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Le parole confondono: Le parole confondono, #1
Le parole confondono: Le parole confondono, #1
Le parole confondono: Le parole confondono, #1
E-book416 pagine11 ore

Le parole confondono: Le parole confondono, #1

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Info su questo ebook

NUOVA EDIZIONE 16 APRILE 2020 CON NUOVO EDITING.

 

È una mattina come tante a Milano, tranne che per Andrea, fermo sulle terrazze del Duomo, deciso a lanciarsi nel vuoto. La sua vita è arrivata a un punto di rottura. 
Scavando nel suo passato, scopriamo la sua storia: quella da adolescente all'ultimo anno delle superiori, in una Napoli che gli si incolla addosso con un evento traumatico, e quella da venticinquenne, in una Milano nebbiosa e troppo affollata che lo costringe a prendere in mano le redini della sua esistenza e darsi da fare.
Se a Napoli viveva la sua dimensione di adolescente irrequieto, a Milano sarà l'amicizia con Francesco a consentirgli di orientarsi in una città a tratti ostile. Qui dovrà ripartire da se stesso, affrontando un segreto che credeva sepolto e dimenticato, ma sarà una scoperta sconvolgente sul suo migliore amico a spezzare quel precario equilibrio faticosamente raggiunto.
Può un'amicizia resistere a un terribile segreto?

Ultima revisione disponibile effettuata in data: 19 aprile 2020
Primo libro della serie Le parole confondono

 

Autore anche dei racconti/raccolta di racconti:
- Deve accadere
- Viaggio dentro una storia
- Journey within a story
- Racconti dall'isola

del romanzo di fantascienza:
- Joe è tra noi

e dei romanzi della serie "Le parole confondono":
- Le parole confondono: volume 1
- Certe incertezze: volume 2
- I motivi segreti dell'amore: volume 3
- Un giorno, sempre: volume 4
- Sempre coi tuoi occhi: volume 5
- Sai correre forte: volume 6

LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2013
ISBN9788890755941
Le parole confondono: Le parole confondono, #1

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    Anteprima del libro

    Le parole confondono - Giovanni Venturi

    1

    Il viaggio ha inizio

    22 dicembre 2010

    Odo un rumore nelle orecchie. Sembra un fischio prolungato. Non riesco ad aprire gli occhi. Sento una voce, un nome, forse qualcuno mi sta parlando. Sollevo appena la palpebra sinistra e la luce del sole, che proviene dalla finestra chiusa, mi ferisce in modo disarmante, così torno a richiuderla di scatto.

    Ora qualcuno mi scuote. Sento la pressione delle dita, i palmi che spingono, poi le mani che tirano. Dondolo appena appena, ma il sonno è tanto pesante da non farmi rendere ancora conto di nulla.

    «Aea… Andea… Andrea…» ripete aumentando il tono in modo leggero. Segue il silenzio, come se mi fossi immaginato tutto, o stessi sognando, ma un istante dopo colgo uno sbadiglio incerto.

    Il mio corpo è immobile, molto stanco. Prendo un po’ di coscienza con il mondo, appena una briciola, ma tendo ancora ad affondare nel sonno. Eppure c’è qualcuno, lo sento. È avvinghiato a me, le sue braccia sulle mie, le mani sulle mie spalle, le caviglie intorno alle mie e, pian piano, riprende a scuotermi. Mi sforzo, cerco di impormi. Devo riaprire le palpebre. Provo con la destra, poi sollevo anche la sinistra. Con grande fatica cerco di ricordare come sono finito a letto. Sto appena rituffandomi nella realtà, ricordo molto bene che quando ho chiuso gli occhi ero sul divano. Ne sono certo.

    Le sue mani mi scuotono di nuovo. Abbiamo fatto tardissimo stanotte. Non smettevamo più di parlare, di ragionare. Sono stato male, le sue parole mi hanno messo alla prova. Sono preoccupato come non mai. Mi giro; ora la luce è, in parte, meno forte. Lui è in boxer e maglietta ed è tutto proiettato su di me.

