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Così è l'America: La mia storia da rifugiata a membro del Congresso
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Così è l'America: La mia storia da rifugiata a membro del Congresso
E-book234 pagine3 ore

Così è l'America: La mia storia da rifugiata a membro del Congresso

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Info su questo ebook

«Ilhan è stata una figura di grande ispirazione ben prima di essere eletta al Congresso degli Stati Uniti. Questo libro vi darà l’occasione di vedere la persona e la sorella che io vedo: appassionata, solidale, arguta, ma soprattutto impegnata a perseguire un cambiamento positivo. È un onore servire le istituzioni insieme a lei, lottando per un mondo più giusto.»
Alexandria Ocasio-Cortez, membro del Congresso

«Indipendentemente dalle opinioni politiche del lettore, la vita di Ilhan Omar è fonte di ispirazione.»
Kirkus

Ilhan Omar aveva solo otto anni quando in Somalia è scoppiata la guerra civile. Ultima di sette fratelli, dopo aver perso la madre in tenera età è stata cresciuta dal padre e dal nonno, e quando un commando armato ha attaccato la zona in cui vivevano è fuggita da Mogadiscio insieme alla famiglia, per approdare infine in un campo profughi in Kenya, dove ha patito la fame e ha visto morire amici e parenti. Dopo quattro anni e un iter burocratico lungo e penoso, finalmente ha ottenuto lo status di rifugiata ed è stata accolta ad Arlington, in Virginia.

All'epoca aveva dodici anni, era poverissima, parlava soltanto somalo e aveva perso diversi anni di scuola, ma si è rimboccata le maniche, decisa a inseguire il suo sogno americano. E pur scontrandosi con la dura realtà degli immigrati in America, ha lavorato senza sosta per smantellare stereotipi e costruire ponti all'interno della sua comunità. In meno di vent'anni è diventata un'attivista, si è laureata ed è stata eletta al Congresso come rappresentante del Minnesota facendo registrare un'affluenza record alle urne, pronta ad abbattere altri muri e a chiedere maggior trasparenza alle istituzioni di Washington.

Insieme ad altre donne innovatrici e progressiste come lei, da esempio di successo locale la deputata Omar è diventata una vera icona della politica in campo nazionale e internazionale nonostante i feroci e costanti attacchi dei suoi oppositori. Nel mezzo delle peggiori tempeste politiche ha sempre mantenuto la gentilezza, la sagacia e lo spirito patriottico che la contraddistinguono, senza mai rinunciare a difendere i propri ideali e a lottare per un'America più giusta.


Così è l'America non è solo la storia di formazione di una giovane rifugiata da cui trarre ispirazione, ma anche il racconto multidimensionale di speranze e ideali, delusioni e fallimenti, sacrifici e successi di una donna che oltre a servire lo Stato con passione nutre anche un'incrollabile fiducia nelle promesse dell'America.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2020
ISBN9788830522725
Così è l'America: La mia storia da rifugiata a membro del Congresso

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    Anteprima del libro

    Così è l'America - Ilhan Omar

    all’America.

    PROLOGO

    Grazie per ispirare tante ragazze, ovunque! Baci da Seattle.

    Salaam sorella – Dal Senegal occidentale a Detroit #13 fortissimo. Quello che fai amplifica la nostra voce.

    Non ricordo con esattezza quando hanno cominciato ad apparire sul muro fuori dal mio ufficio al Campidoglio: post-it con parole di ammirazione e incoraggiamento, lasciate da persone che venivano a volte da luoghi lontanissimi come Duluth, o Delhi.

    Deputata, arrivo dall’Oregon e DOVEVO vederla! Grazie per il suo CORAGGIO, la sua AUDACIA e la sua SCHIETTEZZA. Se verrà a Eugene l’accompagnerò a fare un giro.

    Grazie per tutto ciò che fa per proteggere i nostri tribunali!

    Lotta sempre per gli immigrati.

    Ricordo invece molto bene quando i bigliettini cominciarono a diventare un problema per la Sicurezza. È stato qualche mese dopo essere stata eletta al Congresso degli Stati Uniti nel 2018, prima donna musulmana americana di origini somale; quando il presidente Donald Trump intraprese la sua campagna contro di me su Twitter.

    Ilhan è un’eroina americana!

    Qualunque cosa dicano, noi saremo sempre con te!

