Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le ragazze stanno bene
Le ragazze stanno bene
Le ragazze stanno bene
E-book179 pagine3 ore

Le ragazze stanno bene

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

È possibile, oggi, non rinunciare al femminismo ma nemmeno alla femminilità?
Ci sono molte cose che le ragazze contemporanee non vogliono più essere: non le spose sottomesse degli anni Cinquanta, tutte casa, cucina e marito, ma nemmeno le femministe arrabbiate degli anni Settanta, con i loro falò di reggiseni e l'odio per i maschi. Ci sono molte altre cose che le ragazze contemporanee sono già, invece: donne in carriera, politiche impegnate, esseri umani indipendenti nella gestione del proprio corpo e della propria vita sentimentale e sessuale. Eppure quelle ragazze continuano a essere anche figlie, fidanzate, madri, spose. Come non rimanere, allora, prigioniere dell'uno o dell'altro modello?, si chiedono Giulia Cuter e Giulia Perona. Come ripensare al femminismo, quello storico e con la F maiuscola che un po’ spaventa per la sua complessità e un po’ respinge per la sua fermezza, alla luce dei cambiamenti intercorsi fra quegli anni e questi? Qual era il punto di partenza, e quanta strada siamo riuscite a fare grazie a quella rivoluzione?
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2020
ISBN9788830511927
Le ragazze stanno bene

Correlato a Le ragazze stanno bene

Ebook correlati

Scienze sociali per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Le ragazze stanno bene

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le ragazze stanno bene - Giulia Cuter

    bene.

    Ti rovineremo ogni futura vacanza

    LE MESTRUAZIONI

    C’è una foto di me che odio. Sono in montagna, al campeggio che la parrocchia organizzava tutti gli anni. Ho dei pantaloncini corti beige, una T-shirt viola e un cappellino da pescatore che oggi andrebbe quasi di moda. Ma soprattutto ho i capezzoli che sporgono, come due bottoni in rilievo, e fanno intuire che qualcosa lì sotto sta crescendo. Riguardando quell’immagine sento l’imbarazzo dei miei dodici anni, mi vedo di nuovo brutta, impacciata, sfigata. Con le tettine a punta.

    Diciamocelo: entrare nella pubertà fa schifo. Per te che la vivi e anche per chi ti osserva: cambiare, crescere, vedere i peli comparire, passare da una fase di tenerezza estrema alla musica sparata a volumi improponibili a qualsiasi ora del giorno. E le mestruazioni non aiutano di certo.

    Mi ricordo il giorno in cui quelle fantomatiche macchie sono comparse sulle mie mutande: era un weekend e dovevamo andare al torrente con la mia famiglia. Il ciclo stava facendo la sua comparsa sbattendomi in faccia la prima delle sue regole: «Ti rovinerò ogni singola futura vacanza, perché, ovviamente, arriverò sempre la sera prima della tua partenza». Legge di Murphy a parte, in quel frangente mi ricordo di non aver fatto scenate. Sembrava quasi una grande conquista; mia madre e mia nonna erano contente, mio padre disinteressato e io indossavo il mio primo assorbente con orgoglio, atteggiandomi a donna di grande esperienza: «Eh, sai, non posso fare il bagno. Ho le mie cose». Poi, però, la giornata è finita e ho realizzato che l’indomani ci sarebbe stata scuola.

    Non so perché feci quel che feci. Sentivo, come probabilmente molti adolescenti, la necessità di essere approvata. Mi vergognavo del mio corpo: non avevo ancora la maturità necessaria per fregarmene degli altri e neanche per capire quali erano le mie caratteristiche migliori e valorizzarle. In classe quasi nessuno parlava di menarca e così feci anche io: per mesi finsi di non avere il ciclo. Ho dei ricordi vaghi di quei giorni: dove nascondevo gli assorbenti? Come facevo con le lezioni di ginnastica? In ogni caso, ricordo quanto mi sentissi diversa, esclusa, umiliata dalle mestruazioni. Poi, quando la natura ha fatto il suo corso e anche le mie compagne hanno iniziato a svilupparsi, all’improvviso ho dichiarato che sì, era successo anche a me: «Guarda proprio ieri. Sì, sì, dolore alla pancia, gocce pallide di sangue, quella roba lì».

