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Accerchiamento: Traduzione di Margherita Podestà Heir
Accerchiamento: Traduzione di Margherita Podestà Heir
Accerchiamento: Traduzione di Margherita Podestà Heir
E-book336 pagine5 ore

Accerchiamento: Traduzione di Margherita Podestà Heir

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Info su questo ebook

Tre voci per ricomporre un'identità: quella di David, che non ricorda più chi sia. Nelle tre lettere-monologhi che gli rivolgono due amici dell'adolescenza e il patrigno, i ricordi che lo coinvolgono si intrecciano con le storie personali di chi scrive, in una fitta tessitura di vicende dolenti e disperate e sentimenti che rompono gli argini del quieto vivere familiare, mostrando le numerose crepe nei rapporti interpersonali. L'autore trascina nell'occhio del ciclone una storia personale che è anche generazionale, indagando sui ruoli famigliari e di genere, e su quello che accade quando l'identità di qualcuno viene ricostruita attraverso il filtro delle vite degli altri.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2018
ISBN9788864792040
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    Anteprima del libro

    Accerchiamento - Carl Frode Tiller

    Jon

    Saltdalen, 4 luglio 2006. In tournée

    Ci dirigiamo lentamente verso il centro, ammesso che lo si possa definire tale, una piccola rotatoria attorniata da qualche casa. Seduto sul sedile anteriore, mi guardo intorno con il busto proteso in avanti, non si vede anima viva, è tutto morto, immerso nel silenzio, a tratti non ci sono neanche negozi, soltanto una caffetteria chiusa e una drogheria dalle vetrine avvolte nel buio. E sarebbe qua che dovremmo suonare, cazzo, il posto sembra disabitato, del resto non capisco a chi verrebbe mai in mente di vivere in un luogo simile, chi potrebbe volersi così male. Lascio cadere nuovamente le spalle sullo schienale, abbasso il finestrino e appoggio il gomito sul bordo. Una brezza fresca, frizzante si spande sul viso, aria buona. Piego la testa all’indietro e chiudo gli occhi, inspiro dal naso e annuso, sono così tanti gli odori che aleggiano quando ha appena finito di piovere: il sentore di terra bagnata, il profumo dei lillà. Apro gli occhi, mi piego nuovamente in avanti. Cazzo che deserto, un vero e proprio mortorio, non si vede nessuno, non si sente quasi nessun suono, soltanto il ronzio del nostro motore. E il frusciare appiccicoso degli pneumatici che percorrono l’asfalto fradicio di pioggia. Ma chi cazzo sceglie di stabilirsi in un posto come questo.

    «Se avessimo avuto un po’ più di tempo prima del concerto, sarei andato a pescare», dice Anders. «A quanto pare qui il fiume pullula di salmoni!».

    Mi giro a guardarlo, ridacchio. Ma ha l’aspetto di uno che parla sul serio, mi osserva dal sedile posteriore, fa un cenno del capo verso destra. Allungo il collo per scrutare in quella direzione. Da una finestra sul lato opposto della strada pende una specie di insegna di cartone. «Qui si vendono licenze di pesca», c’è scritto con un pennarello nero, le lettere in corsivo sono leggermente inclinate a destra. Mi giro e guardo nuovamente davanti a me attraverso il parabrezza.

    «Eh, sì», commento. «Consanguineità a parte, in queste zone non c’è altro da fare che andare a caccia e a pesca o roba simile».

    Mi volto verso Anders ridendo nuovamente. Ma ha girato la testa di lato e non incrocia il mio sguardo, evidentemente deve essergli sfuggita la mia battuta. Mi rigiro, guardo davanti a me.

    «Per non parlare di sport, ovviamente» aggiungo. «Sci per tutti i gusti! Però nessuno sport di squadra, dubito che ci sia abbastanza gente per metterne in piedi una», continuo.

    Breve pausa.

    Lars svolta a destra e percorriamo una leggera discesa che conduce al molo. Laggiù in lontananza si intravede il mare blu, scintillante, alcuni gabbiani circondano un container verde. Ma non c’è nessuno, non c’è traccia di vita, da nessuna parte, in pieno giorno, il deserto più totale. Mi chino in avanti e lascio scorrere lo sguardo da una parte all’altra, rido scuotendo la testa.

