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Non so perché ti amo. From Lukov with Love
Non so perché ti amo. From Lukov with Love
Non so perché ti amo. From Lukov with Love
E-book529 pagine6 ore

Non so perché ti amo. From Lukov with Love

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Info su questo ebook

Il fenomeno romantico di TikTok

Jasmine Santos ha trascorso quasi tutta la vita sul ghiaccio: è una campionessa di pattinaggio in coppia. Ma, ora che il suo partner l’ha scaricata, non ha molte possibilità: per quanto sia talentuosa, il suo caratteraccio le impedisce di trovare qualcuno disposto a fare coppia con lei. Forse è arrivato il momento di dire addio ai pattini? Quando il campione del mondo in carica, Ivan Lukov, le chiede di diventare la sua nuova partner, Jasmine sa che potrebbe essere un’occasione unica e irripetibile. Il problema è che lei e Ivan non si sopportano e non fanno che litigare da quando erano adolescenti. Ma, se vogliono che la coppia funzioni, devono andare d’accordo… o almeno cercare di non uccidersi durante gli allenamenti. Perché il pattinaggio è una questione di fiducia e per Jasmine e Ivan è impensabile vincere senza fidarsi l’una dell’altro. Se Jasmine vuole davvero tornare in pista, dovrà rimettere tutto in discussione. Persino il suo odio per Ivan.

Oltre 200 milioni di visualizzazioni su TikTok
Finalista al Goodreads Choice Award
#BookTok Made Me Buy It!

«Quando ho visto le migliaia di recensioni online tutte a cinque stelle ho pensato che ci fosse un errore, che fosse impazzito il sistema. Poi ho letto Non so perché ti amo. From Lukov with Love e ho capito. L’unico errore era non averlo ancora letto. Il romance perfetto.»

«Questa autrice sa esattamente come costruire una storia d’amore che fa emozionare.»

«Adoro il pattinaggio sul ghiaccio e questa storia romantica ambientata in pista mi ha letteralmente rapita.»

#booktok #romance #smut #sportromance #enemiestolovers #spicy

Mariana Zapata
Ha cominciato a creare storie d’amore praticamente il giorno stesso in cui ha imparato a scrivere. Da bambina rubava i libri dalla libreria di sua zia, ancora prima di capirne il senso. È nata in Texas ma vive in Colorado con suo marito e due alani giganteschi, Dorian e Kaiser. La Newton Compton ha pubblicato L’infinito tra me e te, Questa nostra stupida storia d’amore, Luna e le bugie, Ogni strada porta da te e Non so perché ti amo. From Lukov With Love.
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2019
ISBN9788822731302
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    Anteprima del libro

    Non so perché ti amo. From Lukov with Love - Mariana Zapata

    Capitolo 1

    Inverno/primavera 2016

    Dopo avere sbattuto il sedere per cinque volte di fila decisi che era arrivato il momento di staccare, almeno per quel giorno. Le mie chiappe avrebbero potuto godersi altre due ore di cadute l’indomani, soprattutto se non fossi riuscita a capire dove cavolo sbagliavo: era il secondo giorno di fila che non riuscivo a concludere un salto rimanendo in piedi.

    Spostai il mio peso sulla natica che aveva ricevuto meno colpi, sbuffando di frustrazione, ma riuscii a trattenermi e a non lasciar uscire le imprecazioni che avrei voluto gridare. Alzai lo sguardo con una smorfia, ma capii all’istante che era stato un errore madornale. Sapevo benissimo cosa pendeva dal soffitto a cupola dell’edificio. Li vedevo da ben tredici anni.

    Striscioni.

    Striscioni attaccati alle travi.

    Striscioni che inneggiavano a un unico, stramaledetto nome.

    IVAN LUKOV. IVAN LUKOV. IVAN LUKOV.

    E ancora IVAN LUKOV.

    Accanto al suo nome ne comparivano altri, quelli delle poverette che nel corso degli anni erano state sue partner, ma quello di Ivan spiccava su tutti. Non perché avesse lo stesso cognome di una delle persone che amavo di più al mondo, ma perché mi faceva pensare a Satana. Ero sicura che i suoi genitori l’avessero adottato all’inferno.

    Fra gli striscioni ce n’erano cinque blu, uno per ogni gara nazionale che aveva vinto, due rossi per i campionati del mondo, due gialli per le medaglie d’oro e uno argento per ricordare il suo unico secondo posto in una competizione mondiale; la coppa era esposta nella teca all’ingresso del centro.

    Un vero fuoriclasse. Puah.

    E grazie al cielo non avevano messo uno striscione per ogni trofeo o gara minore che aveva vinto negli anni, altrimenti il soffitto sarebbe stato un tripudio di colori e io avrei vomitato ogni giorno.

    Tutti quegli striscioni… e neanche uno con il mio nome. Neppure uno. Non importava che ci avessi provato con tutte le mie forze, che mi fossi allenata duramente. Nessuno si ricorda di chi arriva secondo, a meno che non sia Ivan Lukov. E io non lo ero di certo.

    Non avevo il diritto di essere gelosa, ma l’invidia era come una spina che mi trapassava lo sterno. Detestavo quella sensazione. Preoccuparsi di ciò che pensavano gli altri era uno spreco di tempo e di energie; avevo imparato la lezione da piccola, quando ero circondata da bambine con costumi più belli e pattini più nuovi dei miei. Rodersi il fegato era per chi non aveva niente di meglio da fare, lo sapevo. Se passavi la vita a fare confronti, non avresti mai combinato niente. Sapevo anche questo.

    E io non avevo mai voluto essere così. Soprattutto, non per quell’idiota. Piuttosto che confessare come mi facevano sentire quegli striscioni, mi sarei portata l’invidia nella tomba.

