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Tutte le prime volte
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E-book202 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Nel momento stesso in cui sente una piccola vita fiorire dentro di sé, una donna diventa madre. E per tutte, ma proprio per tutte, quel momento è lo stesso. Ma per un padre è diverso. Quel momento potrebbe capitare nella sala d’attesa di un ospedale, oppure la prima volta che tocca quel piedino paffuto. Di fronte alla prima tutina, o mentre suda sette camicie per montare l’ovetto nell’automobile. Potrebbe essere dopo un minuto, ma anche dopo un mese. Per ogni uomo la prima volta che comincia a sentirsi padre è diversa. E questa non è che la prima di tantissime prime volte. È l’inizio di un’avventura tutta da vivere e, soprattutto, a cui sopravvivere. Il primo giorno di scuola, la prima delusione, il primo amore, il primo discorso sul sesso (no, davvero, quello no), la prima scelta importante… Ogni giorno una nuova sfida che Paolo Longarini affronta tra una treccina sfatta, un ginocchio sbucciato e gli occhioni delle sue figlie Chiara e Irene che lo guardano con un misto di compassione e amore totale. Ed è in ognuno di questi momenti che un padre si trasforma, cresce, inciampa, si rialza. Da semplice uomo diventa padre. E credete, è molto, molto meglio.

Le avventure e disavventure sulla paternità di Paolo Longarini hanno avuto migliaia di condivisioni, diventando un vero e proprio fenomeno del web. Tutte le prime volte è una storia sull’infanzia e l’adolescenza di due ragazze vere, come nessuno l’ha mai raccontata. Ma soprattutto è il ritratto spassoso e commovente di una famiglia in cui ognuno può riconoscersi
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2018
ISBN9788858978825
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    Anteprima del libro

    Tutte le prime volte - Paolo Longarini

    42.

    1

    INTRO (HO FATTO TUTTO DA SOLO)

    Erano passati solo due anni dal momento in cui ero caduto anche io nell’italico vizio di accendere un mutuo quando, sul divano di casa, trovai mia moglie Rosanna in lacrime.

    Seduta composta, vedendomi entrare posò il telefono e mormorò il mio nome, il tutto mentre il pianto aumentava di intensità.

    La scena era drammatica, credo di essere ampiamente giustificato se pensai al peggio.

    Porca zozza, ho dimenticato di cancellare la cronologia.

    Esattamente nell’attimo in cui cercavo la cenere per una perfetta replica dell’esibizione degli Enrico IV Goes To Canossa, la vidi lasciare il telefono e prendere uno strano termometro digitale.

    «Due lineette.»

    «Vabbè, allora è solo un’indisposizione, mi hai fatto prendere un colpo… un’aspirina, un Salve Regina e via a nanna. Domani ti sentirai meglio.»

    A quel punto, mostrandomi uno strano sorriso quieto e con la delicatezza di chi ha passato un anno in Grecia nel silenzio per poter meglio comprendere il suono di un bisbiglio, mi afferrò la mano, la aprì e ci appoggiò sopra il termometro.

    Non era un termometro.

    Nessun display digitale, niente punta simil metallica e nemmeno la vaga presenza di uno scomparto batterie.

    Solo una finestrella con due righette al centro.

    La responsabile della mia improvvisa ipossia mi guardò e chiese: «Hai capito?».

    Nei momenti di crisi, il maschio medio si comporta secondo schemi conosciuti e sicuramente funzionanti. Feci esattamente come avevo imparato a scuola durante l’ora di Matematica: annuire con vigore e sorridere alla professoressa mentre nel cervello visualizzavo per l’ennesima volta le mie scene preferite di Vacanze di Natale.

    «Sono così felice, amore mio.»

    Certo che ’sto termometro è strano, eh.

    «Ancora non riesco a crederci, tesoro.»

    «Nemmeno io, fatico a rendermene conto.»

    «Sorrido come una sciocca da quando l’ho scoperto.»

    La guardai cercando indizi.

    «Due righe, eh?»

    «Sì, nel foglietto di istruzioni c’è scritto che due significa incinta, mentre una sola significa non BLAZARAAFABUFFAGNAGNAGNABUBU.»

    Dopo quella parola, sentii solo rumore rumore nannananaa nannanana mi è sembrato di sentire un rumore.

    Incinta.

    No, non ha detto succinta.

    Nemmeno passami una pinta.

    Incinta.