    «’ancé, scostati.» Immagino se qualcuno dovesse vedere questa scena cosa penserebbe.

    Guardo il suo corpo magro e ricordo tutte le parole di poche ore fa. Mi rimbombano ancora nella testa. Avrei voglia di capirlo, di dire che va bene ogni cosa che ha fatto, perché non devo giudicarlo, ma ci sono troppo legato per far finta di nulla, per non provare sincera e fraterna apprensione.

    Ha quest’abitudine di stringersi addosso. Quelle volte che dormiamo uno accanto all’altro, lo fa. Mi sembra un bambino spaventato. Poche ore fa sono volate certe brutte frasi, insulti davvero pesanti, e ce le siamo date di santa ragione, eppure è chiaro che abbiamo bisogno l’uno dell’altro.

    «Piccolino Francesco, spostati, dai. Non sono Caterina. Non mi premere il bacino contro il sedere, non sono lei, dai, Francis.»

    Non risponde. Dorme come un sasso. È di nuovo in coma, peggio di me. Si sposta dall’altro lato mormorando qualcosa di incomprensibile e mi libera dalla morsa.

    Che ore saranno?

    Osservo la sveglia e mi sollevo dal letto, di scatto. Il cuore accelera all’istante, per poco non urlo. Non farò mai in tempo.

    Ma no, no. Devo. È importante.

    Poggio i piedi in terra, mi gira la testa, barcollo, mantengo ancora le mani sul materasso, incerto, mi sembra quasi di non ricordare dove sono, come se mi avessero iniettato un pesante narcotico, una dose per elefanti. Ho indossato le ciabatte, ma quella destra mi sfugge e, in un movimento rapido, inciampo e finisco lungo disteso a terra tirandomi addosso il tavolino e le bottiglie di birra vuote che non dovevano essere lì.

    «’dré, non fa’ danni.» La voce impastata di sonno di Francesco è stata quasi un bisbiglio.

    Zoppico, mi spoglio in tre secondi e volo sotto la doccia.

    «Fredda!» urlo. Ora sì che sono del tutto sveglio.

    Qualche minuto dopo sono già vestito. Azzanno un cornetto grondante di cioccolata. La crema scura inizia a colare. Pochissimi secondi di distrazione e devo correre a cambiare la camicia, accidenti!

    Guardo l’orologio ancora una volta e una voglia di piangere mi scuote con forza bruta, avvilente quasi, ma resisto. Devo solo sperare in qualcosa, in un suo ritardo. Non può sempre andarmi tutto storto. Dovrei iniziare a fare un po’ di pensieri positivi, eppure ho una strana sensazione che mi percuote, che da sotto la pelle esce e fa di tutto per farsi sentire. Provo a ricacciarla, cerco un sorriso. Non è difficile, però continua a mordere con forza nella mia carne. Affonda i denti, ma io sono più forte.

    Mi cambio, infilo il maglione, il giubbotto, e mi osservo un attimo nello specchio in corridoio. Torno rapido in bagno e mi do una spruzzatina di profumo di Francesco. È davvero buono, di qualità, come tutte le sue cose.

    Sto per andare via quando me lo ritrovo davanti.

    «Oddio!» quasi gli grido in faccia.

    «Andrea, per caso hai visto un fantasma?» Mi mostra un largo sorriso compiaciuto.

    «Eh, vedi tu.»

    Mi dà un bacio in fronte e ride.

    Lo abbraccio per salutarlo. Lo stringo a me con forza ripensando che io e lui non siamo mai venuti alle mani prima di stanotte.

    «Ohi, ma stai tremando. È tutto a posto?» La sua voce è stata così bassa. Mi sfiora con una mano la schiena e poi la muove su e giù.

    Mi stacco da lui. «Sì, scusa. Ora devo scappare.»