    Dalla sera alla mattina, un grande mosaico multicolore di fogliettini adesivi apparve tutt’intorno alla bandiera americana e alla targa con il mio nome e quello dello stato che rappresento, il Minnesota. L’ufficio incaricato della manutenzione dell’edificio mi chiese di rimuoverli, così il mio team li tolse per spostarli su una parete all’interno del mio ufficio. Tuttavia, le persone che venivano in visita al palazzo del Congresso, aperto al pubblico dal lunedì al venerdì dalle sette del mattino alle sette di sera, continuarono a metterli sul muro fuori dalla mia porta.

    Grazie, dai voce a chi non può parlare.

    Sei un soldato del popolo, per la pace e la giustizia per tutti.

    Noi li staccavamo, ma i biglietti continuavano a comparire, finché l’ufficio manutenzione si è arreso e la parete di foglietti sgargianti è diventata una macchia colorata permanente sull’austero muro del corridoio.

    Ciò di cui vado fiera sopra ogni cosa non è il manifesto sostegno al mio lavoro di legislatore, alla lotta perché tutti i cittadini del mio collegio elettorale abbiano accesso al processo democratico. E neppure i complimenti o la profonda emozione che esprimono, anche se mi hanno aiutata a superare momenti molto difficili. La cosa che davvero mi commuove è la varietà di persone che scrivono quei messaggi. Individui con origini e prospettive radicalmente diverse. Ci sono post-it di adolescenti con i cuoricini sulle I e messaggi di membri dello staff del Senato che hanno dedicato un momento della loro lunga giornata in una città cinica a scrivere una parola buona.

    Un biglietto azzurro a forma di cuore con su scritto Le donne repubblicane sono con te accanto a un post-it giallo che dice Da un’immigrata nera a un’altra, sappi che ti voglio bene. Ho scoperto che le lettere ebraiche annotate su un foglietto celeste in yiddish significano «Gli sopravvivremo», gli ebrei ortodossi le cantarono nel 1939 come gesto di resistenza di fronte a un comandante nazista. E che tutte quelle persone, e altre ancora, fossero disposte a sostenere me, un’immigrata musulmana che al suo arrivo dall’Africa sapeva a malapena due parole d’inglese, è la prova che esistono legami assai più forti di quelli identitari.

    Da profuga fuggita da bambina da una guerra civile cerco ancora di capire come integrarmi; forse è per questo che il biglietto più importante che ho trovato sul muro fuori dal mio ufficio era di sole cinque parole:

    Questo è il tuo posto.

    1

    COMBATTENTE

    1982-1988

    Mogadiscio, Somalia

    La maestra fece appena in tempo ad affidare la nostra classe di terza elementare a uno dei miei compagni, perché mantenesse l’ordine, prima di uscire dalla stanza. Nella mia scuola era normale che gli studenti restassero in aula mentre i vari maestri si avvicendavano. E tra un’ora e l’altra non era inusuale che uno di noi venisse incaricato di tenere buoni gli altri.

    Come tutti i bambini, tendevamo ad approfittare della situazione. Quel giorno, però, al ragazzino in questione il potere dette veramente alla testa; quasi subito ordinò a un compagno più minuto di andare alla lavagna a svolgere un compito.

    «Ti prego» rispose il bambino chiamato in causa, «lasciami stare.»

    Ma il ragazzo più alto aveva deciso di andare fino in fondo e umiliare il compagno, in minoranza in tutti i sensi: povero, piccolo di statura, orfano, non aveva la stessa camicia bianca inamidata, i pantaloni dell’uniforme stirati e le scarpe lucide dei figli delle famiglie borghesi alle quali appartenevamo sia il ragazzo alto sia io.

    Il capoclasse continuava a prendere in giro la sua vittima in un crescendo di minacce, dato che l’altro insisteva a non volersi alzare dal suo banco, fino a che gridò: «Hooyadawus!», che in somalo significa «In culo a tua madre».

    Io avvampai di rabbia. Detesto la volgarità in generale, ma divento furiosa quando vengono tirate in ballo le madri, che da sempre sapevo essere intoccabili e sacre, anche se io non ne avevo una. Insomma, si parlava di continuo dell’importanza delle mamme, e l’Islam, la religione principale del mio paese d’origine, ci insegnava che «Il paradiso si stende ai piedi delle madri». La mamma va rispettata, i suoi desideri esauditi, certo non offesa.