    La ritrosia a parlare di come il mio corpo stava cambiando può essere sicuramente ricondotta al pregiudizio e al tabù che le mestruazioni portano con sé. Si parte da molto lontano. Perfino nell’Antico Testamento, precisamente nel Levitico, si legge: «Quando una donna avrà perdite di sangue per le mestruazioni, la sua impurità durerà sette giorni; e chiunque la toccherà sarà impuro fino a sera»; seguono indicazioni di tutti i luoghi della casa da non toccare («Ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà impuro») e vari altri moniti. Luoghi comuni, superstizioni, pregiudizi: l’immaginario collettivo e la società patriarcale hanno descritto per molti secoli le mestruazioni come un fenomeno che compromette del tutto le attività di una donna e che, anzi, in alcuni casi la obbliga a ritirarsi dalla vita sociale.

    Il flusso mestruale non è una cosa di cui si parla apertamente. Prendiamo per esempio tutte le perifrasi che utilizziamo anche noi donne per riferirci al fenomeno: quei giorni, le mie cose, il ciclo, sono indisposta, tutti modi per non nominare qualcosa che è difficile definire con il suo nome. Vogliamo nascondere le mestruazioni, minimizzarle, far finta che non esistano. Nel 1946 la Disney produsse un cortometraggio animato da proiettare nelle scuole per spiegare le mestruazioni, su commissione della Kotex, l’azienda americana produttrice di assorbenti: si chiama The Story of Menstruation e, nonostante i toni paternalistici, rappresenta uno dei primi tentativi di fare divulgazione sul ciclo mestruale alle bambine andando contro alcuni dei pregiudizi in merito, come quello di non poter fare bagni caldi o evitare l’attività fisica. Tentativo encomiabile, certo, ma poi ai giorni nostri succede ancora questo: «Umiliazioni, minorenni nude, torture, bondage, donne trattate come oggetti: sembra che tutte queste cose vadano bene e siano accettate. Quando si tratta di mestruazioni invece no. Scatta la censura. Ma io sanguino ogni mese, dal mio grembo può nascere la vita. Avere le mestruazioni non significa essere sporca, non deve offendere nessuno, è naturale come respirare». Con queste parole nel 2015 la poetessa indiana Rupi Kaur denunciava sul suo profilo Facebook, in un post condiviso migliaia di volte, la censura da parte di Instagram di una fotografia che la ritraeva sul proprio letto con i pantaloni del pigiama sporchi di sangue mestruale. La fotografia era stata segnalata da moltissimi utenti come presunto contenuto inappropriato e quindi rimossa ben due volte dal social network, costretto poi a scusarsi.

    Come tutte le cose della nostra infanzia che sono state un tabù o fonte di imbarazzo, non ho ricordi precisi del momento in cui i miei genitori (presumibilmente mia madre) mi hanno spiegato cosa fossero le mestruazioni. Ricordo, però, una delle prime volte in cui ne ho parlato apertamente io. In vacanza, con aria di cospirazione ma anche con un certo senso di superiorità, chiesi un assorbente a un’amica di famiglia davanti al certamente ignaro figlio di sei anni. Lui mi guardò con ammirazione e mi disse: «Hai le mestruazioni? Vuol dire che sei grande e puoi avere dei bambini». Io rimasi sconvolta dalla sua preparazione sul tema, ma soprattutto scossa dal fatto che per la prima volta avevo pensato che avere le mestruazioni facesse di me una donna adulta. L’ho realizzato solo in quel momento, vedendo gli occhi di un bambino di sei anni equipararmi a sua madre, trent’anni più grande di me.

