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La strega del sangue
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E-book325 pagine4 ore

La strega del sangue

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Info su questo ebook

Thána Archer pensa di sapere cosa sia la sua vita. Dirigente di livello intermedio in un’impresa manifatturiera, Thána è brava nel suo lavoro e non crede nella magia, nelle streghe o nei fantasmi, perché non sono cose reali.


Un giorno si trova davanti uno strano uomo con una strana scatola e una storia ancora più strana su una famiglia che Thána non ha mai conosciuto. Dopo di lui, ne arrivano altri che cercano di ucciderla perché è Thanátou, una strega del sangue. Nel tentativo di stare un passo avanti ai possibili assassini, Thána deve correre contro il tempo per trovare la madre che l’ha abbandonata tanti anni prima.


Per mettersi in salvo Thána dovrà sacrificare la sua libertà. Ma riuscirà ad accettare la verità sul suo passato e i poteri magici che ancora non riesce a capire a pieno?

LinguaItaliano
Data di uscita10 dic 2023
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    Anteprima del libro

    La strega del sangue - Natalie J. Case

    1

    DI ORIGINE SCONOSCIUTA

    Imiei primi ricordi riguardano il sangue, il suo sapore caldo e appiccicoso sulla lingua, lo strano odore di rame che mi soffocava. Non avevo esperienza di queste cose. Sapevo di essere piccola e sapevo che la macchia era sulla mia anima, ma come per gran parte della mia vita prima dei dieci anni, potevo solo tirare a indovinare.

    La mia vita cominciò allora, il giorno del mio decimo compleanno.

    Iniziò un sabato mattina presto su una panchina fuori da una stazione di polizia. Mi trovarono seduta in uno stato semi-catatonico, con una vecchia valigia malconcia contenente alcuni cambi di vestiti e uno zaino dentro cui c’era un biglietto con il mio nome, Thána Augusta Celene Alizon Archer, e la mia età, oltre ad alcuni libri e a un cane di peluche di nome Rusty.

    Mi trovarono durante il cambio di turno e passai le ore e i giorni successivi nella paura e nel disorientamento mentre venivo trasferita dalla stazione di polizia all’ospedale e da lì a una casa famiglia dove ho trascorso quasi un anno prima che mi trovassero un posto in affidamento. Le ricerche dei miei genitori risultarono inutili. Qualsiasi tentativo di capire da dove venissi non portò a niente.

    A volte i miei sogni erano incubi intrisi di terrore che mi riportavano a quel ricordo. Mi svegliavo ansimando e mi strofinavo la pelle nel tentativo di ripulirla dal sangue. Quando succedeva mi sentivo sempre fuori fase per giorni e solo quando avevo quasi compiuto diciassette anni mi resi conto che succedeva sempre la stessa notte, ogni anno. Doveva trattarsi di un qualche tipo di anniversario.

    Ho avuto più fortuna di molti: nel mio percorso di affidamento ho incontrato solo tre famiglie. Ho lasciato la prima solo quando la mia madre adottiva fu trasferita per lavoro in Texas e la seconda perché la coppia stava divorziando. Entrai nella mia ultima famiglia una settimana prima dell’inizio della scuola, al primo anno di liceo. Mi diplomai tra i migliori della classe, anche se non era difficile considerato il numero di sballati tra i miei compagni, e riuscii a racimolare un paio di borse di studio per prendere una laurea in una università statale. Mentre studiavo lavoravo in una libreria appena fuori dal campus per sostenere la mia istruzione e permettermi i bisogni di base. Mi serviva anche per rimanere vicina ai libri e mi dava l’opportunità di dar libero sfogo alla mia passione per l’inglese antico e lo studio della letteratura di quel periodo che era sopravvissuta fino ai giorni nostri. Sapevo che le prospettive di lavoro erano scarse in un campo così raro, per cui presi una laurea in economia abbastanza generica da avere accesso a lavori aziendali di qualsiasi tipo, pur continuando a frequentare corsi liberi per alimentare la mia passione.