    «Hai una faccia così strana. Ma ti senti bene, André?»

    Annuisco.

    Anche lui ha una faccia turbata, sembra non voler dire altro. Sospira. «Sarà, ma non ti vedo bene. Non mi fare preoccupare.»

    «Sto bene, ti dico. Sono solo distrutto, pieno di sonno. È tardissimo. Anche tu stai ancora dormendo.»

    Ha viso rilassato e occhi che mi scrutano. In realtà sembra aver vinto il sonno, mi dà l’impressione di uno che è sveglio e vigile.

    «Che faccia cupa che hai. Relax, forza! E fammi sapere, va bene? Io torno di là.»

    I suoi piedi strisciano sul pavimento, poi Francesco si lancia sul letto grande, come se saltasse da un trampolino verso il materasso. Mi viene da ridere.

    Mi richiudo la porta alle spalle. Inizio a correre e in tre minuti sono in metropolitana. Controllo di continuo l’orario sul cellulare, ma a un certo punto si spegne senza volerne sapere di rianimarsi. Tiro su lo sguardo. Osservo il rettangolo col nome della fermata da dietro il vetro e mi iniziano a tremare le gambe.

    Ho di nuovo sbagliato direzione. Lo faccio sempre, quando vado di fretta. Ho la testa proprio nel pallone. Ho riposato troppo poco, solo tre ore, forse quattro. Devo arrivare alla terrazza del Duomo.

    Devo. Assolutamente.

    La mia storia sembra essere giunta a un punto particolare, critico, che non so come affrontare. Sono impreparato. Vorrei ripercorrere tutto dal principio, ma in quale modo posso raccontare tutte le cose strane e imprevedibili che mi sono accadute in questo periodo? Mi perderei dietro troppe parole, e le parole confondono. Non se ne viene più fuori.

    Sono ormai sulla terrazza. Non ho quasi coscienza dei miei movimenti, dei miei pensieri. Rivedo sogni, risate, Francesco, Caterina, Claudio, il cane che non ho mai avuto. Sono arrivato a questo punto in modo incosciente e sto per fare qualcosa che non era in programma, voglio cambiare idea, non voglio farlo davvero, ma una mano invisibile mi guida pensieri e passi.

    Giù in piazza le persone appaiono come tanti puntini. Ho sporto le gambe oltre uno dei muretti, non so se qualcuno si accorgerà di me in questa Milano caotica. Ho paura. Non so davvero cosa sto facendo. Voglio volare giù, spiaccicarmi, essere dimenticato in modo definitivo.

    Sono venuto qui per incontrare lei, la persona più importante della mia vita, ma ogni cosa sta andando in modo del tutto diverso da come mi aspettavo. Qui non c’è nessuno, a parte me. Credo sia finita.

    Mi fermo, ci ripenso, poi mi blocco. Voglio morire.

    Mi sembra di sentire un’eco confusa in testa.

    Tra due secondi sarò in volo verso il suolo. Non so nemmeno io come mi sia venuto in mente, non era previsto. Lei non è qui, ho guardato bene ovunque, non c’è e io sono sfinito, consumato in ogni cellula del corpo, ho la mente in subbuglio.

    È il momento di saltare, ma se lo faccio non verrete mai a conoscenza del motivo che mi spinge a compiere questo gesto estremo. La storia non partirà nemmeno. Si arresterà tutto prima ancora di aver iniziato. Non so nemmeno se sono riuscito a guadagnarmi la vostra simpatia, o se invece provate compassione. Bisogna conoscermi bene per capire cosa mi è successo, parlare almeno una volta con me. Ma ora cerco di spiegarmi meglio. Il cuore mi batte troppo forte per le vertigini.

    Sintonizziamo meglio la stazione, perché la trasmissione sta per partire.

    Torniamo a ieri. Uno ieri generico, si intende.

    Zitti che comincia.

    Abbassate le luci e spegnete i cellulari.