    Mi inginocchiai per smettere di fissare quegli stupidi pezzi di stoffa. Appoggiai le mani sul ghiaccio e mi accovacciai, trovando d’istinto l’equilibrio sui pattini, poi finalmente mi rimisi in piedi. Di nuovo. Per la quinta volta in meno di quindici minuti. Avevo il fianco, la natica e la coscia sinistri doloranti, e il giorno dopo avrei visto le stelle.

    «Vaffanculo», borbottai sottovoce per evitare che le ragazze più giovani mi sentissero. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era che andassero a raccontarlo alla direttrice. Di nuovo. Piccole spie. Come se non avessero mai sentito parolacce in televisione, per strada o a scuola.

    Spazzai via il ghiaccio che mi era rimasto appiccicato addosso dall’ultima caduta, feci un respiro profondo e cercai di acquietare la rabbia che mi bruciava dentro: verso me stessa, verso il mio corpo, verso la mia carriera, verso la mia vita, verso le ragazzine davanti a cui non potevo lanciare un’imprecazione, verso quella giornata in generale. Mi ero svegliata tardi, dopodiché non ero riuscita a chiudere un salto in tutta la mattina, al lavoro mi ero versata il caffè sulla camicia per ben due volte, aprendo la portiera della macchina per poco non mi ero distrutta una rotula, e poi quella seconda sessione di allenamento penosa…

    Si sta poco a dimenticare che, nel grande disegno della vita, sbagliare un salto che fai da dieci anni non conta granché. Si trattava solo di una giornata storta. Di un’altra giornata storta. Capita. Poteva anche andarmi peggio, e prima o poi sarebbe sicuramente andata peggio. È facile dare le cose per scontate quando hai tutto. Ma è proprio quando inizi a dare per scontate le cose basilari che la vita decide di darti una lezione e dimostrarti quanto sei ingrata.

    Quel giorno, per la precisione, stavo dando per scontato il triplo salchow, un salto che facevo da anni. Non è il salto più semplice del pattinaggio artistico, ma neanche il più difficile. Consiste in tre rotazioni; all’inizio si pattina all’indietro sul filo interno della lama, poi ci si dà lo slancio con una gamba per atterrare sul filo esterno posteriore del piede opposto. Di solito lo facevo a occhi chiusi.

    Ma non quel giorno, né il giorno prima.

    Mi sfregai gli occhi con il dorso della mano, inspirai a fondo e lasciai uscire piano l’aria mentre scioglievo le spalle e mi ripetevo che dovevo calmarmi e andare a casa. Avrei potuto riprovarci il giorno dopo. E poi, non c’è nessuna gara in vista, mi fece notare il lato pratico e crudele del mio cervello.

    Come accadeva ogni volta che pensavo alla mia situazione, sentii una stretta allo stomaco fatta di rabbia pura… e di qualcos’altro che assomigliava alla disperazione. E io, come al solito, ricacciai le emozioni in fondo al cuore, sempre più giù, dove non potevo né vederle né sentirle. Erano inutili. Lo sapevo. Completamente inutili.

    Non avevo intenzione di gettare la spugna.

    Massaggiando la natica che aveva avuto la peggio, lanciai un’ultima occhiata alla pista. Osservai le ragazze più giovani che continuavano l’allenamento e trattenni una smorfia. Tre di loro avevano quasi la mia età, ma le altre non avevano ancora vent’anni. Forse non erano particolarmente brave, non quanto lo ero stata io alla loro età per lo meno, ma avevano ancora tutta la vita davanti. Solo nel pattinaggio artistico e nella ginnastica artistica un atleta è considerato vecchio a ventisei anni.

    , avevo bisogno di andare a casa e di buttarmi sul divano davanti alla televisione per consolarmi. Se iniziavo a piangermi addosso, non ne avrei ricavato niente di buono.

    Mi feci largo fra i pattinatori, stando attenta a non sbattere contro qualcuno, e raggiunsi il muretto che circondava la pista. Lasciavo sempre i coprilama nello stesso posto; afferrai i pezzi di plastica e, prima di posare il piede sul cemento, li posizionai sulle lame da quattro millimetri attaccate agli stivaletti bianchi.

    Tentai di ignorare il peso che mi opprimeva il petto: forse era frustrazione per tutte le cadute della giornata, forse no.

    Non mi facevo illusioni: se sprecavo ancora il mio tempo ad allenarmi due volte al giorno al Lukov Ice and Sports Complex non era nella speranza di tornare a gareggiare in futuro, né perché gettare la spugna sarebbe equivalso a buttare nella spazzatura gli ultimi sedici anni della mia vita, ad ammettere di avere rinunciato alla mia infanzia per niente, di avere sacrificato relazioni e una vita normale per un sogno che un tempo era stato così grande che niente e nessuno avrebbe potuto portarmelo via.

    Il mio sogno di vincere una medaglia d’oro o almeno di salire sul podio del campionato mondiale o nazionale si era infranto, era stato ridotto in pezzi grandi come coriandoli che ancora cercavo di stringere fra le mani, sebbene una parte di me riconoscesse che questo, più che aiutarmi, mi faceva solo male.

    No. All’origine del mio mal di stomaco e della nausea che mi prendeva spesso non c’era questo genere di idee e pensieri. Dovevo calmarmi. Magari masturbarmi. Dovevo fare qualcosa.

    Scrollandomi di dosso il malessere, percorsi il perimetro della pista e imboccai il corridoio che portava negli spogliatoi. I genitori e i bambini dei corsi serali erano già arrivati; erano gli stessi corsi con cui avevo iniziato io a nove anni, prima di passare ai gruppi più piccoli e infine alle lezioni private con Galina. Bei tempi.