    Sono entrata nel mondo del lavoro adulto un mese dopo la laurea, in un’azienda di medie dimensioni che produceva piccoli dispositivi, all’epoca per lo più calcolatrici e simili. Sono partita dal gruppo che si occupava del controllo qualità. Verso i trent’anni mi ero fatta strada fino a diventare una dirigente di livello intermedio. L’anno successivo l’azienda venne assorbita da una società più grande e alla fine io venni trasferita a El Paso, in Texas, per lavorare in uno dei loro impianti.

    Lì affittai un appartamentino dove mi accontentai di un letto, una poltrona e un tavolino da bar. La maggior parte delle cose che possedevo era ancora in un deposito a New York. Non mi importava molto di quel posto. Arrivai sapendo già che sarebbe stato temporaneo. Sarei rimasta lì un anno, al massimo, e poi mi avrebbero trasferita nella Silicon Valley per gestire una nuova linea di prodotti. Una mattina di fine ottobre ero in ritardo per andare al lavoro e, mentre stavo andando verso la macchina sfogliando un file di valutazioni dei dipendenti, sentii un uomo che si schiarì la gola. Alzai lo sguardo e involontariamente feci un passo indietro.

    L’uomo era trasandato e spaesato, gli abiti neri coperti di polvere sembravano provenire da un secolo precedente o da un film in bianco e nero degli anni Cinquanta. Aveva un cappello che copriva una zazzera di riccioli neri che gli scendevano ben al di sotto delle spalle, con una ridicola piuma infilata nella fascia. L’unica cosa che sembrava non essere stata intaccata dalla polvere, o forse era sabbia, e le sue sfumature blu e verdi erano increspate dalla leggera brezza. L’uomo si schiarì di nuovo la gola e si avvicinò. «Thána Alizon?»

    Non sapevo chi fosse o perché conoscesse il mio nome, anche se lo aveva pronunciato come se la ‘h’ non ci fosse, ma mi ritrovai ad annuire piano. «Thána, in realtà. La h non è muta. E il mio cognome è Archer. E lei chi è?» Alizon faceva parte del mio nome, secondo il biglietto nello zaino di tanti anni prima, ma il mio cognome era Archer. Mi spaventò un po’ il fatto che conoscesse quella parte del mio nome.

    «Non ha molta importanza. Sono venuto ad avvertirti.»

    Il mio sopracciglio si inarcò autonomamente. «Avvertirmi?»

    Lui annuì con enfasi e riprese ad avvicinarsi. «Qui sei in pericolo.»

    «Certo.» Lo ignorai e raggiunsi la macchina. Aprii la portiera e lanciai la valigetta e il fascicolo delle valutazioni sul sedile del passeggero. «Senti, amico, Halloween è la settimana prossima.»

    «Lo so, è per questo che sono venuto a metterti in guardia. Devi fare attenzione.»

    «Ok», ribadii io, salendo in macchina. «Vai a provarci con qualcun altro. Halloween è una rottura di palle, ma niente di più. Sono in ritardo per il lavoro.»

    «Sì, molto in ritardo», disse, guardando verso l’alto.

    «Amen.» Avviai la macchina e chiusi la portiera, lasciando fuori quello strano uomo con i suoi strani avvertimenti. Se avessi superato il limite di velocità sulla Railroad Avenue, sarei potuta arrivare in ufficio in tempo per la riunione del mattino.

    La mia assistente mi venne incontro sulla porta della sala conferenze con una tazza di caffè e la mia giornata cominciò come tutte le altre. Mi occupai delle richieste di permessi e presi parte alle riunioni sulla qualità dei circuiti stampati e sugli RMA. Quando me ne andai per tornare a casa lo strano uomo e il suo strano avvertimento erano del tutto usciti dalla mia mente, almeno finché non lo rividi.