    «Che cazzo!», esclamo, aspetto un attimo, scuoto di nuovo la testa. «Certo che se vuole raggiungere il suo obiettivo principale, il Partito Centrista avrà il suo bel daffare nel mantenere in vita questi piccoli centri abitati sparsi per tutta la Norvegia», insisto. Aspetto ancora un po’ e poi mi giro verso Lars, lo scruto e annuisco. «Se adesso ti capitasse di sentire uno strimpellio veloce di banjo, pigia l’acceleratore e scappa a gambe levate!», dico scoppiando in una breve risata. Ma lui non ride, si limita a starsene seduto con entrambe le mani strette sul volante e lo sguardo fisso davanti a sé, non credo proprio che abbia visto Un tranquillo weekend di paura, per Lars conta soltanto la musica, i film non gli interessano per niente, almeno non di quel genere. Mi giro e guardo nuovamente davanti a me.

    «Cazzo», borbotto. «Sono felice di non abitare qui».

    Passa un istante.

    «Neanche qui?», chiede Lars, a voce bassa, senza guardarmi.

    «Non si vede anima viva, cazzo», replico.

    «No», risponde laconico.

    Lo guardo di nuovo, non dico nulla, rimango in attesa. Che cazzo c’è che non va? Il suo tono di voce sembra così serio. E anche il suo aspetto. Il viso appare così contratto, immobile. E fissa rigido davanti a sé. Aspetto qualche secondo, non gli stacco gli occhi di dosso.

    «Che cos’hai?», gli domando. Lo guardo, non risponde, se ne sta lì con le braccia tese e le mani contratte sul volante, gli occhi puntati in avanti. Cosa c’è che non va, Lars non è così, è quasi sempre di buonumore, lui, quasi sempre positivo e ottimista.

    «Che cos’hai?», gli chiedo nuovamente.

    «Io?», domanda, parla ad alta voce e nel momento in cui me lo chiede, spinge la testa in avanti di un nonnulla.

    Silenzio.

    Lo guardo sconcertato.

    «È solo che comincio ad essere stufo marcio del tuo essere sempre così negativo», dice.

    «Negativo?», mormoro.

    «Sì, negativo», ripete, fissa rigido davanti a sé, fa una breve pausa, deglutisce. «In qualsiasi posto andiamo, per te è sempre un cesso», dichiara. «Tutto quello che mangiamo, fa sempre schifo, tutte le persone che incontriamo, sono dei deficienti!».

    Rimango immobile a fissarlo, non riesco a parlare, perché, che cosa sta dicendo, che io sono negativo? Aspetto un attimo, mi giro e guardo davanti a me per un istante, mi volto nuovamente verso Lars, non trovo nulla da dire perché di questo non me ne ha mai parlato, è saltato fuori all’improvviso, che io sono negativo, sono negativo? Passano un paio di secondi e poi mi volto. Guardo Anders seduto sul sedile posteriore. Ha lo sguardo incollato al finestrino, tiene la fronte premuta sul vetro mentre finge di non vedermi, come se non si fosse accorto di nulla. Lo osservo per un attimo, poi di colpo mi rendo conto che ne hanno parlato prima, che hanno già discusso la questione tra di loro e che sono d’accordo sul fatto che sono negativo. Adesso sento che il cuore sta cominciando a battere più velocemente del solito, che il polso sta salendo. Fisso Anders mentre avverto le labbra che si schiudono da sole, rimango seduto a bocca aperta, spalancata, attonito. La richiudo, deglutisco una volta, poi una seconda. Mi volto di nuovo verso Lars, lo guardo.

    «È una tortura stare con te», prosegue. «Una vera e propria rottura di palle! Tutta questa tournée di merda è stata una fatica disumana!».

