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Le Ballate del Cielo
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E-book229 pagine2 ore

Le Ballate del Cielo

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Info su questo ebook

In un Paese asiatico, una catena di strani accadimenti lascia la sua amara impronta di desolazione in centinaia di persone.
Per decenni si contano dispersi, senza alcuna spiegazione. Un mistero insolito e insospettabile, riguardo al quale solo molti anni dopo iniziano ad apparire piste affidabili.
Contemporaneamente, dalla parte opposta del pianeta, un giovane avvocato va incontro a un duro scontro con la realtà quando inizia a esercitare la propria professione in maniera indipendente.
Colpito da ciò che vede, decide di rifugiarsi in un'altra attività legata alla sua formazione accademica, senza sospettare che, nel farlo, dovrà avventurarsi nei più intricati meandri delle sue paure, delle sue insicurezze e confrontarsi con i fantasmi del passato, che non lo hanno mai abbandonato.
Per uno strano caso, le due storie si incroceranno e la conclusione sarà di forte impatto, un qualcosa che nessuno riesce a immaginare.

LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2023
ISBN9798215288795
Le Ballate del Cielo
Autore

Franklin Díaz Lárez

Franklin Díaz es abogado, especialista en inmigración, en docencia universitaria y escritor.Ha escrito y publicado los siguientes textos:Novelas:* El Amante de Isabella* Mis Genes Malditos* Las Baladas del Cielo* El Último Prefecto* La Casa del Columpio* Ramny y la Savia de Amor* Crónica de un Suicidio* El Aroma del MastrantoLibros de Autoayuda:* Siempre Puedo Continuar* De Esclavo a Empresario* El método PHILLIPS para dejar de fumar* RELAX al Alcance de Todos* Somos ResilientesTextos Didácticos:* La Gestión Inmobiliaria - Teoría y Práctica del Mundo de los Negocios Inmobiliarios* El Gestor Inmobiliario (Fundamentos Teóricos)* El Gestor Inmobiliario (Contratos y Formularios)* Quiero Publicar mi Libro.* Autopublicación en Papel (Createspace - Lulú - Bubok)* Guía Práctica del Camarero* El Vendedor de IdeasRelatos:* Susurros de AmorBlog:http://diazfranklin.wordpress.com

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    Anteprima del libro

    Le Ballate del Cielo - Franklin Díaz Lárez

    Nella città di Nigata, di fronte alle coste del Mar del Giappone, la mattina del 15 novembre 1977 una bambina di tredici anni si alzò per accingersi a compiere la sua routine quotidiana e andare a scuola, come faceva tutti i giorni della settimana. Allora frequentava il primo anno di educazione secondaria obbligatoria nella scuola Yorii, ubicata poco lontano da casa sua. Suo padre non volle aspettarla per accompagnarla in macchina perché, come ormai accadeva di frequente, si era riaddormentata e lui non poteva concedersi il lusso di arrivare tardi a lavoro. Lei ben presto uscì dalla sua stanza, stropicciandosi gli occhi e scostando alcune ciocche ingarbugliate dal volto gonfio, sua madre le servì latte tiepido e cereali nella sua tazza rosa di porcellana a fiori bianchi e azzurri, quella che usava tutti i giorni. Le disse di sbrigarsi se non voleva far tardi a lezione e che non dimenticasse di prendere un buon cappotto, perché le previsioni promettevano freddo.

    La bambina camminò lentamente, tra l’affaticato e il pigro, fino al tavolo di cucina. Si sedette al suo solito posto e si servì la colazione come al solito, a metà e di fretta. In seguito andò in bagno, dove si lavò i denti e la faccia. Tornata in camera, indossò l’uniforme da collegiale, si pettinò i capelli con un pettine largo e dai denti radi e li legò frettolosamente con un nastro abbinato al verde e ai colori scuri della sua gonna. Prese la pesante cartella piena di libri, quaderni e oggetti scolastici, diede un bacio e un abbraccio a sua madre a mo’ di saluto e salutò anche i due fratelli minori, ancora intenti a giocare con la colazione al tavolo di cucina.

    Alle sette in punto della sera, sua madre, preoccupata per il ritardo, decise di uscire a cercarla. Sarebbe dovuta rientrare almeno due ore prima. Quando arrivò al centro educativo, dieci minuti dopo, notò che vi erano ancora dei ragazzi che stavano facendo sport e perciò scacciò momentaneamente le sue preoccupazioni. Aspettò con pazienza, finché l’ultimo di loro non uscì dal cortile. Sua figlia non c’era né era stata lì quella sera.