    Mi fermai in un negozio di alimentari per prendere un paio di cose perché ero stufa del cibo da asporto in una città in cui c’erano solo pizza e burritos tex-mex. Quando lo vidi avevo già un po’ di cose nel carrello e stavo girando l’angolo verso la corsia dei cereali. Aveva il cappello in mano e sembrava nervoso, anche più di quella mattina.

    «Thána Alizon, devi ascoltarmi.»

    «Senti tu, mi stai seguendo?» chiesi, cercando il cellulare in tasca. «Potrei chiamare la polizia.»

    Lui scosse la testa quasi con violenza e tese una mano. «La polizia non può aiutarti. Lascia che ti aiuti io.»

    «Senti, non so cosa pensi che mi possa succedere, ma sono adulta e so badare a me stessa, quindi puoi sparire.»

    «Questa volta non puoi farcela, non senza aiuto.»

    «Ne ho abbastanza di queste stronzate. Lasciami in pace.» Lo scansai in un impeto di rabbia, afferrai una scatola di muesli da uno scaffale e la lanciai nel carrello mentre andavo alla cassa. Quell’uomo mi aveva messo di cattivo umore e dovevo ancora finire le valutazioni degli impiegati.

    Acquistai un po’ di provviste, che consistevano per lo più di cibo da cuocere al microonde, muesli e due bottiglie di vino. Per fortuna il mio appartamento era a pochi isolati di distanza e presto sarei stata a casa, avrei messo via il cibo e avrei aperto una bottiglia di vino. Un bel pinot nero sarebbe stato di ottima compagnia per le valutazioni. Non conoscevo nessuna di quelle persone da più di otto mesi, quindi il mio giudizio su di loro non sarebbe mai stato del tutto completo.

    Sprofondai nella comoda poltrona reclinabile, con un sacchetto di popcorn fatti al microonde e un bicchiere di pinot. Bevvi un sorso di vino, infilai i popcorn tra la gamba e il bracciolo della sedia, e presi la cartella. Avevo richiesto che il processo venisse automatizzato e digitalizzato, ma ero abbastanza sicura che il tutto fosse caduto nel vuoto. Il direttore dell’impianto era il tipo che voleva tutto in formato cartaceo, al punto da far stampare alla sua segretaria tutte le sue e-mail.

    Mi dedicai diligentemente sia alla cartella che alla bottiglia di vino, finché non arrivai alle ultime valutazioni. Avevo lasciato in fondo le due più difficili: Juan Cordova e il suo amico Rodrigo Alvaro, i due piantagrane a rischio. Con un sospiro mi alzai per versare quello che restava nella bottiglia e scossi la testa riflettendo su quanto avrei potuto essere dura con loro nel mio giudizio. Erano sempre gli ultimi due ad arrivare per il loro turno, magari non erano in ritardo tutti i giorni, ma quasi. Più di una volta erano tornati dalla pausa pranzo con l’alito che sapeva di birra o tequila. Però il più delle volte facevano un buon lavoro, e la tecnica di saldatura di Juan era tra le migliori dell’impianto.

    Optai per una via di mezzo. Scrissi una valutazione positiva per quello che avevano fatto di buono e segnalati entrambi per l’atteggiamento e la presenza. Questione chiusa. Ero contenta perché ero in anticipo sulla tabella di marcia. Avrei potuto iniziare i colloqui individuali la settimana successiva e consegnarli tutti al mio capo prima della scadenza del primo novembre.

    Mi scolai il vino che restava, gettai il sacchetto dei popcorn nella spazzatura e decisi di andare a dormire. Era presto, ma anche la mia sveglia sarebbe suonata presto. Controllai due volte la serratura della porta, mi misi il pigiama, in pratica maglietta e pantaloncini, e mi infilai nel letto. La notte era calda, spinsi il piumone in fondo al letto e mi abbandonai al torpore e al leggero ronzio del vino.