    Proseguii a testa china per sfuggire agli sguardi della gente, che da parte sua faceva lo stesso per evitarmi. Solo più avanti, in corridoio, andando a prendere le mie cose, notai un gruppo di quattro adolescenti che fingevano di fare stretching. Dico fingevano perché non puoi fare stretching seriamente se sei impegnata a blaterare.

    Per lo meno, questo era quello che mi avevano insegnato.

    «Ciao, Jasmine!», mi salutò una di loro, una ragazza carina che si era sempre impegnata per essere gentile con me.

    «Ciao, Jasmine», esclamò la sua compagna.

    Le salutai con un cenno del capo, assorta in un calcolo mentale per capire quanto tempo avrei impiegato ad arrivare a casa, prepararmi da mangiare o riscaldare un piatto preparato da mia madre, e sprofondare sul divano a guardare la televisione. Se gli allenamenti fossero andati meglio, forse avrei avuto voglia di fare qualcosa, di andare a correre o a casa di mia sorella, ma… quel giorno non ero dell’umore giusto.

    «Buon allenamento», mormorai alle due ragazze, lanciando un’occhiata alle loro compagne, che rimasero in silenzio. Avevano un’aria familiare. Presto sarebbe iniziato un corso di livello intermedio e immaginai che si fossero iscritte. Non avevo motivi per prestare loro attenzione.

    «Grazie, anche a te!», strillò la ragazza che mi aveva rivolto la parola per prima, poi richiuse la bocca di colpo e assunse un colorito paonazzo che non avevo mai visto a nessuno, tranne mia sorella Ruby.

    Con un sorriso sincero e inaspettato sulle labbra, perché la ragazzina mi aveva ricordato Nana, spinsi la porta dello spogliatoio con la spalla. Non appena ebbi varcato la soglia, sentii: «Non capisco perché ti agiti tanto quando la vedi. Sarà stata anche brava nel pattinaggio singolo, ma si faceva prendere troppo dall’emozione, e nelle gare a coppie non è mai stata niente di speciale».

    Mi fermai. Mi immobilizzai sul posto, con la porta mezza aperta. E, anche sapendo che era una pessima idea, lo feci: ascoltai.

    Origliare le conversazioni altrui non portava niente di buono, ma lo feci ugualmente.

    «Mary McDonald è più brava in coppia…».

    Ecco fatto.

    Respira, Jasmine. Respira. Tieni la bocca chiusa e respira. Rifletti prima di parlare. Pensa a dove sei arrivata. Pensa…

    «…altrimenti Paul non l’avrebbe scelta come partner nell’ultima stagione», concluse la ragazza.

    Aggredire una persona è illegale. Ma aggredire una minorenne è ancora più grave, giusto?

    Respira. Pensa. Sii gentile.

    Ero abbastanza grande da essere superiore. Lo sapevo. Ero abbastanza grande da non offendermi per la frase di una ragazzina idiota che probabilmente non aveva ancora superato la pubertà, però…

    Be’, la mia carriera nel pattinaggio a coppie era un tasto dolente per me. E con tasto dolente intendo una ferita aperta che rifiutava di rimarginarsi. Mary McDonald e Paul, il Pezzo di Merda che avrei volentieri bruciato vivo? Avevo guardato abbastanza puntate di La famiglia Brady, a notte fonda, quando non riuscivo a dormire, da capire perché Jan ce l’aveva con Marcia. Anch’io l’avrei odiata. Proprio come odiavo Mary McDonald.

    «Hai visto i suoi video su internet? Mia madre dice che ha un caratteraccio, per questo non vince mai. Non piace ai giudici», aggiunse l’altra cercando di bisbigliare. Non ci riuscì, perché sentii alla perfezione.

    Non c’era bisogno di intervenire. Non c’era bisogno di fare niente. Erano ancora bambine, tentai di dirmi. Non conoscevano tutta la storia. Anzi, non ne conoscevano neanche un pezzetto, come la maggior parte delle persone. E non l’avrebbero mai conosciuta. Da parte mia, l’avevo accettata ed ero andata avanti.

    A un tratto, però, una di loro esagerò e capii che non sarei riuscita a tenere la bocca chiusa e ad ascoltare le loro stronzate in silenzio. La mia sopportazione aveva un limite persino nelle giornate buone, e quella non si poteva esattamente definire tale.

    «Mia madre dice che l’unico motivo per cui continua ad allenarsi qui è la sua amicizia con Karina Lukov, ma lei e Ivan a quanto pare non vanno d’accordo…».

    Ero sul punto di sbottare, ci mancava tanto così. Io e Ivan non andavamo d’accordo: era questo che si diceva in giro? Bene.

    «È un po’ stronza».

    «Nessuno si è sorpreso che non sia riuscita a trovare un altro partner dopo che Paul l’ha mollata».

    Eccoci.

    Se non avessero pronunciato per la seconda volta il nome che iniziava con la P, forse avrei potuto dimostrare la mia elevata statura morale, ma cazzo, sono alta un metro e sessanta e ne sono sprovvista.

    Senza fermarmi a pensare, mi voltai e feci capolino dalla porta con la testa. Le quattro ragazze erano ancora dove le avevo lasciate un minuto prima. «Cos’avete appena detto?», domandai, evitando di aggiungere voi stronzette senza il minimo talento che non combinerete mai un cazzo. Feci in modo di guardare in faccia le due che non mi avevano salutato, le quali girarono la testa di scatto nella mia direzione non appena iniziai a parlare.

    «Io… io… io…», balbettò una di loro, mentre l’altra sembrava sul punto di farsela nel body. Bene. Speravo che succedesse. E speravo che avesse una consistenza molto liquida e le colasse lungo le calze.