    Ma c’erano anche forze più profonde all’opera di quanto la mia mente di bambina di sette anni potesse percepire in quel momento. Anche se grazie alle mie sorelle maggiori e a numerose zie affettuose non mi erano mancate le cure materne, mia madre, la mia hooyo, era morta quando ero molto piccola. Di lei non serbo alcun ricordo, malgrado altre cose di quel periodo mi siano rimaste nella memoria, come i miei parenti che discutono per decidere se devo o meno andare a scuola. Alcuni dei miei zii e zie pensavano che fossi troppo piccola, perché per tradizione dovevano essere caduti almeno i primi due denti da latte. «Perderà i libri» disse qualcuno. «Non saprà dove andare» aggiunse qualcun altro, «e gli altri bambini le ruberanno le sue cose.» Ma io protestai fino a che non cedettero. E non persi i libri né mi derubarono, anche se avevo ancora tutti i denti da latte.

    Ho un ricordo cristallino di tutta quella vicenda, ma la mia hooyo? Che aspetto aveva? Com’era la sua voce? Di cosa era morta? Nulla. Da grande sono perfino andata da un ipnotizzatore per cercare di evocare qualcosa, qualsiasi cosa – una voce, il ricordo di una carezza – ma non è affiorato nulla alla mia memoria. Ancora adesso lo trovo molto strano.

    Che fosse perché avevo abbracciato precocemente i dettami della mia religione o per il fatto che un’assenza è spesso più ingombrante di qualunque presenza, per me il concetto di madre è sempre stato molto importante, e non potevo tollerare nessuna mancanza di rispetto.

    «Non verrà alla lavagna proprio per niente» dissi al ragazzino prepotente. «Tu devi controllare che nessuno si alzi dal suo posto, non darci dei compiti, quindi adesso te ne stai buono e zitto e aspettiamo che torni la maestra.»

    Il ragazzino, alto almeno cinquanta centimetri più di me, non reagì come avevo sperato. «Se TU non chiudi quella boccaccia, te ne faccio pentire» ribatté minaccioso.

    Ero una bambina molto gracile, quindi quelli che non mi conoscevano pensavano fossi timida e schiva, la piccoletta che tutti prevaricano. E invece fare a botte non mi spaventava per niente, mi sentivo più grande e più forte degli altri, anche se sapevo che non era vero.

    «Ci vediamo nel cortile sul retro dopo la campanella» gli risposi. Era il posto dove i bambini si sfidavano.

    Poco prima che la maestra rientrasse finalmente in aula, il ragazzino che avevo cercato di difendere mi sussurrò: «Quando suona la campanella io scappo subito, perché dopo che avranno picchiato te, verranno a cercare me».

    «Se non vuoi che ti prendano di mira tutti i giorni» gli risposi, «devi difenderti da solo.»

    Poteva anche essere un codardo, ma non era un bugiardo: mantenne la parola, e finita la scuola se la dette a gambe.

    Circondati da una folla di bambini urlanti, io e il prepotente cominciammo la lotta. Ero minuta, ma sapevo il fatto mio; riuscii a farlo cadere a terra e gli strofinai la faccia nella sabbia. Quando mio fratello Malaaq, che era in terza media, arrivò per non perdersi la zuffa e vide che tenevo il ragazzino schiacciato per terra, gridò: «Ilhan! Ma che diavolo!».

    Non era sorpreso nel vedermi al centro di una zuffa, solo seccato. A casa nostra era sempre un gran viavai di genitori che venivano a lamentarsi perché avevo picchiato i loro figli. Mio padre rideva. «L’unica di cui nessuno dovrebbe lamentarsi è la mia piccolina.»

    Certo, ero la più piccola in una famiglia numerosa, e certo, ero esile. Ma questo non c’entrava con i rami che crescevano nel cespuglio vicino al cancello di casa nostra, perfetti come bastoni per mettere in fuga qualsiasi ragazzino mi seguisse dopo la scuola. Non mi sentivo piccola, soprattutto perché non ero mai stata trattata da bambina; nella mia bella famiglia rumorosa nessuno veniva trattato con condiscendenza.

    Nella tenuta di Mogadiscio dove vivevamo, piena di arte africana, libri di storia e poesia somale oltre che di musica, i contrasti erano all’ordine del giorno. Eravamo una famiglia multigenerazionale: zie, zii, cugini, fratelli e sorelle di mia madre, vivevamo tutti insieme.