    Si stima che una donna nata e vissuta in un paese industrializzato abbia in media circa 450/500 ovulazioni (e quindi cicli mestruali) nel corso della propria vita, perdendo intorno ai ventiquattro litri di sangue. Le mestruazioni sono la normalità nella vita delle donne, ma ancora oggi c’è chi lo ritiene un argomento da evitare o di cui parlare a bassa voce. Quando ancora convivevo con il mio ex fidanzato, una mia coetanea (all’epoca avevo ventiquattro anni) mi chiese come facessi a vivere con lui senza imbarazzarmi di avere il ciclo e, di conseguenza, tenere in casa degli assorbenti rischiando che lui ne vedesse uno. Per fortuna, mi ero ormai lasciata alle spalle l’adolescente intimidita dalle mestruazioni, ma forse non era lo stesso per lei. D’altronde, anche nella comunicazione e nel marketing dei prodotti igienici femminili il sangue fatica ancora a essere rappresentato con il suo colore naturale, preferendo un irrealistico blu («Che fa subito pulito», direbbe mia nonna).

    Il mercato degli assorbenti usa e getta ha iniziato a svilupparsi in Europa e nel mondo a partire dalla Seconda guerra mondiale, anche se la loro invenzione risale a molti decenni prima: nel 1888 Johnson & Johnson, sfruttando un’idea di Benjamin Franklin per fermare il sanguinamento dei soldati feriti, crearono il primo assorbente usa e getta in pasta di legno (cellulosa mista a cotone). Gli assorbenti interni, invece, sono nati negli anni Venti del Novecento, brevettati e poi venduti con il nome di Tampax dagli anni Trenta in avanti. Per decenni la pubblicità ha perpetuato idee parziali o sbagliate sul ciclo mestruale: inizialmente gli assorbenti interni venivano indicati solo alle donne sposate perché si credeva che potessero compromettere la verginità di chi li usava o che addirittura avrebbero potuto provocare piacere; negli Stati Uniti degli anni Settanta le pubblicità a riguardo furono persino bandite dalla TV, e fino al 1985 in America in nessuna veniva utilizzata la parola mestruazioni. Per assistere all’incredibile spettacolo di un uomo che va al supermercato a comprare degli assorbenti per la sua compagna o vedere del liquido rosso rappresentare il sangue, abbiamo dovuto aspettare il 2017 e una pubblicità di Bodyform (Nuvenia in Italia), nata all’interno di una campagna di normalizzazione delle mestruazioni intitolata Blood Normal.

    «La notte prima della maratona di Londra mi è venuto il ciclo, faceva un male terribile. Sarebbe stata la mia prima maratona e ricordo ancora la mia agitazione. Avevo passato un intero anno ad allenarmi duramente, ma mai durante il ciclo» scriveva Kiran Ghandi sull’Huffington Post nel 2015. Cercando su Google le immagini della ragazza che in quell’anno ha corso la maratona senza utilizzare un assorbente, la si vede con i capelli scuri raccolti da una fascia colorata, tra le gambe la macchia inequivocabile delle mestruazioni. Artista, attivista, produttrice musicale, questa trentenne di origini indiane ha scelto la via del free bleeding durante la manifestazione inglese per portare l’attenzione sulle donne che, diversamente da lei, non hanno libero accesso ad assorbenti e prodotti femminili e che sono per questo costrette a rimanere chiuse in casa, a volte rinunciando persino alla scuola, durante quei giorni. Non si parla solo di paesi in via di sviluppo, sono cose che succedono anche in Europa: è per questo motivo che nel 2018 la Scozia ha iniziato a fornire gratuitamente assorbenti e altri prodotti sanitari femminili essenziali alle studentesse. L’iniziativa è nata soprattutto per contrastare quella che viene definita period poverty, lo stato di povertà che impedisce ad alcune ragazze di andare a scuola quando hanno le mestruazioni perché non possono permettersi di comprare gli assorbenti.

