Serial killer – L'uomo dietro il mostro
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Anteprima del libro
Serial killer – L'uomo dietro il mostro - Florence McLean
Florence McLean
Serial killer
L’uomo dietro il mostro
Translated by Luca Vaccari
SAGA Egmont
Serial killer – L’uomo dietro il mostro
Translated by Luca Vaccari
Original title: Seriemorder - Mennesket bag Monsteret
Original language: Danish
Copyright ©2021, 2023 Florence McLean and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728209660
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
GRAZIE
a tutti voi che avete fatto la differenza nella mia vita…
E in particolare a mia madre, al mio compagno, a Søren, a Pernille e, non da ultimo, a Bent.
E a tutti voi che mi avete lasciato esplorare la vostra mente.
PREFAZIONE
Questo libro nasce da uno studio sui serial killer che condussi negli anni 2002 e 2003 per la tesi in psicologia all’Università di Aarhus, intitolata Serial killer – comprensione e prevenzione. Trattandosi di materiale confidenziale, non farò i nomi dei 34 partecipanti, fra cui 30 assassini seriali negli Stati Uniti, tre in Inghilterra e uno in Australia. A tutti inviai un questionario con domande aperte e la metà di loro mi mandò risposte utili. L’obiettivo era esaminare se, con l’ausilio delle teorie su cui si basa la profilazione dell’autore del reato, fosse possibile sviluppare un metodo per identificare i potenziali serial killer prima che commettano il primo delitto.
Come mio caso principale, anche per una successiva relazione di ricerca, scelsi l’americano Arthur John Shawcross, perché fu uno dei pochi a rispondere a tutte le mie domande, l’unico con il quale continuai lo scambio epistolare e che, in seguito, acconsentì all’utilizzo delle risposte e del proprio nome. Gli altri assassini seriali citati per nome sono stati coinvolti in casi che ho studiato, noti e descritti approfonditamente in altri testi, film e documentari. Per la genesi di questo libro ho anche esaminato nuovi casi di omicidi seriali commessi fino al 2020, partendo dal modello che sviluppai per la tesi.
Florence McLean
Aarhus, febbraio 2021
PROLOGO
LA LETTERA
Quando una mattina del 2003 ricevetti la prima lettera di un serial killer, provai una certa agitazione. All’epoca, non avevo la minima idea di quanto mi sarei avvicinata a questa categoria di criminali. Notai subito i sette francobolli uguali con la bandiera americana e, quando la presi in mano, fui attraversata da una scossa, dalla testa ai piedi. La busta riportava un timbro: «Mailed from a state correctional institution» [Inviata da un penitenziario statale, N.d.T.]. Ancora non sapevo se quella dicitura fosse un’informazione, un avvertimento o entrambe le cose.
Andai in soggiorno e l’appoggiai sul tavolo. Era una grossa busta. Fantastico!
pensai, perché significava che il mittente aveva risposto a tutte le domande. Sul fronte qualcuno aveva aggiunto: «1 photo enclosed» [1 foto allegata, N.d.T.].
Iniziai a leggere e mi resi presto conto che il mittente non aveva risposto affatto. Sfogliai avidamente i fogli blu, dai quali faccine disegnate mi lanciavano sguardi che, a mano a mano che procedevo, si facevano sempre più sgradevoli. Su una pagina l’assassino aveva tracciato il profilo di una mano gigante. Mi caddero gli occhi su una scritta in maiuscolo, «SNAP» [Schiocco delle dita, N.d.T.], il rumore di un ramo spezzato… o forse altro.
Il mio cuore accelerò, ripensando alle parole del famoso criminal profiler John E. Douglas e dell’FBI; quando avevo iniziato il progetto, mi avevano detto: «Qualsiasi cosa farai, cercheranno di intimidirti!».
Ricordai anche a me stessa che la lettera doveva essere stata controllata in prigione, quindi tornai all’inizio per leggerla attentamente. Mi fu subito chiaro che, per partecipare allo studio, il mittente poneva una serie di condizioni. Menzionava di essere stato contattato da numerosi ricercatori e di sentirsi come una cavia, che tutti volevano rappresentare come un mostro. Sottolineava di non essere interessato al denaro, bensì a me.
«Dopo 20 anni in una cella, circondato da uomini, ti sarà facile immaginare che cosa mi interessa maggiormente di te, Florence…».
Ed ecco la condizione: per dimostrargli la mia affidabilità, voleva che gli mandassi delle foto, aggiungendo che, secondo il regolamento penitenziario, mi era permesso allegarne cinque a ogni lettera. Per giunta, non dovevano essere scelte a caso. «La prossima volta che mi scrivi voglio vedere cinque foto…».
Seguiva la descrizione: un primo piano del mio viso, una foto a figura intera, una da dietro, una di fianco e una scattata sul mio letto.
«Sei libera di scegliere l’abbigliamento, ma sappi che mi piacciono le camicette attillate e i tacchi a spillo».