    Disperata, chiamò suo marito a lavoro per informarlo dei fatti. Egli rientrò frettolosamente a casa e insieme iniziarono la ricerca. Non era mai accaduto nulla di simile. La loro figlia non aveva mai ritardato tanto né era andata da qualche altra parte all’uscita di scuola senza prima avvisare i genitori.

    Chiamarono amici, familiari e conoscenti senza risultati. Quasi a mezzanotte decisero di ricorrere alla polizia. Alcune sue compagne di classe li informarono che quel giorno non era andata a scuola. Iniziò una ricerca minuziosa e si portò avanti un rastrellamento esaustivo senza alcun risultato. La piccola era scomparsa senza lasciare tracce.

    Molto lontano da lì, dall’altra parte del pianeta, in un Paese tropicale del Sud America, tre fratelli, rispettivamente di undici, dodici e quattordici anni, discutevano in casa ciò che ciascuno di loro sarebbe divenuto da grande. Il maggiore voleva fare il pompiere, per spegnere incendi lì intorno con il suo camion; il mezzano voleva fare il vigile urbano, per multare tutti coloro che non avessero rispettato le norme sulla circolazione e il minore, cioè io, l’avvocato.

    Eravamo lontani anni luce anche solo dal sospettare la straordinaria ripercussione che quella sparizione avrebbe avuto sulla vita della nostra famiglia in generale e su quella di alcuni suoi membri in particolare, compreso io stesso. Neanche il più assurdo dei sogni avrebbe potuto prevederlo. Tutti i membri della mia famiglia erano nati e vissuti da sempre in Venezuela, un Paese ubicato a migliaia di chilometri dal Giappone. Non avevamo assolutamente nulla a che fare con esso.

    Fu nell’anno duemila, ventitré anni dopo, che i responsabili della sparizione della bambina giapponese si assunsero pubblicamente le loro responsabilità. Una vita intera. Un’eternità di sofferenze, fastidi e preoccupazioni per quei genitori. Allora io avevo già compiuto trentatré anni e realizzato il mio sogno di divenire avvocato.

    Quello stesso anno coincise con un successo che si ripercosse sulla mia vita professionale. A metà gennaio, alle due e qualcosa del pomeriggio, mio zio, unico socio del mio studio legale, tra l’allegro e il triste, entrò tutto trafelato in ufficio per darmi la notizia che dovevo presentarmi immediatamente di fronte al Governatore di Stato. Mi reclamava con urgenza per offrirmi l’incarico di prefetto. Si trattava di un impiego immediato e urgente, non ammetteva rinvii.

    Due ore più tardi avevo già accettato l’incarico, prestato giuramento, e mi trovavo seduto sui sedili posteriori di un taxi diretto al mio nuovo posto di lavoro.

    Tutto avvenne alla velocità della luce. Non mi fermai neanche un secondo a pensare, a meditare sul passo che stavo per fare. Perché mai avrei dovuto? Era l’opportunità che stavo aspettando, più che per lavorare come prefetto, per allontanarmi da quello che avevo fatto fino ad allora: esercitare da avvocato libero professionista.

    Il libero esercizio della mia professione risultò essere uno dei maggiori fallimenti della mia vita. Quando ero entrato all’università per studiare diritto, lo avevo fatto perché quella era la carriera che avevo sempre sognato: un ideale che avevo sin dall’infanzia. Per tutta la vita avevo voluto essere un avvocato. Sin da quando ero molto piccolo avevo manifestato l’insolita abitudine di difendere gli altri. Era qualcosa di naturale, di innato. Ogni volta che vedevo un’ingiustizia o qualcosa che sembrasse tale, saltavo su come una rana, anche a rischio di finire direttamente tra le fauci di qualche coccodrillo con la bocca aperta. A quello si sommava la particolarità che volevo sempre avere ragione su tutto, che ritenevo che quanto da me detto fosse l’unica cosa sicura: la cosa giusta.

    Coloro che mi conoscevano bene lo dicevano sempre. Mia nonna per prima. «Piccolo! –diceva in alcune occasioni-; dovrai fare l’avvocato da grande, perché non ti piace perderne neanche una. Quando non vinci, pareggi»

    Per lei, sono sempre stato un testardo matricolato.

    I miei anni di studio furono anni di devozione, di dedizione assoluta alla ricerca della conoscenza e di tutto ciò che avesse a che fare con tutto quello che tanto veneravo: l’ideale di giustizia, le forme in cui si costituisce il diritto, gli insegnamenti giuridici di tutti i tempi, le radici profonde e più antiche dell’ordinamento giuridico, ecc.