    «Noi donne abbiamo il ciclo ogni mese, ma per il paese in cui vivo questo è un dettaglio. Come un dettaglio sono i crampi, le emicranie che ti staccheresti la testa a morsi, il sangue che ti scorre tra le gambe. Un po’ come se tutto ciò non fosse davvero importante» scriveva Igiaba Scego su Internazionale nel 2016. Erano i mesi in cui nel nostro paese si era iniziato a parlare di Tampon Tax, grazie alla proposta di legge del deputato di Possibile Pippo Civati. Una proposta il cui obiettivo era abbassare l’Iva sugli assorbenti e i tamponi dal 22% al 4%: renderli cioè non più prodotti di lusso, ma beni di prima necessità (come invece è considerato, per esempio, il tartufo, la cui variante fresca è tassata al 5%). Dopo quello di Civati, nel nostro paese sono seguiti altri timidi tentativi per modificare la situazione corrente: il Ddl proposto dal deputato del Movimento 5 Stelle Pierpaolo Sileri, il cui obiettivo era iniziare a considerare gli assorbenti presidi medici, e quello della deputata Pd Enza Bruno Bossio a inizio 2019, firmataria di una nuova proposta di legge per la riduzione dell’Iva sui prodotti igienici femminili al 5%. L’emendamento, contenuto nel decreto sulla semplificazione fiscale, è stato però bocciato dalla Camera a maggio dello stesso anno. Il Movimento 5 Stelle, da sempre sensibile a questi temi e in quel momento parte della maggioranza di governo, ha votato contro la proposta, dando la colpa ai costi troppo alti per lo Stato. Il tema è tornato in aula alla fine del 2019, quando il governo Conte II ha deciso che l’Iva sarà abbassata al 5%, ma solo sugli assorbenti compostabili e biodegradabili.

    All’estero il primo paese a lavorare sull’abbassamento del prezzo degli assorbenti è stato il Kenya: dal 2004 ha cominciato a diminuirne la tassazione e dal 2011 ha attivato un progetto per la loro distribuzione gratuita nelle scuole. Nel 2000 il Regno Unito ha abbassato l’Iva sui prodotti sanitari femminili dal 17,5 al 5%; in Canada, nel 2015, la tassa su tamponi, assorbenti e coppette mestruali è stata eliminata del tutto, mentre nello stesso anno la Francia ha abbassato la tassazione dal 20 al 5,5%. Dal 2020 anche la Germania applicherà l’Iva al 7% anziché al 19%.

    *

    Come abbiamo detto, le mestruazioni sono parte della vita di una donna e non devono diventare motivo di disuguaglianza, un tabù o un problema solo individuale. Ma cosa succede quando questo aspetto della femminilità si scontra col mondo del lavoro? Per esempio quando si parla di congedo mestruale, cioè la possibilità di avere alcuni giorni al mese di permesso retribuito per le donne che soffrono particolarmente per i dolori mestruali? Dismenorrea è il termine medico per indicare questo tipo di dolori che possono essere, a volte, facilmente gestibili con un antidolorifico, altre, invece, diventano estremamente debilitanti.

    Il congedo mestruale è molto diffuso in Oriente, ma è strettamente legato ad alcuni pregiudizi, tra i quali la credenza popolare che considera la donna impura durante il mestruo o l’idea che debba riposare per non mettere a rischio la propria fertilità. In diversi paesi di questa parte del mondo sono previsti dei giorni di malattia: in Giappone, per esempio, il congedo è in vigore dal dopoguerra e si chiama seirikyuuka (che Google Translate traduce come vacanze per le mestruazioni); in Indonesia la legge c’è, prevede due giorni di riposo, ma viene violata da molte aziende e capita che alle donne venga chiesto di dimostrare di essere nei giorni di ciclo mestruale, con tutta l’umiliazione del caso. Anche in Corea del Sud la legge è in vigore dal 2001, ma sono in poche ad approfittarne, per paura di ritorsioni.

    In Italia nel 2016 è stata presentata alla Camera una proposta di legge firmata da quattro deputate del Pd – Romina Mura, Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato – che chiedeva tre giorni di riposo al mese in caso di dismenorrea. La difficoltà nel trovare un punto di incontro su questo tema è dovuta al fatto che l’opinione pubblica si divide ancora tra chi ritiene il congedo mestruale un baluardo di civiltà, e chi invece ne segnala la pericolosa discriminazione, che potrebbe portare i datori di lavoro a preferire dipendenti maschi.

    «Essere una donna è un supplizio» dice la Statua della Libertà a Jessi nella seconda puntata della prima stagione di Big Mouth, una serie animata di Netflix uscita nel 2017. Il programma racconta dei cambiamenti che l’adolescenza porta con sé e una puntata è dedicata proprio al menarca: si vede il sangue rosso, mentre in sottofondo Michael

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1