    Eravamo molto diversi dalla famiglia somala tradizionale, in cui se il padre o la madre parlano gli altri non osano aprire bocca. Da noi chiunque, anche la più piccola di tutti, cioè io, veniva coinvolto nelle decisioni. A volte avrei preferito che baba, mio nonno, e aabe, mio padre, avessero un atteggiamento più autoritario; erano sempre accomodanti e pazienti nel corso delle discussioni. Tutti gridavano e dicevano la loro anche solo per decidere cosa avremmo mangiato a cena. Il conflitto costante ci rendeva allo stesso tempo tanto vicini quanto distanti gli uni dagli altri. Una cosa però ci accomunava: malgrado i diversi punti di vista, eravamo abituati alle discussioni.

    Nella mia famiglia non c’era niente di tipico, e ancora oggi non ne conosco nessun’altra che le somigli. In Somalia, infatti, dove le grandi famiglie allargate che vivono insieme sono spesso patrilineari, noi eravamo davvero un’anomalia: era stato il mio Aabe a trasferirsi da mia madre e dalla sua famiglia quando si erano sposati, mentre di solito sono i figli maschi ad assumersi la responsabilità dei propri genitori che invecchiano. Ma hooyo non avrebbe accettato di sposare Aabe a meno di poter restare con la sua famiglia.

    Papà non sapeva bene a cosa andava incontro quando decise di mettere da parte tutto per amore. Anche se crescendo sarei stata in grado di percepire in lui diverse tensioni, da bambina l’unica difficoltà che notavo aveva a che fare con la sua dieta: Aabe non toccava il pesce, e si era andato a infilare in una famiglia in cui era invece la prima fonte di proteine. Per di più, anche se come spesso accade si adattò perfettamente al mondo di mia madre, non riuscì mai a dimenticare completamente le sue origini. Era un insegnante, e proveniva da una famiglia somala tradizionale di stampo patriarcale nella quale i maschi, primi beneficiari dell’investimento economico che rappresentava l’istruzione, erano allevati per diventare capifamiglia.

    La tradizione imponeva che soltanto la nascita di un maschio fosse motivo di orgoglio, invece mio nonno accolse con entusiasmo la venuta al mondo della sua primogenita, mia madre, e promise a se stesso che sarebbe stata trattata come e meglio di un maschio. Baba era un uomo imponente e anche molto orgoglioso, ostinato e sicuro di sé, e a ragione. Aveva una memoria formidabile, era colto e aveva letto molti libri, che in buona parte ricordava a menadito. Quando non lavorava per il governo, nell’ufficio in cui si gestiva la rete dei fari del paese, gli piaceva giocare a carte. Era anche un cuoco eccellente, purista quando si trattava degli ingredienti per preparare le sue specialità: i piatti della cucina italiana. Il suo minestrone era il mio preferito in assoluto.

    Così come non scendeva a compromessi sulla qualità dei pomodori per la sua zuppa, Baba era fermo nelle sue convinzioni e rimase fedele alla promessa di crescere la figlia allo stesso modo dei figli maschi. Quando hooyo e Aabe si incontrarono, lei aveva già vent’anni, il che era molto raro a quei tempi, in cui le donne si sposavano poco più che adolescenti. Non solo, ma aveva anche un lavoro remunerativo come segretaria di un ministro del governo. Non so se mio nonno avesse bisogno del suo sostegno finanziario, ma mia madre sentiva il dovere di dimostrarsi all’altezza della responsabilità e degli straordinari privilegi che suo padre le aveva donato.

    Era risaputo, se si voleva convincere Baba di qualcosa o indurlo a più miti consigli dopo una discussione, era con sua figlia che bisognava parlare. La vera confidente di mio nonno era lei. Non mi hanno mai stupita le storie raccontate in famiglia di come qualsiasi cosa hooyo dicesse fosse legge. Questo perché Baba continuava a investire tempo ed energie nelle donne della famiglia (più che nei maschi, almeno a sentire i miei zii). Era molto vicino alle ragazze di casa, e nei nostri confronti non assumeva il tradizionale ruolo patriarcale del protettore, come di solito fanno gli uomini somali nei confronti dell’altro sesso, ma ci considerava sue pari.