    Continua a non guardarmi mentre parla, se ne sta lì seduto a fissare davanti a sé attraverso il parabrezza, la faccia è bianca e contratta, deglutisce a intervalli regolari. Non gli tolgo gli occhi di dosso. Resto in silenzio, non so cosa dire. Perché è avvenuto tutto in modo così brutale, non me lo aspettavo, che loro pensassero di me che sono negativo, un fardello da sopportare mentre siamo in giro.

    «È cominciata male ed è andata sempre peggio», esclama Lars. Poi si schiarisce la gola, continua a non guardarmi. «Non credo che tu ti renda conto di quante energie dobbiamo investire per mantenerti un briciolo di buonumore», dichiara. «Non fai altro che sparlare di tutto e di tutti, denigri qualsiasi cosa a prescindere. Ma non capisci quanto possa essere pesante per noi?».

    Ascolto le sue parole e capisco che si è esercitato prima, lo avverto dal modo in cui parla. Sento anche che è sincero, per quanto sembrino cose campate in aria, intuisco che pensa davvero quello che dice. Lo guardo. Aspetto un attimo. Non so cosa replicare. Comunque non devo assolutamente sbottare con la prima cosa che mi passa per la testa, devo stare attento a quello che dico. Devo pur essere in grado di tollerare questo genere di affermazioni, di mostrarmi abbastanza adulto da sopportare questo tipo di critiche, non devo perdere il lume della ragione, ma limitarmi a rispondergli per le rime. Eppure è successo tutto in modo così brutale, non me l’aspettavo, hanno sempre riso del mio pessimismo, hanno sempre preso in giro la mia visione funerea della vita, scherzato sui miei commenti velenosi e pungenti. Spesso mi sono atteggiato ad essere più cupo e pessimista di quanto non sia in realtà, sono stato caustico e sardonico soltanto per farli ridere, ho pensato tutto il tempo che così dovesse essere, che loro stavano bene con me come io con loro, che io piacessi loro come loro a me. Perché loro mi piacciono tanto, sentivo di non essermi mai inserito così bene in una band prima d’ora, né dal punto di vista musicale né sotto l’aspetto sociale. Anche se sono molto più vecchio di loro, era quello che credevo.

    Breve pausa. Mi giro lentamente verso destra, appoggio la testa sulla mano e guardo fuori dal finestrino aperto, sollevo la sinistra e mi gratto sopra il setto nasale con il medio. Poi di colpo scoppio a piangere. Giunge tutto all’improvviso, è come se si squarciassero delle crepe in una diga interiore di cui non ero a conoscenza, gli occhi mi si incrinano e le lacrime prendono a scendere copiose, mi rigano fredde le guance. Torco la testa ancora più a destra. Le asciugo, deglutisco. Ma che cazzo mi ha preso, me ne sto qui a piagnucolare, che cazzo mi sta succedendo, non piango da chissà quanto tempo, me ne sto qui seduto a frignare, mi metto a piangere per una sciocchezza simile, perché mi dicono che sono negativo, che cazzo mi sta succedendo, è una cosa talmente stupida che ci sarebbe invece di che farsi due risate. Trascorrono un paio di secondi, e di colpo scoppio a ridere, di punto in bianco, rido in modo sguaiato, rido con prepotenza, mi sforzo di ridere per mostrare quanto tutto questo sia ridicolo, soltanto una stronzata, cerco di scacciare il pianto ridendo, ma non ci riesco. Le lacrime continuano a scorrere e adesso alterno risa e pianto, me ne sto qui seduto come una donnetta isterica, sembra una cosa da pazzi, come se stessi per uscire di senno, gli altri non dicono niente, sicuramente non capiscono un accidente di cosa mi sta passando dentro perché questo non sono io, è il mio esatto contrario e adesso devo darmi una regolata, così non va. Mi passo un dito sotto le narici e tiro su con il naso. Stringo i denti e smetto di ridere. Tossisco un po’, mi schiarisco la voce. Non rido più, ma non riesco a smettere di piangere, lo faccio in silenzio, con le labbra bagnate di lacrime, il sapore salato che mi pizzica la lingua.

    Silenzio totale.