Non era finita qui. Accanto a una faccina con la lingua fuori e un sopracciglio rivolto verso il basso, un’espressione piuttosto diabolica, ribadiva come sarebbero dovute essere le foto seguenti, specificando che sarei dovuta essere sempre meno vestita.
«Le foto nude non sono ammesse, ma di sicuro possiedi un qualche capo non troppo coprente. Dovrai posare per me, lasciando ben poco alla fantasia».
Era importante che io non sorridessi in direzione della fotocamera, non lo eccitava. Dovevo mantenere uno sguardo serio. Mi chiesi se istruzioni così dettagliate avessero un qualche legame con le sue vittime. Non era un’esagerazione, perché quell’uomo era condannato all’ergastolo per aver violentato e assassinato almeno dieci donne.
Prima del primo delitto aveva compiuto diversi stupri. Nel giro di tre anni, aveva assalito numerose donne dopo essersi fatto aprire con pretesti innocenti come aver bisogno di una toilette; se erano sole in casa, passava all’azione. Si muoveva anche nelle zone famose per la prostituzione e, in quel modo, riusciva periodicamente ad attirare le vittime a casa sua, dove le legava con una corda e le violentava per ore prima di ucciderle; alcune le strangolava, ad altre tagliava la gola, altre ancora le riempiva di botte. Abbandonava i cadaveri fra i cespugli lungo strade isolate, il più delle volte in posizioni che ne esponevano gli organi sessuali.
Era stato fermato poco dopo che una donna era riuscita a scappare, dopo oltre ventiquattr’ore di sevizie. Inizialmente, l’uomo aveva evitato la pena capitale dichiarandosi colpevole di diversi sequestri e omicidi, ma quando era stata scoperta un’altra vittima, era stato rinchiuso a vita nella prigione da cui mi scrisse.
«Riesci a immaginarmi accanto a te adesso? Uno schiocco delle dita e ti ho presa! Puoi immaginartelo in qualsiasi momento? Ti ho presa un’altra volta!».
Fui travolta da un senso di nausea: da un lato ci stava provando con me, dall’altro la sua totale assenza di limiti mi faceva venire i brividi lungo la schiena.
CAPITOLO 1
NON ERA PREVISTO…
Scorsi l’elenco telefonico con l’indice fino al numero di Mirjana Tived Rosenlund.
Abitava al civico accanto, ma talvolta mi veniva più facile telefonare. Una volta trovato il suo nome, notai che era preceduto da un’abbreviazione: dott. psic. Non l’avevo mai sentita e mi domandai che cosa significasse.
Conoscevo Mirjana da anni. All’inizio ci incrociavamo per strada, quando portavamo a spasso i cani. Avevamo entrambe tre shihtzu, una razza di cani di piccola taglia, vivaci e intelligenti, originaria del Tibet, e fu piuttosto naturale attaccare bottone. Parlavamo soprattutto di cuccioli, genetica e allevatori, ma con il passare del tempo finimmo per affrontare tanti altri argomenti e frequentarci. Io avevo compiuto 19 anni, Mirjana ne aveva 14 più di me.
Poco dopo, mi invitò a prendere un caffè a casa sua, dove abitava con il compagno.
«Cosa significa quel dott. psic. sull’elenco telefonico?» domandai.
«Sono una psicologa».
«Di che tipo?».
Mirjana illustrò a grandi linee chi è uno psicologo, ma io volevo sapere con più precisione di che cosa si occupava lei. Mi raccontò di seguire minori che avevano problemi di varia natura a scuola.
«Uno psicologo assiste le persone in difficoltà» aggiunse.
«Tu in che modo lo fai?».
«Prima di tutto, parlandoci».
Più Mirjana procedeva nel racconto, più ero convinta di voler diventare anch’io una psicologa. Restava un’unica questione, non di poco conto: avevo abbandonato gli studi prima della maturità.
Da giovane, mentre era in Inghilterra come au-pair, mia madre aveva conosciuto mio padre, originario della Giamaica. Si erano innamorati, sposati e trasferiti in Danimarca, dove avevano avuto mia sorella maggiore e me. Ai tempi, non c’erano molte persone di colore in Danimarca, e tanto meno in Fyn, la regione di mia madre. Per strada, la gente non staccava gli occhi di dosso da mio padre e alcuni volevano addirittura un autografo. Soprattutto al lavoro era spesso oggetto di battute: «Non hai bisogno di lavarti, tu, sei già nero» dicevano. Gli insegnavano anche tante parolacce, facendogli intendere che avessero un significato neutro. Quando tornava a casa, mia madre lo correggeva sistematicamente.
Non ho ricordi diretti, ma a mia madre sembrava di dovere perennemente difendere la famiglia. Alla vista di mia sorella e me, la gente le chiedeva dove ci avesse comprate. Negli anni ’60, ai miei genitori veniva rammentato di continuo che il nostro aspetto era fuori del comune.