    Fui comprensibilmente preso dal panico, decine di pensieri si accavallavano furiosi uno sull’altro come spettatori in fila per il concerto reunion dei Via Verdi, emozioni esplodevano in maniera del tutto inconsapevole facendomi provare quello che provano milioni di maschi in tutto il mondo durante la giornata: trovarsi in mezzo a qualcosa che percepiscono come grande e importante ma di cui, in realtà, non hanno capito niente.

    Insomma, non stavo certo vivendo qualcosa di totalmente inaspettato. La possibilità che potesse succedere era stata messa in conto: eravamo ancora sposini, usi a una socialità reciproca con frequenza da giornale radio (i tempi in cui questa sarebbe passata a telegiornale della sera, approfondimento settimanale, rubrica mensile, edizione straordinaria fino a chiudersi con catalogo di Postal Market erano ancora lontani), quindi l’idea c’era. A cosa avrebbe portato, no.

    Va bene, avremmo avuto un bambino: sarebbe stato piccolo, di dimensioni comunque contenute almeno per qualche tempo, ogni suo tratto sarebbe stato equamente diviso tra noi due, con alcune doverose concessioni ai parenti, tipo il naso tutto di zia, le orecchie di nonna sua, per poi passare ad upgrade successivi in cui il pargolo sarebbe cresciuto in totale armonia e tranquillità.

    Qualcosa continuava a sfuggirmi.

    Avrebbe influito con il calcetto del giovedì?

    Davvero avrei dovuto permettere a più estranei, pur se laureati, di arrivare direttamente a zone di mia moglie intraviste solo dopo svariati appuntamenti, cene, regali, fiori e mostre di arte contemporanea?

    A corredo del bambino ci avrebbero dato anche le istruzioni, vero?

    Intanto lei continuava a piangere e ridere insieme, non la vedevo così da quando, a una festa, il mio amico Gnegno le aveva detto: «Tranquilla, è tabacco fatto in casa» e me l’ero ritrovata arrampicata su un albero ad arringare i presenti con l’orazione funebre di Marco Antonio, finendola pure con: «Lo volete capì, mortacci vostra?».

    Non smetteva di piangere e ridere e parlare e baciarmi e lettera e testamento, tutto insieme e tutto sparato a velocità curvatura, mentre io ancora annaspavo cercando di capire quando avrei ricominciato a respirare. L’ultima volta che ricordavo di averlo fatto era stato mezz’ora prima: ero convinto che il massimo della sorpresa sarebbe stato mangiare messicano a cena.

    A quel primo giorno ne seguirono tanti altri, tutti ugualmente pieni di totale mancanza di consapevolezza da parte mia e totale asservimento alla causa per la metà sveglia della coppia.

    La prima ecografia.

    Uno schermo, una specie di joystick, lucine, spie e cose che fanno bip. Tutto questo non aiutava certo, era ancora tutto un gioco.

    «Dov’è?»

    «Eccolo lì, lo vedi?»

    «Vedo solo un fagiolo luminoso.»

    «Quella è nostra figlia.»

    «O figlio.»

    «Femmina, ne sono sicura.»

    «Questa sicurezza ti deriva dalla visione di un fagiolo?»

    «Una donna queste cose le sa.»

    «Mi perdonerai se non mi fido più di tanto del cosiddetto intuito femminile, ancora ricordo quando mia madre tornò a casa con un Betamax dicendo che sarebbe stato il futuro.»

    «Cos’è un Betamax?»

    «Appunto.»

    Il corso pre-parto.

    Sempre zero aiuti da parte del mondo per capire cosa stesse succedendo: una sala piena di uomini ansiosi di poter sfogare la propria frustrazione per essere stati catapultati in un mondo di diminutivi. C’è un numero massimo di volte in cui si può parlare di magliettine, pigiamini, tutine e scarpine prima di impazzire, e le serate che seguivano erano il nostro sfogo di maschialità. Naturalmente, le nostre compagne non ci capivano.

    «Bello fare questa cosa insieme, vero? Ne sono felicissima, avevo un po’ di paura all’idea di affrontare tutto da sola.»

    «Amore, tu non sarai mai sola. Come la Roma, Mai Sola Mai.»

    «Riferimento davvero calzante, grazie.»

    «Prima o poi il piccolo Odoacre dovrà pur imparare le basi della vita.»

    «Chi è Odoacre?»

    «Come chi è, amore? Nostro figlio, il piccolo Odoacre. Nome fiero, maschio, senza possibilità di contrazione o diminutivo, farà capire subito di essere uno con cui non si scherza. Nessuno potrà mettere Odoacre in un angolo!»