    «Dove sarebbe questa Casa della Cultura?», chiede di colpo Anders. «Non dovrebbe trovarsi nei paraggi del centro?», dice. Tenta di cambiare discorso, di fare finta di niente, come se volesse darmi il tempo e la possibilità di asciugarmi le lacrime e riprendermi in modo che io non perda la faccia più di quanto non abbia già fatto. «Oddio, centro, certo che in questo posto non è facile dire né che cosa è né dove si trovi», continua, vuole dare l’impressione di essere in parte concorde con me, d’accordo sul fatto che questo posto è un buco, come se ciò potesse migliorare la situazione.

    Cala di nuovo il silenzio.

    Piango. Anders e Lars non aprono bocca, probabilmente capiscono poco di quello che sto facendo. Perché si tratta di qualcosa di profondamente diverso da me. Mi sento vuoto, mi sento piatto, è come se il mio corpo fosse stato prosciugato di tutte le forze. È sempre più pesante stare con me, ha detto Lars, tanto sono acido e negativo. Ma perché non mi hanno mai detto niente, invece hanno sempre scherzato e preso in giro il mio pessimismo, hanno sempre riso delle mie battute sarcastiche. Come posso cambiare se gli altri non parlano, se si limitano ad assecondarmi. Avrebbero potuto almeno farmi qualche accenno, per tutto il tempo ho creduto di piacere loro come loro piacciono a me, invece hanno sempre pensato che io fossi una rottura di coglioni, un soggetto negativo. Torco la testa ancora più a destra, contraggo le labbra e deglutisco.

    «Fermati!», mi esce detto all’improvviso. Mi rendo conto di quanto io suoni aspro, aspro e deciso. Appoggio la mano sulla fibbia di chiusura, premo il pulsante di plastica rossa e sgancio la cintura di sicurezza, tengo lo sguardo fisso davanti a me mentre lo faccio.

    «Jon!», dice Lars in tono di supplica.

    «Fermati!», ripeto.

    «Dai!», continua Lars.

    Mi giro verso di lui, lo fisso.

    «Ferma la macchina, porca puttana!», esclamo ad alta voce.

    Silenzio totale. Un istante dopo Lars frena. Con cautela. Si accosta al bordo del marciapiede e si ferma.

    «Jon, per piacere!», interviene Anders.

    Ma io apro la portiera, scendo.

    «Non fare così!», supplica Anders.

    «Jon!», dice Lars.

    Sbatto la portiera e mi incammino, procedo veloce e imperterrito davanti a me, non mi giro a guardare, non so dove andare, voglio solo sparire, allontanarmi.

    Vemundvik, 6-10 luglio 2006

    Caro David,

    ero sul pullman diretto verso la casetta in legno dove trascorrevamo le vacanze. Quando ho letto che avevi perso la memoria, superato lo choc iniziale, ho cominciato a chiedermi cosa avrei potuto fare per aiutarti a ricordare, e così, senza che capissi del tutto il perché, mi è venuta in mente un’immagine con cui ho deciso di cominciare questa lettera. Ho visto davanti a me noi due mentre facevamo una delle nostre lunghe passeggiate per le vie del centro di Namsos. Non sapevo neppure di conservare dentro di me quel ricordo, ma all’improvviso ho rivissuto la sensazione di avere diciassette anni e di vagabondare per quelle strade, soltanto io e te, uno a fianco all’altro, senza nessuna meta precisa. Mi sembra di ricordare che il motivo per cui ci imbarcavamo in questo genere di camminate fosse perché ci annoiavamo e la sera non avevamo altro da fare, ma quando ripenso alle nostre conversazioni, a quante erano le cose di cui volevamo discutere soltanto tra di noi, a quanto eravamo infervorati e coinvolti, e a come ci affrettavamo a cambiare strada quando vedevamo qualcuno con cui saremmo stati costretti a fermarci a parlare, non posso fare a meno di dedurre che dovevamo considerare quelle passeggiate come qualcosa di significativo e importante in sé. E se anche non lo erano nella nostra mente, dovevamo comunque viverle a quel modo.