    Le guardai a turno, per quella che mi parve un’eternità, e i loro volti paonazzi mi donarono un lieve brivido di piacere… niente a che vedere con il piacere che mi avrebbero dato se io, per prima, non mi fossi considerata una fallita. Inarcai le sopracciglia e con un cenno della testa indicai il corridoio che conduceva alla pista da pattinaggio, con un sorrisetto indisponente. «La penso esattamente come voi. Dovreste muovervi, farete tardi».

    Mi morsi la lingua ed evitai di aggiungere stronze. Un giorno mi avrebbero dato una medaglia per la mia pazienza. Se fosse esistita una competizione del genere, l’avrei sicuramente vinta.

    Le due si dileguarono con la velocità di una coppia di velociste alle Olimpiadi. Le due ragazze carine mi parvero piuttosto sconvolte. Mi rivolsero un sorriso imbarazzato e seguirono le compagne, bisbigliando fra di loro.

    Era per colpa di tipe così se molto tempo prima avevo rinunciato a stringere amicizia con le pattinatrici. Erano tutte stronzette. Mostrai il dito medio alle ragazze che si stavano allontanando di spalle, ma questo non mi fece sentire meglio.

    Non dovevo pensarci più.

    Entrai finalmente nello spogliatoio e mi lasciai cadere su una panca davanti alle file di armadietti; camminando, il dolore al fianco e alla coscia era aumentato. Avevo avuto cadute peggiori, molto più dolorose di quelle, ma al male non ci si abitua mai. Tendevo a dimenticarlo. Quando cadevo ogni giorno, stringevo i denti e andavo avanti, tutto qua. La realtà era che ormai non mi allenavo più come una volta, non potevo, dal momento che non avevo un partner e nemmeno un allenatore che mi seguisse quotidianamente: il mio corpo aveva dimenticato di cosa fosse capace.

    Era l’ennesima dimostrazione che il tempo e la vita continuavano a scorrere anche senza la nostra volontà.

    Distesi le gambe, ignorando il capannello di ragazze che occupava il lato opposto della stanza, intente a vestirsi e a infilarsi i pattini mentre chiacchieravano. Non mi guardarono e io rivolsi loro solo un’occhiata veloce con la coda dell’occhio. Slacciai gli stivaletti e riflettei per un secondo buono se farmi una doccia, per concludere che sarebbe stato uno sbattimento inutile quando in una ventina di minuti sarei stata a casa e mi sarei potuta lavare e cambiare nel mio bel bagno. Tolsi il pattino destro e sfilai con cautela la fascia color carne avvolta intorno alla caviglia e allo stinco.

    «Oddio!», praticamente gridò una delle ragazze, e per me fu impossibile ignorarla. «Non stai scherzando, vero?»

    «No!», ribatté un’altra mentre slacciavo lo stivaletto sinistro, cercando di non farci caso.

    «Davvero?», strillò una terza voce, o forse era quella che aveva parlato all’inizio. Non lo capii. E poi, non volevo ascoltare.

    «Davvero!».

    «Davvero?»

    «Davvero!».

    Alzai gli occhi al cielo.

    «No!».

    «Sì!».

    «No!».

    «Sì!».

    Oddio, non riuscivo a ignorarle. Ero stata anch’io così fastidiosa da piccola? Così infantile?

    Neanche per sogno.

    «Dove l’hai sentito?».

    Ero sul punto di digitare il codice per aprire il mio armadietto quando un coro di voci stridule mi costrinse a voltarmi e a lanciare un’occhiataccia alle ragazze. Fra di loro ce n’era una che sembrava fatta di speed, aveva un sorriso isterico sulla faccia e batteva le mani freneticamente. Un’altra teneva le mani giunte davanti alla bocca e mi sembrò che stesse tremando.

    Cosa diavolo avevano?

    «Sentito? L’ho visto entrare con Miss Lee, la coach».

    Puah.

    Ovvio. Di chi altri potevano parlare?

    Mi voltai di nuovo verso l’armadietto, senza darmi neppure il disturbo di sbuffare, presi il mio borsone e lo posai sulla panca per prendere: telefono, chiavi, ciabatte e una barretta di cioccolato che serbavo per giornate come quella. La scartai e la infilai in bocca prima ancora di guardare il telefono. La lucina verde sullo schermo lampeggiava: c’erano dei nuovi messaggi. Lo sbloccai, lanciando un’occhiata alle ragazze che continuavano a gridare e sembravano sul punto di avere un infarto collettivo. Ignorandole, lessi con calma i messaggi della chat di gruppo che erano arrivati durante l’allenamento.

    Jojo: Stasera voglio andare al cinema. Chi viene?

    Tali: Dipende. Che film?

    Mamma: Io e Ben veniamo con te, tesoro.

    Seb: No. Stasera ho un appuntamento.

    Seb: James non vuole accompagnarti? Lo capisco.

    Jojo: Il nuovo film della Marvel.

    Jojo: Seb, spero che stasera tu prenda qualche malattia.

    Tali: Marvel? No grazie.

    Tali: Anch’io spero che tu prenda una malattia, Seb.

    Mamma: VOLETE FARE I BRAVI?

    Seb: Esclusa la mamma, potete andare tutti in quel posto.

    Rubes: Verrei con voi ma Aaron non sta bene.

    Jojo: Lo so, Nana. Ti voglio bene. Alla prossima.

    Jojo: Mamma, dai. Okay alle 19:30?

    Jojo: Seb (emoji del dito medio)

    Jojo: Jas, ci stai?

    Alzai lo sguardo: le ragazze nello spogliatoio stavano facendo dei versi che non avrei saputo riprodurre. Che problemi avevano? Ivan si allenava qui cinque giorni a settimana da un milione di anni. Vederlo non era così eccitante. Io avrei preferito guardare la vernice che si asciuga.