    Qualche ora più tardi dei colpi alla porta mi svegliarono e mi strapparono ai sogni di sangue e cenere. Mi alzai e mi avvicinai alla porta incespicando disorientata. Aprii e un paio di mani forti mi tirarono fuori, spaventandomi fino a farmi svegliare completamente. Tutto intorno giravano le sirene, e quelle braccia forti appartenevano all’amministratore del condominio che continuò a tremare anche quando mi lasciò andare. L’edificio era in fiamme e i residenti stavano guardando cupamente le pozze d’acqua create dai tubi che cercavano di spegnere le fiamme.

    Mi unii a loro e osservai in silenzio i vigili del fuoco che cercavano coraggiosamente di salvare lo stabile. Sbattei le palpebre e cercai di uscire dall’inerzia cerebrale impregnata di vino e schiarire la vista temporaneamente oscurata da quel ricordo frustrante e spaventoso. Non era coerente e cambiava di volta in volta, ma c’era sempre sangue, molto sangue, e a volte sembrava esserci del fuoco. Qualcuno era morto. Di questo ero sicura. Applicai un po’ di pressione con le dita sull’arco alla base del naso, in mezzo agli occhi, e cercai di scacciare tutto dalla mente. Non avevo capito quel sogno nei ventidue anni trascorsi dal risveglio su quella panchina e non l’avrei capito nemmeno stando lì a piedi nudi in una pozza d’acqua alle prime ore del mattino.

    All’alba il fuoco era spento e l’acqua gocciolava da quello che restava dell’edificio. Il mio appartamento aveva ancora le pareti, ma il soffitto era distrutto e tutto all’interno era pieno di fumo e acqua. Uno dei vigili del fuoco mi portò alcune cose dal mio armadio, tra cui Rusty, il cane di peluche, e la valigetta che si trovava vicino alla porta. Recuperarono anche la cartella dal piano cucina, sebbene fosse inzuppata. Era tutto bagnato e impregnato di fumo.

    Si cominciò a parlare di dove avremmo alloggiato e di come ci saremmo organizzati, poi la maggior parte di noi si divise in gruppetti. Per una volta fui contenta di aver lasciato il cellulare in macchina e di aver tenuto una chiave di riserva in una scatola magnetica nascosta sotto il paraurti posteriore. Telefonai al lavoro per avvertire che mi sarei assentata. La mia responsabile si dimostrò comprensiva e mi disse di farle sapere se avessi avuto bisogno di qualcosa. Mi venne quasi da ridere e le dissi che avevo bisogno di tutto.

    Fu allora che rividi l’uomo strano. Questa volta aveva gli abiti puliti e senza pieghe, i capelli praticamente brillavano al sole del mattino. I suoi occhi verdi mi osservavano mentre scendevo dalla macchina e mi avviavo verso l’amministratore. Feci una deviazione verso di lui. «È opera tua?» Chiesi quando fui abbastanza vicina, con la voce un po’ più alta del normale.

    «Certo che no. Però ti avevo avvertita.»

    «No, sei stato strambo e criptico. È da questo che mi stavi mettendo in guardia?»

    «Ti avevo detto che non era sicuro. Sanno dove sei.»

    «Chi?» Chiesi, incrociando le braccia. Probabilmente sembravo ridicola con indosso pantaloncini, maglietta e a piedi nudi, ma sapevo che, quando ero adeguatamente vestita per il lavoro, aveva un effetto raggelante su chiunque guardassi.

    «Posso spiegarti tutto se vieni con me.»

    Scossi la testa. «Non vengo da nessuna parte con te. Spiegami adesso o dirò al comandante dei vigili del fuoco che ti stai comportando in modo strano e mi stai seguendo.»

    Scosse la testa e cercò di afferrarmi la mano per portarmi via. «Per favore, sei in pericolo. Non eri al sicuro in quell’appartamento, e ora sei esposta. È probabile che ci stiano osservando in questo momento.»

    «Aspetta, stai dicendo che chi ha appiccato l’incendio stava cercando me?»

    «Rientra nel loro modus operandi. Ucciderebbero un intero edificio pieno di persone solo per stanarti e arrivare a te.»