    Forse è proprio il valore inconscio di quelle esperienze apparentemente prive di significato a costituire la ragione per cui un ricordo così innocuo e banale è stato il primo a emergere e brillare con tanta forza quando ho visto il tuo annuncio. Non so perché, ma numerosi dettagli a cui farò riferimento in questa lettera, per esempio le opinioni che avevi, la descrizione di avvenimenti a cui non ero presente o di persone che conoscevi, ma che io non ho mai incontrato, li posseggo proprio partendo da quelle conversazioni.

    Durante i primi anni di scuola di te sapevo soltanto che eri il figliastro di un pastore protestante, che giocavi a pallone e che eri quello che lanciava più lontano di tutti qualsiasi tipo di palla più piccola quando a scuola c’era la giornata dedicata allo sport. Non so con esattezza il motivo per cui mi sono rimasti impressi nella memoria questi due ultimi particolari, forse perché io ero una frana sia nel destreggiarmi con ogni genere di palla sia nel gioco del calcio. Quando mi capitava di doverne scagliare una, ricorrevo a quello che in gergo veniva chiamato «il lancio della femminuccia» (lancio dal basso) e avevo la fama di essere stato il primo, e per il momento l’unico di tutte le medie di Namsos, ad aver eseguito qualcosa che sembrava più un passaggio o una rimessa nel tentativo di battere un rigore, fama di cui mi dichiarai particolarmente orgoglioso quando ebbi modo di conoscerti.

    La nostra amicizia ebbe inizio mentre frequentavamo la prima liceo. In palestra si sarebbe tenuta una sorta di assemblea generale contro la droga che, ricordo, avevo deciso di saltare a piè pari marinando la scuola. A quei tempi mi fregiavo dell’immagine di anarchico-fricchettone e – cercando di illudere tutti, incluso me stesso, che fosse stato l’atteggiamento liberale verso quelli che il giornale controcorrente «Gateavisa» mi aveva insegnato a chiamare «gli strumenti di espansione della consapevolezza», a indurmi a buttarmi lo zainetto su una spalla – mi diressi verso l’uscita, se non in maniera ostentata, perlomeno con quella falcata nonchalant e quel linguaggio corporeo disinvolto, e in parte affettatamente indifferente e teso, che gli adolescenti assumono spesso per nascondere la propria insicurezza. Non era così. In quel periodo papà era dentro per droga e fu un’incompresa lealtà nei suoi confronti a spingermi a non voler partecipare a quell’evento e quando il preside pronunciò di colpo il mio nome dicendomi che dovevo tornare immediatamente al mio posto e tutti si girarono a fissarmi, venni sopraffatto brutalmente da tutti i sentimenti e le emozioni che fino a quel momento ero riuscito in qualche modo a tenere sotto controllo e scoppiai a piangere davanti a tutta la scuola. La maggior parte dei presenti sapeva che mio padre era in galera ed era a conoscenza di quello che aveva fatto, ma in quel momento soltanto tu capisti il nesso esistente tra quel fatto e il mio crollo del tutto inaspettato, e dopo qualche secondo di silenzio generale durante i quali gli insegnanti e gli oltre trecento studenti mi fissarono sbalorditi, ti sentii chiedere al preside con voce alta e scandendo le parole: «Quanto le sarebbe piaciuto prendere parte a una manifestazione contro il proprio padre?».

    In seguito, dopo che mi ero innamorato di te, e questo innamoramento aveva contribuito a rielaborarmi la memoria, ti vedevo come una specie di James Dean mentre pronunciavi quella frase. Mi sembra di ricordare che eri seduto su un banco, leggermente stravaccato, con i gomiti infilati tra i pioli della spalliera dietro di te, e che sorridevi mentre fissavi il preside con i tuoi occhi sicuri, pacati. Ovviamente oggi quest’immagine si è sbiadita. Tutto quello che so per certo è che indossavi una maglietta bianca e che avevi detto proprio quelle parole.