    Sgranchii le dita dei piedi, con le unghie laccate di rosa acceso e le osservai, ignorando di proposito il livido accanto al mignolo e un principio di bolla sul lato dell’alluce, dovuta alla cucitura di un paio di calze di una marca nuova che avevo indossato il giorno prima.

    «Che ci fa qui?», continuarono a ripetere le ragazze, ricordandomi che dovevo uscire da quella stanza alla velocità della luce. Avevo già raggiunto il limite della sopportazione per quel giorno.

    Guardai lo schermo del telefono, indecisa sul da farsi. Andare a casa e guardare un film oppure sbattermene e andare al cinema con mio fratello, la mamma e Ben… o, come lo chiamavamo noi di nascosto, il numero quattro?

    Avrei preferito rifugiarmi in casa piuttosto che entrare in un cinema affollato nel fine settimana, ma…

    Strinsi la mano a pugno per un secondo, poi digitai la risposta.

    Io: Vengo, ma prima ho bisogno di cibo. Vado a casa ora.

    Sorrisi e aggiunsi una frase.

    Io: Seb, mi unisco all’augurio che tu prenda una malattia. Stavolta punta alla gonorrea.

    Infilai il telefono fra le gambe, presi le chiavi della macchina dalla tasca del borsone e indossai le ciabatte, poi sistemai con delicatezza i pattini nella loro custodia rivestita di finta pelliccia su uno strato di memory foam che mi avevano regalato mio fratello Jonathan e suo marito anni prima. Richiusi il borsone e mi alzai in piedi con un sospiro che mi provocò una fitta al petto.

    La giornata non era andata benissimo, ma mi attendevano tempi migliori, mi dissi.

    O almeno lo speravo.

    L’unica cosa buona era che l’indomani non avrei lavorato e di solito, di domenica, non andavo a pattinare. La mamma avrebbe fatto i pancake per colazione e poi sarei andata allo zoo con mio fratello e mia nipote, visto che era il suo giorno con la figlia. Mi ero persa troppi momenti importanti della vita di mia nipote per colpa del pattinaggio. Adesso che avevo più tempo a disposizione, stavo cercando di rimediare. Meglio prendere il buono della mia situazione, piuttosto che rimuginare sul perché adesso avessi più tempo libero. Cercavo di essere positiva. Dovevo solo lavorarci un po’.

    «Non lo so», disse una delle ragazze. «Ma di solito, quando finisce la stagione, non si fa vedere per un mese o due, e invece quanto è passato dai mondiali? Una settimana?»

    «Chissà se fa ancora coppia con Mindy».

    «E perché non dovrebbe?»

    «Non lo so. Perché ha rotto con tutte quelle che sono venute prima di lei?».

    Avevo capito di chi stessero parlando nel momento in cui avevano nominato Miss Lee, la coach. C’era un solo uomo all’LC – era così che la maggior parte di noi chiamava il Lukov Complex – per cui quelle ragazze impazzivano. Era lo stesso per cui impazzivano tutti gli altri. A parte me, ovviamente. E qualsiasi altra persona dotata di un cervello. Ivan Lukov.

    O, come amavo chiamarlo io, soprattutto in sua presenza: il figlio di Satana.

    «Ho detto solo che l’ho visto. Non so cosa ci faccia qui», esclamò una voce.

    «Lui non viene mica a caso, Stacy. Dai. Fai due più due».

    «Oddio, vuoi dire che lui e Mindy non pattineranno più insieme?»

    «Se è così, mi chiedo con chi farà coppia».

    «Potrebbe essere chiunque».

    «Cavolo, pagherei per diventare la sua partner», disse una delle ragazze.

    «Tu non sai niente di pattinaggio a coppie, stupida», ribatté un’altra, sbuffando. Non le stavo ascoltando, ma il mio cervello non poteva fare a meno di associare tra loro i frammenti della conversazione che coglievo passivamente.

    «Quanto potrà essere dura?», rispose la prima, fiera. «Ha il culo più bello di tutto lo Stato e vince sempre. A me non sembra così male».

    Alzai gli occhi al cielo, soprattutto per la menzione del suo culo. Era l’ultima cosa di cui quell’idiota aveva bisogno, sentire qualcuno che lo lodava. Peccato che la ragazza avesse tralasciato il lato più importante di Ivan, ossia il fatto che fosse l’uomo dei sogni di tutto il mondo del pattinaggio artistico. Il testimonial della federazione internazionale di pattinaggio per la specialità a coppie. Anzi, per il pattinaggio in generale. Lo chiamavano il re. «Un prodigio», lo apostrofavano quand’era adolescente.

    La famiglia da cui proveniva possedeva il centro sportivo in cui mi ero allenata per oltre un decennio.

    Era il fratello di una delle mie rarissime amiche.

    Era l’uomo che, in più di dieci anni, non mi aveva mai rivolto una parola gentile. Questo era l’uomo che conoscevo. Lo stronzo che avevo visto ogni giorno per anni e che si era messo a bisticciare con me per le cose più insignificanti. La persona con cui non riuscivo ad avere una conversazione senza che si concludesse a insulti.

    No… non sapevo perché si trovasse all’LC una settimana dopo aver vinto il suo terzo campionato del mondo, a stagione ormai conclusa. Avrebbe potuto riposarsi o andare in vacanza. Almeno, così faceva ogni anno, da quando ne avevo memoria.

    Mi importava che fosse lì? No. Se mi premeva scoprire cosa stava succedendo, avrei potuto chiedere a Karina. Ma non mi importava.

    E questo perché era decisamente improbabile che io e Ivan gareggiassimo l’uno contro l’altra, almeno in tempi brevi… o forse mai, se continuavo su quella strada.

    Lì, in quello spogliatoio che avevo frequentato per più di metà della mia vita, anche se non volevo crederci, giammai!, qualcosa mi disse che forse era proprio così: ero finita. Dopo tanto tempo, dopo tutti quei mesi passati da sola… forse il sogno si era davvero infranto.