    Non so se per via dell’incendio, del vecchio ricordo che mi balenava in fondo alla mente o cosa, ma in qualche modo le sue parole mi raggelarono. «Chi mi vorrebbe morta?» Chiesi, lanciando un’occhiata intorno a noi. «Non sono niente di speciale.»

    «Non vogliono te nello specifico, stanno cercando di rapirti... per poterti uccidere in seguito. Vieni con me, ti terrò al sicuro.»

    «Non vado da nessuna parte con te. Non so nemmeno come ti chiami.»

    Fece un passo indietro e si tolse il cappello, e mi fece una specie di inchino. «Perdona le mie maniere. Sono Finneas Connor. Ero un amico di tuo padre.»

    Questo mi fece venire i brividi. «Mio padre?» Scossi la testa. «Non ho mai avuto un padre. O una madre. È chiaro che hai sbagliato persona.»

    «Quante Thána Alizon pensi che esistano in questo mondo? Non mi sbaglio. E nemmeno loro.»

    «Chi sono loro?» Chiesi, frustrata per avergli permesso di coinvolgermi fino a questo punto. «Continui a dire ‘loro’ ma non mi spieghi.»

    «È una lunga storia, che è meglio raccontare davanti a un fuoco caldo con un bicchiere di brandy. Vieni con me.»

    «Ne ho avuto abbastanza di fuochi per oggi, grazie.» Mi voltai e mi incamminai verso la macchina. Dovevo cercare di togliere l’odore di fumo dai vestiti, trovare un paio di scarpe e fare mente locale su quello di cui avevo bisogno. Non avevo tempo per le favole.

    «Chi è quello?»

    Alzai lo sguardo e vidi la donna che viveva nell’appartamento vicino al mio. «Uno svitato», risposi. «Dice che conosceva mio padre.» Sbuffai e ripresi a guardarlo. «Non ho mai conosciuto mio padre, quindi...» Lasciai che il pensiero svanisse prima di tornare a guardarla. «Sheila, giusto? Allora, cosa faremo qui?»

    «Chuck ci sta sistemando in quel motel dall’altra parte della strada, almeno per ora. Bill ha già avuto un’esperienza simile.» Indicò un uomo che non conoscevo. «Ha perso una casa circa cinque anni fa. Ha detto che ci avrebbe aiutato con le pratiche per la Croce Rossa e tutto il resto. Sta raccogliendo informazioni per conto loro.»

    Annuii, chiudendo a chiave la macchina con dentro il mucchio di vestiti impuzzoliti e la mia valigetta. Almeno avevo quella, e quindi il portafoglio, il che significava che potevo procurarmi dei soldi. Seguii Sheila fino a dove Chuck, l’amministratore del condominio, era al telefono. In tutto eravamo una decina di persone senza casa, tutte tra i trenta e i quarant’anni. Tutti senza coniugi o famiglie. Eravamo un gruppo di solitari.

    A mezzogiorno facemmo il check-in nel motel e potemmo fare una doccia. Bill ci aveva procurato dei vestiti con l’aiuto della Croce Rossa. Indossai i pantaloni di una tuta senza preoccuparmi della biancheria intima di origine sconosciuta e mi infilai una maglietta sopra il reggiseno sportivo che mi avevano dato. Il reggiseno copriva a malapena il mio seno più grande della media e stringeva. Era tutto chiaramente di seconda mano, soprattutto le scarpe da ginnastica rotte, ma ero vestita. Potevo quindi andare a cercare qualcosa da mangiare e dei vestiti per il lavoro.

    Aspettai che lo specchio si disappannasse e tornai in bagno per passarmi un pettine tra i capelli. I miei capelli neri erano molto ricci, a parte per quella volta al mese in cui andavo dal parrucchiere per farli stirare chimicamente. Lasciati a se stessi, sarebbero diventati una massa di crespo. Mi sono preoccupavo raramente di truccarmi, perché la mia pelle tendente all’olivastro era naturalmente liscia e di colore uniforme, e ho sempre pensato che ombretti, mascara e cose simili fossero troppo impegnativi per tutti i giorni.