    All’inizio avevo avuto la sensazione che tu mi stessi dando in pasto agli altri e per questo motivo ero furibondo con te, ma quanto più aumentava la distanza esistente tra me e quello che era successo, tanto più avvertivo una profonda riconoscenza nei tuoi confronti e non ci volle molto tempo prima che io mi sentissi quasi commosso per il fatto che tu mi avevi difeso proprio nel modo in cui avevi agito. Ti ammiravo per il coraggio e il senso di giustizia che avevi mostrato, e il periodo prima che diventassimo amici e cominciassimo a vederci regolarmente facevo in modo di comparire casualmente nei posti dove sapevo che c’eri tu. Se mi giungeva all’orecchio che avresti partecipato a qualche festa, facevo di tutto per farmi invitare, se venivo a sapere che saresti andato al cinema, mollavo tutti gli altri impegni e mi recavo lì, e quando andavo a scuola o in centro, facevo sempre in modo di passare davanti alla casa dove abitavate tu, Arvid e Berit, così da avere la possibilità di incontrarti o soltanto vederti. Che questo implicasse per me qualche minuto in più di strada, non aveva nessun significato.

    Ma al tempo stesso mi sforzavo di mantenere una certa dignità. Tenevo le distanze e non ero mai insistente, sorridevo e ti salutavo laconico quando ci incontravamo senza trovare mai il coraggio di instaurare una conversazione, e tenendo conto che eri un tipo quieto e silenzioso, un po’ ruvido, che diceva solo lo stretto necessario, raramente di più, non capisco come riuscimmo a entrare in contatto e a parlarci. Però dobbiamo averlo fatto perché prima della fine di quell’anno eravamo inseparabili.

    Ovviamente non c’è internet nella casetta, così quando ho deciso di mandare una e-mail al tuo psicologo per sapere come dovevo procedere per aiutarti, sono stato costretto a recarmi da un vicino. Mi ha fatto entrare e mi ha permesso di usare il suo computer, ma era acido, scontroso e palesemente impaziente di mandarmi via e purtroppo non ho avuto il tempo di chiedere tutto quello che avrei voluto. Ma da quanto ho dedotto dall’unica e-mail che il tuo psicologo è riuscito a inviarmi, sei ricoverato nel reparto d’isolamento e per questo non mi è stato concesso il permesso di venirti a trovare come avrei desiderato. Da quanto ho capito, tutti i contatti dovevano avvenire per via epistolare, e quando avrei redatto queste lettere non dovevo soltanto limitarmi a cercare di risvegliare la tua memoria. Se nessuna delle persone che ti avrebbero scritto fosse stata in grado di permetterti di ricordare, la cosa importante era che tu sapessi il più possibile chi eri un tempo, che tipo di vita avevi vissuto, chi avevi frequentato, con chi avevi rapporti di parentela, quali erano le tue origini eccetera, e il tuo psicologo mi ha esortato a contribuire con il benché minimo dettaglio che sapevo di te, non soltanto quello che avevamo vissuto insieme. Così, prima di continuare a raccontare di noi due, cercherò di mettere per iscritto quel poco che so e ricordo del tuo retaggio e della vita che conducevi prima che ci incontrassimo.

    Nel corridoio della vostra abitazione era appesa la foto aerea di una casa di legno bianca che si trovava sulla spiaggia di ciottoli dell’isola di Otterøya. Prima che Berit si sposasse con Arvid e si trasferissero nella casa di quest’ultimo a Namsos, tu abitavi lì insieme a lei e a tuo nonno materno, Erik, un uomo che conosco soltanto grazie a una vecchia immagine in bianco e nero dove è ritratto da giovane, un operaio che si occupava della manutenzione delle strade, grande e grosso e con i capelli arruffati, la schiena larga e massiccia e un paio di baffi folti e neri che spuntavano su entrambi i lati del viso a mo’ di treccine.

    Berit si era presa cura di tuo nonno fin da quando tua nonna era morta all’inizio degli anni Sessanta. All’età di diciassette anni, o forse diciotto, si era trasferita in un piccolo monolocale a Namsos e aveva cominciato a frequentare la scuola per aiuto infermiere nello stesso periodo della mamma, ma era rimasta incinta di te entro l’anno e quindi era stata costretta a interrompere gli studi e a trasferirsi nuovamente a Otterøya. A nessuno fu mai dato sapere chi fosse tuo padre, per qualche motivo Berit si rifiutava di dirlo e lo tenne nascosto fino alla sua morte, anche a te.

