che non le dico. E venga con un furgone bello grande.»

    Vengo con quel cazzo che mi pare

    Lo pensò, ma non lo disse.

    ***

    La casa apparteneva al senatore Benito Stefanelli.

    Ottant’anni o giù di lì, vedovo da alcuni anni dell'amata signora Adelina, ormai vecchio e malandato viveva in un appartamentino nel centro di Roma con la sua gatta, i suoi libri e i suoi ricordi.

    La famiglia, cioè le due figlie Dorina e Argentina con i rispettivi mariti, si era presa tutte le proprietà e i terreni, praticamente abbandonandolo a una vita di solitudine.

    Se c’era il sole, e a Roma il sole c’è quasi tutti i giorni, usciva a fare due passi, appoggiato al suo bastone dal pomello d’avorio, con la testa sempre riparata dal cappello (Panama d’estate, Borsalino d’inverno) e con indosso un doppiopetto grigio scuro oppure blu, spesso gessato. Una cravatta intonata al fazzoletto del taschino e l’immancabile gilet con catenella d’oro per l’orologio completavano il suo vestiario. Tutti nel quartiere lo conoscevano e lo salutavano con deferenza.

    Quasi ogni giorno si fermava al bar, sempre lo stesso, ordinava il suo caffè macchiato e lo sorbiva lentamente su uno dei tavolini all’aperto. Sempre lo stesso tavolino.

    Alcuni ricordavano che ogni tanto estraeva una agendina nera dalla tasca interna della giacca o del soprabito e scriveva poche righe, appunti su chissà quale argomento.

    «Buongiorno senatore.»

    «Buongiorno a lei, come sta sua moglie? È passata l’influenza?»

    «Sì, grazie, e la sua gatta?»

    «Eh, che vuole, anche lei è anziana…»

    «Il tempo passa, purtroppo. I miei ossequi, senatore.»

    «Ossequi anche a lei e alla sua signora, buona giornata.»

    Un tipo strano, un uomo d’altri tempi, si sarebbe potuto dire. Poche confidenze, ma sempre educato e gentile. Molti si toccavano la tempia con un dito guardandolo, e scuotevano la testa. Senza alcuna malizia, però.

    Era stato trovato morto sul suo letto dalla figlia maggiore una domenica mattina, mentre le campane della città risuonavano nell’aria come tutte le domeniche. Aveva un sorriso sulle labbra e l’aria serena. Nella sua vita aveva cercato sempre di non essere di peso a nessuno, e anche nella morte era riuscito a evitare ai suoi familiari i fastidi che una lunga e penosa malattia riversa sui parenti.

    Ora bisognava liberare la sua casa, cancellarne il ricordo svuotandone le stanze.

    Cap. 3

    La gatta si avvicinò senza mostrare alcun timore e, miagolando e inarcando la schiena, si accostò alle gambe di Dorina Stefanelli per accarezzarle con la coda.

    «Bestiaccia ruffiana» fece lei allontanandola sgarbata col piede «chissà perché si teneva questo mucchio di pulci in casa, quel vecchio rimbamb… scusi… nostro padre.»

    La gatta tentò la fortuna con i pantaloni di Filippo.

    «Quanto tempo è che non mangia?»

    «Mah, da quando è morto mio padre, presumo, tre, quattro giorni, che vuole che ne sappia.»

    Filippo, senza commentare, si avviò verso il lato destro della sala, alla cucina seminascosta da un muretto basso, e cominciò ad aprire gli sportelli.

    Alla fine trovò quello che cercava. Aprì la lattina di bocconcini e ne versò tutto il contenuto nella ciotola vuota sul pavimento.

    La gatta si affrettò a raggiungerla e cominciò a lappare di gusto, guardandosi attorno ad ogni leccata nel timore che qualcuno le portasse via il cibo.

    La signora Dorina sbuffò infastidita.

    La lattina finì nella pattumiera, ancora piena di rifiuti.

    «Che ne sarà di questo animale?»

    «Ah, io non li sopporto proprio, i gatti, e Argentina neanche. È allergica agli animali, si figuri! Sono solo bestie odiose, animali che ti guardano sempre con disapprovazione, o perlomeno con sommo disinteresse. Che non gliene frega un cazzo di nessuno. Che sistemarsi nella posizione più comoda è la loro unica passione nella vita. Non me ne parli neanche! I cortili qua sotto sono pieni di randagi, uno più uno meno…»

    Filippo la guardò di traverso.

    Prese la scodella dell’acqua, ormai asciutta, la riempì e la poggiò delicatamente sul pavimento.

    ***

    La casa del senatore Stefanelli era un bilocale molto ampio e arioso, al sesto e ultimo piano di un antico palazzo umbertino di inizio secolo, a due passi da Piazza San Pietro e dal centro di Roma. Un caseggiato austero e signorile, come ce ne sono tanti in centro a Roma. Fioriere e statue sui pianerottoli e lungo le scale di marmo, scale così larghe come non se ne vedono più, un ascensore in stile liberty con le porte in ferro battuto e l’interno d’altri tempi in legno, come d’altri tempi erano le due piccole panche che permettevano agli anziani del palazzo di sedersi durante le salite e le discese.

    Sul pianerottolo, a fianco della grande porta dell’appartamento, una targa in ottone ricordava che quella era la dimora del Cav. Benito Stefanelli, Senatore della Repubblica Italiana. L’ingresso dava direttamente su un ampio salone dai soffitti altissimi ornati di stucchi. All’estremità opposta vi era un piccolo disimpegno su cui si aprivano due porte che recavano all’unica camera da letto e al bagno.

    Sulle pareti opposte di destra e di sinistra due enormi finestre con vista mozzafiato. Una si affacciava direttamente sui giardini interni della Città del Vaticano, l’altra abbracciava tutta Roma. Cupole, campanili e tetti di tegole rosse si stendevano ininterrotti davanti agli occhi.

    Una portafinestra conduceva su un grande terrazzo cinto da colonnine. I fiori appassiti denotavano lo scarso interesse del senatore per la cura delle piante. O forse confessavano solamente la sua mancanza di energie.

    Quel terrazzo doveva essere stato un profluvio di colori e profumi, almeno finché la moglie del senatore era viva.

    In un angolo della stanza, una scrivania di legno molto bella, grande e massiccia; sul ripiano, da un lato, due o tre pile di carte e documenti perfettamente in ordine e una macchina da scrivere. Dall’altro lato, una foto incorniciata che ritraeva due giovani sorridenti sullo sfondo di Venezia, probabilmente in luna di miele; al centro un portapenne e vari altri oggetti da scrivania in marocchino rosso.

    Filippo diede uno sguardo intorno per organizzare il lavoro. La sala era stracolma di libri, mobili antichi e oggetti: valutò che ci sarebbero voluti non meno di sette, otto giorni per svuotarla tutta.

    «Chiaramente durante il lavoro di sgombero non sarà solo, lei mi capisce. Ci organizzeremo con mia sorella perché ci sia sempre una di noi con lei. Eventualmente mandiamo la filippina, che è una persona fidata e sta con noi da anni. Non si offende, vero?»

    E chi si offende. Hai

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