    È sempre difficile dire per quale motivo una persona decida di andare contro le consuetudini culturali. La libertà di pensiero di mio nonno aveva di certo a che fare con il fatto che non provenisse da un clan tradizionale. Da parte materna la mia famiglia apparteneva infatti al gruppo dei benadiri, una minoranza etnica somala con radici persiane, indiane e bantu che discende dai popoli dell’Africa occidentale e dagli yemeniti arabi. Considerati grandi commercianti, avevano contribuito alla diffusione dell’Islam in Somalia e si erano insediati nelle città portuali, come la capitale Mogadiscio, dove mio nonno era nato e cresciuto. Credo Baba fosse convinto che se non ti lasci assimilare puoi permetterti di fare quello che vuoi.

    L’unico posto nel quale mi trovavo completamente a mio agio da bambina era proprio la tenuta di famiglia. Altrimenti non ero mai né carne né pesce. Anche se ufficialmente appartenevo al clan del mio Aabe, uno dei più potenti del paese, per via delle origini di mia madre non ero considerata somala al cento per cento. Non che qualcuno, a parte i nostri vicini, ne fosse a conoscenza, visto che non eravamo i classici benadiri con la pelle chiara e di natura mite. Molti miei zii e zie, così come mio nonno, avevano la pelle scura come la mia, e inoltre nessuno in famiglia poteva davvero vantare una natura mite.

    Essendo la più piccola, ero viziata, ma non poi molto. La nostra era una famiglia di insegnanti e impiegati statali, abbastanza benestante da potersi permettere di vivere in una tenuta sorvegliata e di avere un autista. A me però non piaceva l’attenzione che suscitava negli altri bambini lo sfacciato privilegio della nostra Toyota Corolla bianca e del nostro autista Farah, così come non mi piacevano i limiti che questo mi imponeva. Detestavo essere riportata a casa in macchina dopo la scuola, e di solito cercavo di tornare a piedi, mettendo così nei guai Aabe, perché era appunto in queste occasioni che venivo coinvolta nelle zuffe con gli altri bambini.

    Oltre a ciò non ero abbastanza femminile, almeno non nel senso tradizionale. In famiglia le donne non erano tenute a saper cucinare o a pulire, come di norma le donne somale, e la nostra opinione contava quanto, se non più, quella dei maschi di casa. Quanto a me, mi comportavo come i ragazzi anche fuori. Giocavo a calcio, mi arrampicavo sugli alberi, sgattaiolavo nei cinema; nessuna delle ragazze che conoscevo faceva altrettanto.

    Il mio modo di fare da maschiaccio alimentava pettegolezzi tra le donne del quartiere sulla «povera Ilhan», bambina cresciuta senza mamma. Per loro non aveva importanza che fossi circondata dalle premure e dall’affetto di una folla di adulti, ero comunque stata privata dell’amore e della guida di una madre.

    Supposizioni e opinioni su ciò che avrei dovuto essere si sprecavano, eppure nessuna corrispondeva all’immagine che io avevo di me stessa. Il che non mi turbava, anzi, a dirla tutta non me ne sono mai curata molto. Ho preferito seguire l’esempio di Baba: se il mondo là fuori non era pronto ad accettarmi per quella che ero, non mi sarei preoccupata di compiacere nessuno.

    2

    LA GUERRA

    1989-1991

    Mogadiscio, Somalia

    Quando in Somalia scoppiò la guerra civile, avevo otto anni. Un giorno tutto andava bene, quello dopo volavano proiettili che crivellavano non soltanto gli edifici ma anche le persone.

    La pioggia di pallottole dal cielo era una costante, ma a volte il conflitto diventava troppo intenso perfino per noi che ci eravamo abituati. Allora gli adulti della famiglia cominciavano a temere che i miliziani potessero attaccare il nostro quartiere e ci trasferivamo nella zona dove abitava la bisnonna. Con gli spari e le voci che si facevano sempre più preoccupanti, almeno avevamo la sensazione di non essere passivi. Nella realtà quotidiana di una guerra, cercare rifugio altrove fa sentire più al sicuro, anche se non è così. Nel tragitto verso casa della mia bisnonna, ricordo, c’erano cumuli di cadaveri ammassati. Li scavalcavamo.

    Gli adulti non sapevano cosa stesse succedendo, il che mi sembrava assurdo. Non facevano che ripetere: «Non capisco come mai le cose siano precipitate».

    Ricordo che tutto chiudeva: la scuola fu la prima, poi le moschee, gli uffici postali, le televisioni, perfino il mercato.

    Il più grande mercato cittadino era accanto a casa nostra, sulla destra, e dal lato opposto c’era un ampio stradone. Prima

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