    I miei occhi verde scuro sembravano spenti e stanchi, il che suppongo fosse una valutazione abbastanza corretta del mio stato d’animo in quel momento. Non ero sicura di quanto avessi dormito tra la fine della bottiglia di vino e l’inizio dell’incendio.

    Soddisfatta di essere abbastanza presentabile per andare al centro commerciale, presi le chiavi della macchina e mi diressi verso l’uscita, anche se ammetto di aver dato un’occhiata furtiva intorno a me mentre camminavo, con il vago timore che qualche uomo nero potesse saltare fuori per afferrarmi.

    2

    PAROLE SULLA PAGINA

    La mattina successiva la mia assistente, Jessica Flores, mi accolse con un caffè e un’espressione accigliata. «Perché sei venuta?»

    Presi il caffè e ne bevvi quasi la metà in un colpo solo. Quello del motel era pessimo. «Lavoro qui, l’hai dimenticato?»

    «Nessuno si aspettava di vederti.»

    «Tu sì», risposi, sollevando la tazza di caffè.

    «Be’, ti conosco meglio degli altri. Ecco gli appunti di ieri, ho pensato che volessi vederli prima della presentazione.»

    «Grazie.» In cambio le porsi la cartellina, ormai quasi asciutta, con le valutazioni dei dipendenti. «Credo di averle salvate. Per la maggior parte. Puoi controllarle e assicurarti che tutto sia leggibile?» Presi gli appunti e diedi una rapida occhiata. «Abbiamo capito cosa sta provocando l’eccesso di saldatura sulla linea a onda?»

    Scosse la testa. «John Padilla sta esaminando le schede da ieri. Pensa che ci sia un problema di progettazione della scheda.»

    Annuii e mi voltai verso la sala conferenze. «Assicurati che mi dia i risultati entro fine giornata.» Ci separammo e mi presi un momento per fare un bel respiro profondo e calmarmi prima di affrontare la riunione con i supervisori della linea e i product manager. Riuscii a superare tutti i luoghi comuni e i tentativi di conforto senza particolari reazioni, cosa che ritenevo non mi venisse riconosciuta abbastanza nella quotidianità.

    Alla fine della giornata avevo le spalle contratte e la testa che mi pulsava. Volevo tornare in quello schifoso motel, infilarmi in quel letto altrettanto schifoso e cercare di dormire più della notte precedente. Tuttavia, Jessica mi ricordò che avevamo un appuntamento all’Iron Horse per bere qualcosa in occasione del compleanno di una mia ispettrice.

    Mi fermai al pub della zona, che era anche un bar per motociclisti, e prima di scendere dall’auto mi ripromisi di consumare un solo drink e di socializzare il minimo indispensabile. Mi aspettavo che Finneas, qualunque fosse il suo nome, o forse i suoi misteriosi cattivi fossero in agguato nell’ombra. Me lo tolsi dalla mente ed entrai nell’Iron Horse Saloon, dove vidi che un gruppo della mia linea di prodotti era già in piena attività. Lupe, la festeggiata, stava ridendo, piegata sul tavolo quando entrai e mi avvicinai al bancone.

    Alzai due dita per far segno al barista, poi indicai Lupe e lasciai cadere un biglietto da venti sul bancone. Meglio togliersi subito di torno il drink di compleanno, così potevo filarmela alla svelta. Debbie versò due shot di tequila e mise uno spicchio di lime su ogni bicchiere. Li portai al tavolo mentre Lupe si alzava, asciugandosi gli occhi.

    «Capo, sei venuta!» disse Lupe, con un ampio sorriso. «Non dovevi, sai?»