    E in mano non mi era rimasto niente.

    Capitolo 2

    «Hai saputo la novità?».

    Nello spogliatoio diedi un’ultima stretta ai lacci degli stivaletti, poi legai le estremità in un nodo capace di sopravvivere all’ora successiva. Anche senza guardarle, sapevo che c’erano due adolescenti sulla panca davanti agli armadietti. Se ne stavano lì ogni mattina a cazzeggiare. Se non avessero perso tanto tempo in chiacchiere ne avrebbero avuto di più per pattinare. Cavoli loro, non ero io a pagare i loro abbonamenti all’LC. Se fossero state figlie di mia madre, avrebbero perso subito quel brutto vizio.

    «Me l’ha detto la mamma ieri sera», disse la più alta delle due alzandosi in piedi.

    Mantenendo la concentrazione, mi alzai anch’io e sciolsi le spalle, sebbene avessi già fatto un’ora fra riscaldamento e stretching. Forse non pattinavo più sei o sette ore al giorno come un tempo, quando un’ora di stretching era assolutamente necessaria, ma le vecchie abitudini erano dure a morire. E poi non valeva la pena di soffrire per giorni o settimane a causa di uno stiramento solo per risparmiare un’ora di preparazione.

    «Ha detto che ha sentito un tizio che parlava e diceva che si sta ritirando perché ha avuto un sacco di problemi con le sue partner».

    Ecco qualcosa capace di catturare la mia attenzione.

    Lui… si sta ritirando… problemi…

    Persino io, che ero riuscita a finire il liceo per miracolo, capii di chi stessero parlando. E di chi, altrimenti? Fatta eccezione per qualche ragazzino e Paul, che per tre anni si era allenato al Lukov Ice and Sports Complex con me, non esistevano altri lui di cui spettegolare. C’erano un paio di adolescenti, appunto, ma nessuno dei due aveva la stoffa del campione, se proprio lo volevano sapere. Non che alle ragazze importasse della mia opinione.

    «Forse, se si ritira inizierà ad allenare», ipotizzò una delle ragazze. «Non mi dispiacerebbe se mi strillasse per tutto il giorno».

    Per poco non scoppiai a ridere. Ivan che si ritirava? Se lo potevano scordare. Non esisteva che si ritirasse a ventinove anni, soprattutto se andava ancora fortissimo. Mesi prima, aveva vinto una competizione nazionale. E ancora prima, aveva raggiunto il secondo posto nella finale del Major Prix.

    Ma perché mi facevo distrarre da certi discorsi?

    Non mi importava di cosa facesse Ivan. Erano affari suoi. Per tutti, prima o poi, arrivava il momento di ritirarsi. E meno vedevo la sua faccia odiosa, meglio era.

    Non volevo ritardare oltre l’inizio dell’allenamento dato che avevo solo due ore e, soprattutto, non volevo farmi distrarre da Ivan, quindi uscii dallo spogliatoio e lasciai le due ragazze a sprecare il loro tempo in pettegolezzi. Era molto presto e in pista non c’erano più di sei persone, come al solito. Ormai non arrivavo più di prima mattina, non ce n’era bisogno, ma conoscevo quelle facce da anni.

    Qualcuna più delle altre.

    Galina era già seduta su uno degli spalti che circondavano la pista con il suo thermos di caffè che, lo sapevo per esperienza, era così forte da avere l’aspetto e il sapore del catrame. Portava la sua solita sciarpa rossa avvolta intorno al collo e alle orecchie e un maglione che avevo visto almeno cento volte, coperto da una specie di scialle. Avrei giurato che ogni anno avesse aggiunto uno strato in più al suo vestiario. Quando mi aveva scelta fra le allieve del suo corso, quasi quattordici anni prima, se la cavava con una maglietta a maniche lunghe e un coprispalle: oggi, sarebbe morta congelata.

    Alcune di quelle ragazze non li avevano nemmeno, quattordici anni.

    «Buongiorno», le dissi nel russo smozzicato che avevo imparato da lei negli anni.

    «Ciao, yozik», mi salutò lei. Lanciò una rapida occhiata alla pista, poi girò verso di me il viso segnato e duro, rimasto immutato da quando avevo dodici anni, con la pelle che sembrava fatta di un materiale a prova di proiettile. «Andato bene il fine settimana?».

    Annuii, ripensando alla giornata passata allo zoo con mio fratello e mia nipote e alla pizza che avevamo mangiato da lui: cose a cui in passato avevo rinunciato, pizza inclusa. «E il tuo?», chiesi alla donna che non avrei mai potuto ringraziare a sufficienza per tutto quello che mi aveva insegnato.

    Le fossette, che mostrava di rado, fecero capolino. Conoscevo il suo viso alla perfezione; se fosse scomparsa avrei potuto descriverlo alla polizia per fare l’identikit. Forma rotonda, sopracciglia sottili, occhi a mandorla, bocca fine, una cicatrice sul mento che risaliva ai tempi in cui gareggiava, causata dalla lama del pattino del suo partner, e un’altra sulla tempia per l’urto con il ghiaccio durante una caduta. Tuttavia, era molto improbabile che Galina scomparisse. Qualsiasi rapitore l’avrebbe rilasciata nel giro di un’ora al massimo. «Ho visto mio nipote».

    Feci un rapido conto delle date. «Era il suo compleanno, vero?».

    Lei annuì, lanciando un’altra occhiata alla pista e all’atleta con cui stava lavorando al momento, da quando, quattro anni prima, l’avevo abbandonata per dedicarmi al pattinaggio a coppie. Be’, non avrei voluto lasciarla ma… non importava. Ormai non provavo più gelosia quando pensavo alla rapidità con cui mi aveva sostituita. Di tanto in tanto, tuttavia, capitava che mi infastidisse, negli ultimi tempi soprattutto. Solo un pochino.