    Quando mia madre mi raccontava della Berit di allora, la descriveva come una giovane esile e pallida dai capelli rossi, le lentiggini e il nasino leggermente all’insù. Diceva che Berit aveva un’aria così timida e smarrita, e che era rimasta molto sorpresa quando aveva mostrato invece di essere l’esatto contrario. Proprio come le persone che sono riuscite a sopravvivere agli anni duri dell’infanzia e dell’adolescenza, si era temprata e, da quanto diceva mia madre, non pareva per niente impaurita né tantomeno timorosa così come erano di solito i paesani quando andavano in città per studiare. Era una chiacchierona e parlava in continuazione senza mai tirare il fiato, non aveva peli sulla lingua e diceva quello che pensava, indipendentemente dalla persona che aveva di fronte, e se qualcuno le faceva un torto, sapeva essere sprezzante, non mostrava nessuna pietà, non aveva limiti e arrivava al punto di ferire e umiliare il colpevole. Che fossero difetti fisici o di pronuncia, o un passato difficile, si permetteva di schernire qualsiasi cosa ed era capace di esprimersi con tale proprietà ed eleganza che i presenti non potevano fare a meno di ridere anche se si sforzavano di non farlo. E se la vittima in questione le rispondeva per le rime, per esempio commentando i suoi brutti incisivi, gli rideva in faccia. L’autocompassione e il sentimentalismo erano lussi che non si era mai potuta permettere e non si lasciava turbare da nulla. «Be’, se ai tempi mi avessero detto che si sarebbe trovata un prete, mi sarei sbellicata dalle risate!», commentava sempre la mamma.

    Anche tuo nonno aveva avuto qualche problema all’idea che tua madre si fosse sposata con un sacerdote. Da quanto dicevi, rimase ateo e comunista fedele a Mosca fino al giorno della sua morte. Scuotendo la testa, se la rideva di gusto divertendosi a prendere in giro molti dei capisaldi in cui Arvid credeva, e non si stancava mai di chiedergli di fornire delle descrizioni concrete, o delle spiegazioni razionali, sui diversi tipi di miracoli e prodigi contenuti nella Bibbia. «Non potresti illustrarmi questa storia della Immacolata concezione in modo che anche un sempliciotto di Otterøya sia in grado di capire?», era capace di domandargli, e se, ignorando il tono ironico di sottofondo che sapeva latente, Arvid gli rispondeva seriamente, il nonno lo stava ad ascoltare con un’espressione divertita dipinta sul volto e, quando Arvid aveva finito di parlare, sghignazzava scuotendo il capo con indulgenza: «Accidenti, quelli sì che erano bei tempi!», commentava. «Ai nostri giorni queste cose non succedono, questo è poco ma sicuro!».

    Queste conversazioni lo sollazzavano molto, mi dicevi, e lo stesso avveniva quando stuzzicava Berit ricordandole da quale genere di famiglia e ambiente arrivava. Quando si vedevano, tuo nonno parlava in modo ancora più colorito e rozzo di quanto non facesse di solito, e come per caso gli venivano in mente episodi del passato che avevano come comune denominatore dettagli che non si addicevano all’ambiente cristiano a cui Berit cercava di adeguarsi e di cui si sforzava di far parte. «E quel capodanno quando hai steso tutti gli uomini sotto il tavolo a furia di bere», era capace di dire mentre rideva di gusto, e quando tua madre non reagiva allo stesso modo, faceva finta di rimanere sorpreso e sconcertato. «Possibile che non te lo ricordi?», le domandava mentre aspettando una risposta si godeva la situazione e Berit sbiancava dalla rabbia.