    Più studiavo, più mi convincevo di non aver sbagliato nel fare la mia scelta. La mia fascinazione, l’incantamento e persino, in qualche modo, l’innamoramento nei confronti dei miei studi diventavano quasi ossessivi, anche se più di uno diceva di superarmi.

    Durante il mio percorso verso l’ottenimento del titolo mi allontanai da tutti e da tutto ciò che non era legato ai miei studi. Le mie ansie di avere conoscenze giuridiche non conoscevano limiti. E si dava il caso, per mia grande soddisfazione, che più studiavo più mi rendevo conto di quanto avessi da imparare, di quanto fosse complesso e immenso il mondo del diritto.

    Quelli furono anni di vera felicità. Anni di devozione quasi religiosa, di consegna totale e assoluta a quello che fino ad allora era stato l’unico e vero amore della mia vita: la conoscenza delle scienze giuridiche. E non schifai nessuno dei molti rami del diritto. Studiai con lo stesso fervore sia il diritto penale che il diritto civile, il commerciale, quello del lavoro, quello processuale, quello romano, quello costituzionale, la filosofia del diritto, la storia del diritto, ecc.

    Quando terminai gli studi e registrai il mio titolo di nuovo e fiammante avvocato, affittai un piccolo ufficio nel centro della mia città natale con colui che da quel momento sarebbe stato il mio nuovo socio: uno dei miei zii paterni. Un ragazzotto che aveva già passato la trentina. Si era laureato un anno prima di me e mi aveva aspettato tutto quel tempo per poter lavorare insieme. La sua condizione non cessava di sembrare strana e ti faceva interrogare su cosa sarebbe stato di lui se io non fossi divenuto avvocato o se non fossi tornato nella mia città natale per porre lì le basi della mia professione.

    Il tutto risultava ancora più sorprendente se consideriamo che il nostro rapporto non era mai stato particolarmente stretto, anzi. Essendo egli mio zio paterno, per tutta la vita mi ero tenuto lontano da lui, così come da tutto quanto avesse un qualche tipo di relazione con il ramo paterno della mia famiglia.

    Per uno scherzo del destino, mia madre si separò da mio padre lo stesso anno in cui nacqui ed entrambi vissero uno lontano dall’altra, con la peculiarità che fu lei a prendersi carico, in maniera esclusiva, dei tre frutti di quell’unione: i miei due fratelli e io. Mio padre si risposò ed ebbe ancora quattro figli dalla sua nuova relazione e non volle più sapere alcunché né di mia madre né dei tre pargoletti con lei concepiti. Non venne mai a trovarci né contribuì in alcun modo al nostro mantenimento. Né lui né nessuno dei membri della sua famiglia.

    Nonostante quello che pensava molta gente, forse per il modo in cui tutto quanto era avvenuto, né i miei fratelli né io abbiamo mai nutrito alcun tipo di rancore o altro sentimento simile contro mio padre né contro nessuno dei membri della sua famiglia. Fin da quando eravamo molto piccoli mia madre ci aveva inculcato l’idea che i sentimenti negativi come l’invidia o il rancore colpivano solamente coloro in cui albergavano e non coloro nei confronti dei quali venivano provati.

    Non cessava dunque di essere un po’ strano che ora, dopo un’intera vita di lontananza, l’unico membro della mia famiglia dal lato paterno che, come me, era divenuto avvocato per ragioni che nessuno comprendeva stesse aspettando proprio me per iniziare a esercitare la professione. Perché proprio io?

    Allo stesso modo risultava oltremodo stupefacente il fatto che, invece di essersi messo a esercitare fin da subito la professione avvocatizia, avesse preferito dedicarsi, mentre mi aspettava, alla vendita di succhi di arance appena spremute nel mercatino della città. Un lavoro che non aveva nulla a che fare con ciò che aveva studiato, e che gli dava a malapena di che vivere.

    Nonostante quanto si dica, con tutte le ragioni, che non esiste lavoro disonorevole o che qualunque tipo di lavoro lecito è dignitoso, la cosa certa è che mio zio era costantemente oggetto di burle e umiliazioni, alcune volte nascoste, altre non molto, da parte di coloro che lo conoscevano.

    Ma egli era impermeabile: tutto gli rimbalzava addosso. Non gli davano affatto fastidio i malsani commenti che la gente faceva sulla sua persona o su ciò che faceva. E non è che facesse come fanno molti, che perdonasse e dimenticasse, piuttosto non dava importanza a ciò a cui non voleva darla, a ciò che sapeva che in qualche modo poteva colpirlo. Da ciò derivava che non si fosse mai venuti a conoscenza di un qualche suo nemico.