    Sorrisi e le porsi il bicchierino. «Non potevo perdermelo.» Uno dei ragazzi mi passò la saliera e io, seguendo i movimenti di Lupe, mandai giù lo shot. Si spostarono tutti in modo che potessi sedermi anch’io e il mio capo, Arturo, si avvicinò abbastanza da farsi sentire nonostante il frastuono generale. «Ehi, non sentirti obbligata a restare. Sappiamo tutti cosa stai passando.»

    Gli feci un cenno con la testa. «Non ho più una casa dove tornare, solo una stanza di motel vuota, con un letto di merda, un caffè orribile e una vasca idromassaggio rotta.»

    Arricciò il naso, alzò la mano per fare segno a Debbie e poi disegnò un cerchio per indicare che il prossimo giro lo avrebbe offerto lui. «Sto bene così», dissi.

    Lui ridacchiò. «Abbiamo bisogno tutti di un altro giro.»

    «Devo tornare a casa in macchina.» Tuttavia, mi feci lo shottino con gli altri. E a quel punto dovevo rimanere e offrire un giro a tutto il gruppo.

    Prima di rendermene conto, ero già al quarto e stavo cominciando a rimpiangere la mia decisione di presentarmi. Mi alzai per andare in bagno e mi fermai al bancone mentre passavo. «Un altro giro per tutti tranne che per me, ho bisogno di caffeina e di cibo. Peter è ancora in cucina?»

    Debbie annuì. «Nachos, patatine fritte e qualche aletta?»

    «Sono così prevedibile?»

    «Solo quando bevi tequila», rispose Debbie. «Dovresti limitarti al whisky.»

    «Non dirlo a me.» Barcollai un po’ mentre mi dirigevo verso il minuscolo bagno con due cabine wc che sembravano rimpicciolirsi ogni volta che entravo nel locale. Avevo la testa che mi ronzava e lo stomaco mi ricordava che quel giorno non avevo fatto pausa pranzo e che l’unica cosa che avevo mangiato era il burrito unto che avevo comprato in un food truck durante la pausa del mattino. Dopo essere andata in bagno ed essermi lavata le mani, mi fermai al bancone e diedi a Debbie la carta di credito per pagare il giro e il cibo.

    Rimasi lì ancora un’ora, continuando a bere diet coke e mangiare finché non mi sentii abbastanza sobria da percorrere a piedi i tre isolati fino al motel, perché non mi facevo illusioni sulla possibilità di esserlo abbastanza da guidare. Feci gli auguri di buon compleanno a Lupe per l’ultima volta e uscii, infilando le chiavi tra le dita come mi avevano insegnato al liceo durante il corso di autodifesa, perché avevo tre isolati da fare a piedi ed era quasi mezzanotte in una città molto violenta. Non che pensassi di poter avere la meglio su ladri e stupratori, ma non avevo paura di sfregiare e scappare.

    Sarei potuta tornare a prendere la macchina il mattino dopo. Gran parte del percorso era in una zona residenziale, ma l’ultimo tratto era su strade ben illuminate e trafficate. Stavo attraversando il parcheggio di un centro commerciale quasi in disuso e in lontananza potevo vedere la porta della mia stanza di motel quando sentii stridere delle gomme, mi girai e vidi un’auto che si dirigeva verso di me. Corsi verso l’edificio pensando che potesse essere un luogo sicuro, ma l’auto continuava ad avanzare, aumentando la velocità.

    Saltai di lato, caddi e rotolai sul cemento spaccato mentre l’auto si schiantava contro il muro di mattoni di quello che un tempo era stato un grande magazzino Dillard. Quando riuscì a rimettermi in piedi imprecai e, non riuscendo ovviamente a pensare con chiarezza, aprii la portiera del guidatore con uno strattone. Ebbi solo un secondo per guardare prima di essere afferrata e tirata via da un paio di mani.

    «Sei impazzita?»

    Vidi che si trattava di Finneas che mi spingeva contro il muro perpendicolare a quello su cui si schiantata la macchina. Ero confusa. «Non sono io quella che guida come se fossi fuori di testa.» Lo spinsi via e girai di nuovo

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