    Ridacchiavi di gusto quando mi raccontavi queste cose, ma a volte ti sentivi insicuro e a disagio. Arvid faceva di tutto per fingere che tutto questo non lo toccasse. Da quanto dicevi, poteva diventare acido, lasciarsi prendere dallo sconforto o infuriarsi, ma voleva illudere te e tua madre che fosse al di sotto della sua dignità lasciarsi turbare e provocare da comportamenti di quel genere e per questo si limitava a sorridere ostentando una pazienza e una tolleranza infinite. Del resto questo dettaglio coincide bene con il modo in cui io ho avuto modo di viverlo come persona dopo che io e te ci siamo conosciuti e ho cominciato a trascorrere molto tempo a casa vostra. È possibile che il ricordo di allora sia influenzato dal fatto che in seguito sono venuto a sapere che Arvid aveva sofferto di problemi di carattere psichico dopo la morte di tua madre, eppure mi pare proprio di ricordare che già allora pensavo che fosse quel genere di individuo che cerca di coprire il proprio caos interiore con una parvenza esteriore calma e tranquilla e che, senza esserne consapevole, esagera finendo con l’incutere angoscia. Aveva un sorriso tanto dolce e pio che era difficile credere all’amore che irradiava, e parlava in modo così lento e pacato e con tale devozione che io mi sentivo inquieto in sua presenza e non il contrario, come invece ci si sarebbe aspettati.

    Comunque molti fraintendevano questo suo modo di fare e ritenevano che non fosse altro che la prova vivente dello stereotipo di prete pomposo e autocompiaciuto. A quanto pare invece nutriva davvero il desiderio genuino di essere e venire considerato un uomo perfettamente normale che per caso si era fatto sacerdote, un uomo che la maggior parte delle persone considerava uno di loro. In effetti in questo non ebbe fortuna. Le volte in cui lui, per il resto sempre così compassato, si metteva la sciarpa bianca e blu della squadra di calcio locale e faceva il tifo dalle tribune mentre giocava il Namsos erano tanti quelli che ridevano e lo guardavano con lo stesso disprezzo riservato ai politici che si comportavano in quel modo. Interpretavano il suo atteggiamento come una farsa e un tentativo di arruffianarsi l’uomo della strada. Oltretutto Arvid, come tanti preti, possedeva l’antipatica tendenza di far sì che la conversazione scivolasse su argomenti che riguardavano il cristianesimo e questo suo modo di fare contribuiva spesso ad allontanare le persone, che si sentivano palesemente a disagio. Per esempio, se una sera d’inverno eravamo seduti sulle scale di casa vostra ad ammirare il cielo stellato, ero certo che lui, come per caso, si sarebbe messo a parlare della stella di Betlemme, e se trasmettevano un documentario sulla natura in cui mostravano qualche specie animale che aveva saputo adattarsi particolarmente bene all’ambiente circostante, rimanevo in attesa del momento in cui Arvid avrebbe espresso il proprio stupore al pensiero che ci fossero persone che in tutta serietà credevano che qualcosa di così fantastico fosse frutto del caso.

    Tu stesso dicevi di odiare quel lato del suo carattere. Da bambino ti accadeva spesso di sperimentare come l’atmosfera cambiasse nel momento in cui Arvid metteva piede in una stanza. La conversazione più infervorata e rumorosa rischiava di interrompersi di botto nell’attimo in cui faceva la sua apparizione e tra i presenti si diffondeva un’aria incerta e leggermente nervosa. C’era sempre qualcuno che volutamente continuava a parlare e comportarsi allo stesso modo, ma erano talmente pochi ed erano così visibili che quasi sempre i loro sforzi risultavano più spasmodici e imbarazzanti che eroici, quindi o tacevano o agivano come tutti gli altri. Si mettevano a parlare di cose che a loro avviso erano sicure alla presenza di un prete. Snocciolavano in modo meccanico banalità qualunque ed esprimevano opinioni verso cui nessuna persona dotata di buon senso poteva dichiararsi in disaccordo. Mentre eri lì, ti sentivi bruciare dalla vergogna, ma secondo te Arvid non si accorgeva affatto di ciò che stava avvenendo. Oggi non sarei così tanto sicuro nell’affermare che avevi ragione. Ricordo Arvid come una persona intelligente e attenta e immagino che quelle situazioni dovessero essere state altrettanto dolorose e imbarazzanti per lui come lo erano per te.

    L’atmosfera inquieta, nervosa che scaturiva quando Arvid compariva in una stanza, la percepivo in

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