    Una cosa sembrava evidente: la sua attesa per me non aveva a che fare con me come persona, come amico (poiché non lo ero né lo ero mai stato prima), ma come avvocato conosciuto.

    Quando seppe che ero vicino alla laurea, venne a trovarmi un giorno a casa e mi disse che, se volevo, quando avessi terminato gli studi avremmo potuto mettere su uno studio insieme. Non gli dissi né di sì né di no, ma che ci avrei pensato prima di prendere una decisione.

    Allora mi sorsero molti interrogativi. Avrà avuto qualche esperienza negativa? Avrà qualche tipo di timore, qualche grave mancanza di fiducia in se stesso? Avrà bisogno di qualche tipo di appoggio che nessuno era stato capace di fornirgli? Perché, nel periodo in cui non aveva esercitato come avvocato, non si era interessato a cercare un’occupazione più confacente alle sue conoscenze, alla sua formazione accademica?

    Mia madre, diffidente nei suoi confronti come nei confronti di tutto quanto avesse qualcosa a che fare con la famiglia di mio padre, quando venne a sapere che avevamo intenzione di mettere su uno studio insieme mi chiese:

    -E questo…, cosa vuole da te? Che gli insegni a fare l’avvocato o che tu te lo accolli?

    -Né l’una né l’altra cosa-le dissi, provando a tranquillizzarla.- Ciascuno andrà per la sua strada. L’unica cosa che faremo sarà dividere le spese, niente di più.

    Mi piacerebbe dire che si tranquillizzò alle mie spiegazioni, che non diede più importanza a quel modo in cui pensai di iniziare a esercitare la mia professione, ma non fu così.

    Nonostante ella avesse sempre lottato perché noi non serbassimo rancori di alcun tipo nei confronti di nostro padre né di nessuno dei membri della sua famiglia, non fui mai sicuro al cento per cento che lei stessa non li covasse. Non volle mai parlare con noi di questo argomento.

    Capitolo 2

    Poche settimane dopo aver registrato il mio titolo iniziai a esercitare da avvocato indipendente. La gente iniziò a trattarmi da dottore, come vengono trattati tutti gli avvocati in Venezuela, anche se non ho mai saputo perché. Si suppone che siano dottori quelli che conseguono un dottorato, e non era il nostro caso. Era una sorta di titolo sociale che veniva aggiunto a quello accademico, in maniera assoluta e assolutamente gratuita. Una forma di trattamento nuova e differenziante che mi poneva su di un piedistallo separato da quello dei comuni mortali appartenenti alla nostra società. Ora ero il fiammante Dottor Franklin Díaz e non la semplicissima persona che ero stato fino a quel momento: semplicemente Franklin, o Frank per gli amici.

    Non avevo studiato per diventare dottore, ma semplicemente avvocato. Tuttavia accettai di buon grado quella peculiare stranezza perché credetti di non dover essere io quello che sarebbe andato controcorrente e che avrebbe iniziato a dire alla gente che si sbagliava nel trattarci così.

    Le settimane e i mesi successivi furono invece i più orribili della mia vita. Assistetti attonito e stupefatto alla prova certa che niente di tutto ciò che avevo studiato, al quale avevo posto tanta attenzione, mi serviva ora per lavorare.

    La profonda conoscenza delle scienze giuridiche ora mi risultava assolutamente inutile, nel momento in cui mi trovavo a esercitare come avvocato. Accadeva che i migliori avvocati erano quelli che avevano maggiore capacità di corrompere, di corrompere giudici, pubblici ministeri, segretari, ufficiali giudiziari e, in conclusione, tutti i funzionari giuridici in generale.

    Non servivano a nulla le conoscenze e neanche il semplice fatto di avere ragione su quanto chiesto e preteso. L’unica cosa che importava era la capacità di corrompere, corrompere e basta.

    Ebbi la disdetta o la disgrazia (per dirlo con un termine che si adatti di più e in maniera migliore alla situazione) di imbattermi in avvocati che a malapena sapevano leggere e scrivere (sì, davvero: a malapena sapevano leggere e scrivere!), ma che senza dubbio erano affermati giuristi, oggetto di continui elogi e lodi non solo da parte della collettività in generale ma, cosa ancora peggiore, anche da parte della corporazione degli avvocati al gran completo.

    «Come diamine avrà ottenuto il titolo, questo qua?» -- pensavo io stupefatto, con rabbia e indignazione.

    I livelli di corruzione nei tribunali, nei pubblici ministeri, nei registri e negli studi notarili erano talmente esagerati che

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