    Ma non l’avrei mai confessato. «Gli hai regalato i pattini, finalmente?», chiesi.

    La mia ex allenatrice piegò la testa di lato e si strinse nelle spalle, con gli occhi grigi ancora fissi sulla pista. «Sì, pattini usati e un videogioco. Ho aspettato. Ora ha quasi l’età che avevi tu. Qualcuno in più, ma va sempre bene».

    Ce l’aveva fatta, finalmente. Ricordavo quando era nato, prima che ci separassimo, e di come avessimo parlato del giorno in cui avrebbe iniziato a pattinare. Era solo questione di tempo, ne eravamo convinte. I suoi figli non erano andati oltre la categoria juniores, ma non era questo l’importante.

    Pensando a lui, al nipotino, iniziai a sentire… come una nostalgia di casa al ricordo di quanto fosse divertente pattinare, all’inizio. Prima che la pressione si facesse opprimente, prima dei pianti e di quei cavolo di critici. Prima che imparassi il gusto amaro della delusione. Il pattinaggio mi aveva sempre fatto sentire invincibile. Ma all’epoca, più che altro, mi aveva fatto stare da Dio. Non sapevo che fosse possibile sentirsi come se stessi volando. Sentirsi forte e bellissima, e finalmente brava in qualcosa, in una cosa che mi interessava, soprattutto. Prima di allora, non avevo mai creduto che fare numeri da contorsionista o mettermi in posizioni impensabili potesse emozionarmi. Invece, sfrecciare velocissima intorno alla pista ovale mi aveva fatto sentire speciale. Era quella stessa pista che anni dopo avrebbe cambiato la mia vita, anche se all’epoca lo ignoravo.

    La risatina di Galina mi distrasse dai miei pensieri tristi. Almeno per un momento.

    «Un giorno, lo allenerai tu», esclamò sbuffando appena, come se mi stesse immaginando mentre applicavo i suoi metodi con il nipotino, e questo la facesse ridere.

    Sorrisi ricordando le tante volte in cui mi aveva dato uno schiaffetto sulla testa nei dieci anni che avevamo passato insieme. Non tutte sarebbero riuscite a sopportare la sua durezza, ma io l’adoravo. Per me si era rivelato il metodo giusto; mia mamma lo diceva sempre: bastava darmi un dito e mi prendevo tutto il braccio.

    E Galina Petrov sarebbe morta piuttosto che concedermi un solo centimetro di pelle.

    Non era la prima volta che parlava di me nel ruolo di allenatrice. Nei mesi precedenti, quando la situazione si era fatta se possibile ancora più avvilente e la mia speranza di trovare un partner si era assottigliata ulteriormente, aveva iniziato a tirare in ballo l’argomento, non con accenni o allusioni velate, ma dicendomi direttamente: «Jasmine, tu allenerai, d’accordo?».

    Ma io non ero ancora pronta. Ripiegare sull’insegnamento mi sarebbe sembrata una resa… Non ero pronta. Non ancora, cazzo.

    Forse è arrivato il momento?, disse a un tratto una vocina lamentosa e antipatica nella mia testa, che fu come un pugno allo stomaco.

    Come se avesse capito quello che mi passava per la testa, Galina sbuffò di nuovo. «Ho da fare. Allenati con i salti. Non ti stai impegnando, hai troppi pensieri per la testa, ecco perché cadi. Ricorda sette anni fa», esclamò, con gli occhi ancora fissi sul ghiaccio. «Smetti di pensare. Sai farlo».

    Non pensavo che avesse notato il mio struggimento, visto che era impegnata a seguire la sua allieva.

    Mi concentrai sulle sue parole; ricordavo benissimo il periodo a cui si riferiva. Aveva ragione. Avevo diciannove anni al tempo. Era stata la stagione peggiore della mia carriera nel pattinaggio singolo, quando ancora non avevo un partner e gareggiavo da sola. A partire da quella stagione, era iniziata la china discendente che nei tre anni successivi mi aveva portata alla decisione di passare alla specialità a coppie. All’epoca pensavo troppo, rimuginavo su tutto e… Be’, se avevo commesso un errore lasciando il pattinaggio singolo, ormai era troppo tardi per pentirmene.

    La vita ti pone davanti delle scelte, e io avevo fatto la mia.

    Annuii e ingoiai la nota sensazione di vergogna che mi portavo ancora dietro da quella stagione orribile. «Ero preoccupata proprio per questo. Ci lavorerò. A dopo, Lina», le dissi, giocherellando con il braccialetto che portavo al polso, poi iniziai a sciogliere le mani.

    Galina lanciò un’occhiata al mio viso e tornò a scrutare la pista con il mento sprofondato nel petto. Gridò un commento a proposito di un salto partito troppo lentamente con il suo forte accento russo.

    Dopo aver sfilato i coprilama e averli sistemati al loro solito posto, entrai in pista. Mi concentrai.

    Potevo farcela.

    Esattamente un’ora dopo, ero stanca e sudata come quando, un tempo, uscivo da un allenamento di tre ore. Stavo diventando una pappamolle, cazzo. Avevo finito per provare qualche combinazione di salti, ossia una sequenza o un salto singolo seguiti da un altro salto, talvolta da due, ma non ci avevo messo il cuore. Non ero caduta, ma ogni volta c’era mancato un pelo.

    Galina aveva ragione. Ero distratta, anche se non riuscivo a capirne il motivo. Forse avevo davvero bisogno di un po’ di sano autoerotismo, di andare a correre, di fare qualcosa insomma. Qualsiasi cosa potesse servire a sgomberare la testa dai pensieri, o almeno a scrollarmi di dosso quella sensazione strana che nell’ultimo periodo mi seguiva ovunque, come un fantasma.