    «E se è femmina?»

    «Mica finisce con O, va bene anche per una femminuccia.»

    «Tu. Sei. Scemo.»

    «Scemo, con la O. Se avessi voluto dire la stessa cosa a una donna avresti dovuto cambiare e mettere la A, scema. Invece con la E stiamo tranquilli. Nome neutro, come il pH.»

    «Ho sposato un imbecille.»

    «Meglio scemo, chi ci ascolta potrebbe avere dubbi sulla mia identità sessuale.»

    I primi giri per negozi.

    Assolutamente impreparati a ciò che sarebbe successo. Portare un uomo in un posto pieno di pupazzetti, passeggini ipertecnologici ma, soprattutto, dépliant illustrativi dei tiralatte, significa essere pronte a rispondere a un sacco di domande a dir poco illogiche.

    «Qui c’è scritto anallergico.»

    «Significa che non…»

    «Lo so cosa significa, non capisco perché sia scritto su un marsupio. Esiste l’allergia ai marsupi?»

    «È la stoffa che potrebbe risultare…»

    «Dove tengono i palloni?»

    «I cosa?»

    «I palloni. Il controllo palla deve essere esercitato da subito, il destino di nostro figlio sarà quello di essere un fulmine della fascia, non c’è tempo da perdere.»

    «Magari iniziamo a comprare…»

    «Signorina, scusi, mi servirebbe un pigiamino peloso, marrone, con una fascia da spalla tipo cartuccera, ma se non lo avete fa niente.»

    «Lascia lavorare in pace la ragazza.»

    «Va bene, quello peloso non lo avete. Allora uno giallo acceso con righe nere lungo gambe e braccia.»

    «Questa la so: Beatrix Kiddo! Almeno stai iniziando a considerare che possa essere femmina, fai passi avanti.»

    «Bruce, ovunque tu sia, perdonala. So’ ragazzi.»

    Senza contare l’andare alla ricerca di cocomeri a dicembre, trovare come poterli pastellare e friggere, evitare ogni possibile commento dopo la richiesta di un Banana Split con tanta senape e panna. Tornare a casa e trovarla addormentata nello stesso identico punto e nella stessa identica posizione dove l’avevi lasciata al mattino. Dirle che non si vede più i piedi non perché sia diventata grossa, ma perché sono loro a essersi nascosti. Vederla piangere durante Alien e urlare insulti irripetibili a Dumbo, ’sto infame che ha fatto mette ar gabbio la madre.

    Tra sbalzi d’umore, voglie improvvise e ormoni in circolo grossi come la Liguria, lei era completamente fuori controllo. E al suo fianco aveva un fesso inconsapevole, in grado di comprare una carrozzina dotata di airbag e con la medesima efficienza aerodinamica di una Lamborghini, redigere un piano di evacuazione diurno e uno notturno in caso di rottura delle acque e pronto a chiamare per informarsi su quale fosse il preavviso richiesto per noleggiare un’ambulanza. Ma ancora non del tutto cosciente di cosa stava davvero accadendo in quella pancia.

    Cercavo di convincermene, con scarsi risultati.

    Avevo la costante sensazione che quella che stavo vivendo fosse una situazione transitoria. Sì, ok, è incinta, nove mesi, cicogna, bavaglini e passeggini, bla bla bla ma, in fondo, pensavo, risolverò tutto come sempre: facendo l’opossum.

    I più grandi fisici del mondo sostengono da anni la teoria del caos. Non sto qui a spiegarla anche e soprattutto perché non sono sicurissimo di averla capita, ma sono pronto a combattere fino all’ultima criccata in faccia per difendere quello che, secondo me, è il vero significato, indipendentemente da quanto questo sia giusto o no. In parole povere, viviamo in un mondo caotico e lo stato naturale delle cose è tendere verso l’entropia. L’unica arma a nostra disposizione è la tecnica dell’opossum: quando le cose cambiano in maniera a te incomprensibile, non tentare di capirle. Fingiti morto finché non passano. La teoria del Sommo Sticazzi.

    Questa volta, purtroppo, non era attuabile.

    Non che non ci abbia provato, ma il caos era troppo grande per ignorarlo, ogni cosa intorno a me chiedeva risposte, esigeva certezze. Tutto, mi rendevo conto, molto, troppo lontano da me.

    Provai quindi a rivolgermi agli amici.