Quando non ne poterono più, i miei decisero di trasferirsi in Giamaica. Inizialmente, cercarono di convincere mia sorella e me che era un’ottima idea, ma io non capivo cosa andassimo a farci. Avevo sette anni e tanti compagni di giochi, la scuola mi piaceva e non avevo nessuna voglia di trasferirmi all’altro capo del mondo. In ogni caso, un giorno i miei genitori ci comunicarono che eravamo pronti per partire.
Alcuni dei ricordi più nitidi del mio periodo in Giamaica sono legati a parenti e amici. La famiglia di mio padre aveva una piantagione di arance e banane sui monti circostanti la città di Spaldings, nella regione di Clarendon, dove abitavamo con la nonna Florence e il nonno Arthur. C’erano dei grossi ragni, di cui trovavamo spesso l’esoscheletro dopo la muta. Fin dal giorno in cui eravamo arrivati, ci era stato detto chiaramente di dare qualche colpo alla tavoletta prima di sederci alla toilette, perché in quel modo avremmo potuto scacciare i ragnetti velenosi che si nascondevano là sotto.
Fortunatamente, alla piantagione c’erano anche altri animali. Ero molto affezionata a Blackie e Lassie, due labrador, e sono convinta che la mia passione per i cani sia nata lì. C’era anche una gallina cieca, che per una ragione o per l’altra divenne di mia proprietà; mi seguiva ovunque, come un cagnolino. Ricordo che un giorno, credendo che le avessero tirato il collo, mi rifiutai di mangiare.
La nonna svolgeva il grosso dei lavori domestici, la vedo ancora davanti al pentolone, impegnata per ore a prepararci la cena. Il nonno lavorava nei campi tutto il giorno e tornava prima dell’imbrunire. Mio padre aiutava i nonni nella piantagione. Secondo il nonno, che era della vecchia scuola, la mia educazione era inadeguata. Ricordo che mio padre si rivolgeva a lui con una notevole dose di rispetto: «Yes, sir! No, sir». D’altra parte, ai tempi in Giamaica si usava fare così.
Sperimentai io stessa quel tipo di disciplina ai tempi della scuola, dove le punizioni corporali erano all’ordine del giorno. Prima che cominciassi, i miei andarono a parlare con gli insegnanti, ribadendo che non dovevano picchiarmi per alcun motivo. Era una sensazione piuttosto strana, perché un giorno copiai tutta la verifica da mia cugina e, mentre lei si prese un paio di ceffoni, l’insegnante disse che nella mia non c’erano errori. Le cose non migliorarono quando scoprii che ogni mattina in classe dovevamo pregare Dio. Secondo me, non era lo stesso dio di casa nostra. Benché provassero a spiegarmi che erano cristiani anche loro, io mi mettevo con ostentazione le mani dietro la schiena, quando gli altri le tenevano conserte. Quando un mio compagno di classe fu picchiato al punto di sanguinare, fu troppo per me; scappai a casa e dissi ai miei che mi rifiutavo di tornare a scuola. E così fu.
Ricordo quel periodo come segnato da una libertà smodata. C’era sempre qualcuno con cui giocare, nessuno diceva cosa ci era permesso e cosa ci era vietato, forse perché noi bambini dovevamo sostanzialmente badare a noi stessi. Dato che non c’era l’energia elettrica, alla sera catturavamo le lucciole nei bicchieri e, al loro bagliore, ci raccontavamo storie di fantasmi. I più grandicelli badavano ai piccoli e, se sorgevano conflitti, dovevamo risolverli da soli; questo atteggiamento mi ha accompagnata per tutta la vita.
Non poteva andare avanti così. I miei provarono invano a convincermi a riprendere la scuola. Alla fine, mia madre disse: «Non possiamo mandarcela a forza». L’unica soluzione era tornare in Danimarca. Prima di trasferirci in Giamaica avevamo venduto tutto, quindi il piano era che mia madre ci avrebbe preceduti per guadagnare qualche soldo e trovare una sistemazione. Fu un periodo orribile, perché mi mancava tremendamente ed ero convinta che non l’avrei più rivista. C’era mio padre, ma non lo rammento come particolarmente presente. Credo che avesse parecchio da fare alla piantagione, oltre a occuparsi di un suo appezzamento di terra nella zona. Mia sorella provava a consolarmi, ma non era mia madre.
Il ritorno in Danimarca fu una specie di cataclisma. Cominciai a frequentare una piccola scuola ad Aarhus, la Sct. Annagades Skole di Frederiksbjerg, dove mi trovavo bene, ma non durò a lungo, perché nel 1976 fu chiusa. Si arrabbiarono tutti, genitori e alunni, e io fui in prima fila quando si trattò di preparare gli striscioni per le dimostrazioni contro la maggioranza in consiglio comunale. Fu organizzato anche un referendum locale, ma dato che non si raggiunse il quorum, il piano fu