    Tornai nello spogliatoio, dove trovai un post-it giallo attaccato al mio armadietto. Non pensai a niente in particolare. Un mese prima, la direttrice del Lukov Complex mi aveva lasciato un avviso simile chiedendomi di recarmi nel suo ufficio. Voleva solo offrirmi un lavoro come allenatrice delle principianti. Di nuovo. Non avevo idea del perché mi considerasse la candidata adatta a lavorare con le bambine, praticamente delle poppanti, ma le avevo risposto che non ero interessata.

    Dunque, quando staccai il foglietto dall’anta e lessi, per ben due volte in modo da essere sicura, Jasmine, vieni nell’ufficio della direttrice prima di andare via, non pensai a chissà quale novità, solo al fatto che qualsiasi cosa volesse da me, la direttrice avrebbe dovuto fare alla svelta perché dovevo andare al lavoro. Non avevo neanche un minuto da perdere. Ero piena di liste di cose da fare: sul cellulare o su foglietti di carta che lasciavo in macchina, in borsa, nella mia stanza, sul frigo, per essere sempre sul pezzo. Per me era fondamentale organizzarmi, prepararmi e tenere d’occhio l’orologio per arrivare sempre puntuale. Se continuavo così, avrei dovuto smettere con le mie lunghe docce calde, ma in quel caso non l’avrei detto al mio capo!

    Aprii l’armadietto, recuperai il telefono e digitai un messaggio per mia madre, ringraziando il correttore automatico di esistere e di semplificarmi la vita, come al solito. Lei non si allontanava mai dal cellulare.

    Io: La direttrice vuole parlarmi. Puoi chiamare Matty per dirgli che faccio un po’ tardi?

    Infatti, rispose immediatamente.

    Mamma: Che hai combinato?

    Alzai gli occhi al cielo e digitai la risposta.

    Io: Niente.

    Mamma: Allora perché devi andare nel suo ufficio?

    Mamma: Hai di nuovo dato della poco di buono a qualche mamma?

    Se l’era legata al dito, quella. E non solo lei.

    Non le avevo raccontato delle tre volte in cui la direttrice mi aveva convocato per tentare di convincermi ad allenare.

    Io: Non lo so. Forse l’ultimo assegno era scoperto?

    Era una battuta. Mia madre sapeva benissimo quali fossero le tariffe del Lukov Complex. Le aveva pagate per più di dieci anni.

    Io: No. Non ho dato della puttana a nessuno, ma quella stronza se lo meritava.

    Ero certa che la sua risposta non si sarebbe fatta attendere, ma conclusi che avrei potuto replicare con calma dopo la doccia e rimisi il telefono nell’armadietto. Dopo essermi svestita andai di corsa a lavarmi, poi a tempo di record infilai mutande, jeans, camicia, calzini e scarpe, le più comode e mediamente carine che potevo permettermi. Una volta pronta, controllai il telefono e lessi la risposta della mamma.

    Mamma: Hai bisogno di soldi?

    Mamma: Sì, se lo meritava.

    Mamma: Hai spintonato qualcuno di recente?

    Quando mi chiedeva se avessi bisogno di soldi, di altri soldi, morivo dentro. Come se negli anni non me ne avesse dati già troppi, mese dopo mese. Fallimento dopo fallimento.

    Per lo meno, adesso non ero più costretta a chiederglieli.

    Io: I soldi ce li ho. Grazie.

    Io: Non ho spintonato nessuno.

    Mamma: Sicura?

    Io: Sicura. Lo saprei se l’avessi fatto.

    Mamma: Sicura sicura?

    Io: Sì.

    Mamma: Se l’hai fatto ti capisco. A volte con certa gente è necessario.

    Mamma: Persino a me è venuta voglia di picchiarti a volte. Capita.

    Mi strappò una risata.

    Io: Anche a me.

    Mamma: Ti è venuta voglia di darmi un pugno in faccia?

    Io: Non esiste una risposta giusta a questa domanda.

    Mamma: Ahahahahah

    Io: No, non mi è mai venuta, va bene?

    Chiusi la cerniera del borsone, afferrai i manici e le chiavi e uscii dalla sala imboccando un corridoio quasi a passo di corsa, poi un altro, diretta verso la parte dell’edificio che ospitava gli uffici amministrativi. Avrei dovuto mangiare il tramezzino all’uovo che avevo lasciato nella borsa del pranzo in macchina mentre guidavo. Quando arrivai davanti alla porta della direttrice, mandai un ultimo, telegrafico messaggio a mia madre, giusto per essere sicura.

    Io: Davvero mamma. Lo chiami?

    Mamma: Sì.

    Io: Grazie.

    Mamma: TVB

    Mamma: Se hai bisogno di soldi dimmelo.

    Avevo la gola serrata, ma non risposi. Non glieli avrei chiesti nemmeno se ne avessi avuto bisogno. Non più. Non se avessi potuto evitarlo, e piuttosto di tornare a dipendere da lei mi sarei messa a fare la spogliarellista. Aveva già dato abbastanza.

    Presi fiato e bussai alla porta della direttrice, con l’unica speranza che la nostra conversazione, di qualsiasi cosa si trattasse, non durasse più di dieci minuti. Non volevo approfittarmene solo perché il mio datore di lavoro era anche il migliore amico della mamma e con me era particolarmente comprensivo.

    Girai la maniglia non appena sentii un grido che diceva «Entra!» provenire dall’interno.

    Togliamoci questo dente, pensai, aprendo.

    Il problema principale è che non sono mai stata un’amante delle sorprese. Mai. Neppure da piccola. Mi è sempre piaciuto

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