    Fabio, compagno di calcetto per quindici anni. Totale degli anni di galera per i reati commessi insieme, qualora ci avessero beccati: otto e qualche mese. Sposato da tre con un’insegnante di yoga vegana e crudista, convinta di parlare con il proprio cane.

    «Fabio, com’è essere padre?»

    «E io che ne so?»

    «Come che ne sai, Rododendra ha due anni, sei padre.»

    «Ok, allora immagina di avere la testa piena di sabbia per la mancanza di sonno e…»

    «E?»

    «E basta. Nun se dorme, fratè. Scordate la Roma, scordate i concerti, le canne al Gianicolo e i cornetti caldi tornando a casa dopo un rave dove te sei bevuto l’impossibile e fumato l’inconcepibile, dimenticate le bionde, le more e le rosse, niente più rimorchi facili grazie all’addominale scolpito e le botte e via de ’na notte e chi cazzo te conosce la mattina dopo, a maledire Gnegno e la roba che t’ha dato perché te sei svejato vicino a ’na cosa uscita da ’na categoria a parte de PornHub. Ecco come è esse padre, è la mancanza de tutto questo.»

    «Fabio…»

    «Dimme.»

    «Ma quanno l’avresti fatte ’ste cose? Te senti male pure a respirà vicino a uno co’ ’na Camel Light, ma che stai a dì?»

    «Fermate a nun se dorme, il resto m’oo sarò sognato a occhi aperti.»

    «Te manca dormì?»

    «Me manca de più la mozzarella de bufala, ma quella posso ancora scappà e magnammela de nascosto da mi moje. Otto ore de sonno nun le compri nella norcineria della Sora Milvia, il problema è quello.»

    Umberto, una vita in curva insieme. Gioie poche, dolori tanti.

    «Umbè, quando hai capito de esse padre?»

    «Quando dovendo scegliere tra rifare l’assetto alla Golf e comprare un lettino, ho pensato al ragazzino addormentato e me sò intenerito.»

    «E hai rifatto l’assetto.»

    «E ho rifatto l’assetto sì, la vita è fatta de priorità. Poi mi moje m’ha dato primo, secondo e contorno de pizze in faccia, arivato alla frutta ho capito che c’aveva ragione.»

    «E hai comprato le gomme nòve.»

    «Co’ pure i led sotto ar culo che cambiano colore co’ la musica, mortacci mia, se ‘sta roba ce stava pure dieci anni fa, cor cazzo che me sposavo.»

    Alcune risposte attendibili, per fortuna, arrivarono.

    Massimiliano, elementari e medie insieme, litigio per un malinteso di poco conto semplificabile in «come sei riuscito a brucià er motorino mio», pace fatta in occasione della vittoria dei Mondiali del 1982.

    «Massimè, mi sei rimasto solo tu. Tra pochi mesi dicono che divento padre e non ci sto capendo niente, damme ’na mano.»

    «Non posso aiutarti, mi dispiace.»

    «Come no? Erica è grande, qualcosa avrai capito.»

    «No. Non ho ancora capito niente, e non hai idea di quanto tutto questo mi piaccia. Non ho capito come facessi prima della bimba, se mi rendessi conto di cosa significasse davvero vivere. Vuoi sapere quando mi sono sentito padre? Non lo so, ma posso dirti quando tutto è iniziato.

    «Ero in negozio e stavo rivedendo i conti con il commercialista, squilla il telefono e, Giuseppe, il padre di Alessia, mi dice di stare calmo. Sai benissimo che non c’è nulla che metta più ansia di qualcuno che inizia a parlare dicendoti di stare calmo. Eravamo al quarto mese, Erica non era formata nemmeno come nome, figurati come idea o come consapevolezza. Giuseppe mi dice qualcosa di cui mi arriva solo perdite di sangue, Alessia sta bene ma deve rimanere a letto e minaccia di aborto. Non sapevo cosa significasse avere un figlio, ma mi sono sentito sanguinare dalla paura di perderlo. Ho avvertito la forza della sua mancanza prima ancora di avvertirne la presenza. Poteva essere una fine, invece ne è nato un inizio.»

    Io sono stato più fortunato, so esattamente quando ho iniziato a sentirmi padre.

    Quando nacque Chiara, ero felice. In maniera inspiegabile. Mia figlia era appena venuta alla luce, ma l’idea della sua nascita ancora no. Confesso che parte della mia allegria era indotta, come quando vai a una festa dove si divertono tutti, non capisci bene cosa abbiano da sorridere ma parte di quell’allegria ti rimane

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