    Via con la musica di sottofondo. Scegliete quella che più vi aggrada perché il viaggio ha inizio.

    2

    Il colloquio

    3 novembre 2010

    Oggi ho il colloquio. Ho una paura matta di sbagliare, di non riuscire a convincere nessuno con la mia idea. L’editore potrebbe mettermi alla porta ancor prima di farmi spiegare.

    Ho studiato a Roma, poi a Bologna, e adesso sono a Milano da una settimana, in questa città così singolare e del tutto distante dalle mie origini. A volte mi sembra di essere sul punto di crollare; mi lascio rapire da una strana malinconia, forse c’è dell’altro, ma ancora non riesco a mettere tutto a fuoco.

    Sono un povero precario di quasi venticinque anni. Ho preso un appartamento in affitto con un mio caro amico, nonché compagno di studi. Lui ha due anni meno di me e non è ancora laureato. Quando mi ha informato dell’idea di trasferirsi da Bologna a Milano, mi è dispiaciuto molto. Abbiamo creato un legame molto stretto, intimo, condiviso feste, pensieri, difficoltà e momenti d’allegria che quando me lo ha detto mi sono sentito perso. L’ho seguito quasi per disperazione.

    Ho dovuto cambiare ancora una volta città. Non volevo, ma Francesco ha insistito, mi ha detto che non devo avere paura delle novità e delle occasioni che si presentano mentre si fanno delle scelte, tanto c’è lui su cui posso contare. Non mi andava che le nostre vite si separassero così, di botto; ci tengo troppo a lui. Non ha impiegato più di cinque minuti per convincermi e, titubante, mi sono lasciato trascinare nell’avventura. Avremmo condiviso l’appartamento e le spese; solo così ce l’avremmo fatta. Ci conosciamo da tanto tempo e sapevo quel che facevo.

    È stato lui a procurarmi il colloquio. Ha saputo da un suo amico che c’è la possibilità di un’assunzione. Francesco ha insistito per prestarmi alcuni suoi abiti. Siamo entrambi molto magri e portiamo la stessa taglia. Mi ha detto che a Milano bisogna badare molto a cosa si indossa. E io l’ho ascoltato.

    Ecco, non me ne ero accorto. Sono davanti al palazzo, uno di quelli antichi con un portale in legno massiccio. Sembra di trovarsi nelle strade sconosciute e abbandonate di Barcellona di cui racconta Carlos Ruiz Zafón. Palazzi antichi e lussuosi con tanti segreti da scoprire.

    Premo il tasto del citofono. Nessuna voce risponde, però qualcuno apre. Odo lo scatto della serratura del portone. Pesa molto, così lo spingo con forza. Lo sento richiudersi lentamente alle mie spalle. Per un attimo il silenzio dell’ambiente mi avvolge come se fossi da solo in una navicella spaziale. L’interno dello stabile è un po’ buio. Mi accorgo di qualche lampadina fulminata.

    Salgo i primi gradini. Dopo un po’ noto un uscio aperto. Leggo la targhetta sul campanello, poi quella sul legno scuro della porta d’ingresso.

    Sì, è proprio qui.

    Mi ricevono in maniera quasi informale, come se fossi un amico. Mi fanno accomodare in una sala di media grandezza, uno studio privato, credo. Sulle pareti ci sono alcuni ritratti, delle stampe di vecchie pubblicità e un panorama di New York, inoltre, accanto a un acquario di pesci, c’è una grossa pendola che segna le ore. L’ambiente è impregnato di fumo, un tanfo insopportabile.

    Vorrei aprire la finestra, ma una voce mi fa trasalire.

    Mi volto di scatto.

    «Allora, Andrea, di dov’è originario?» mi accoglie l’editore. Penso che possa avere un’età compresa tra i trentacinque e i quarant’anni.

    Il colloquio ha inizio.

    «Sono meridionale.» Quando sono in città tanto grandi e famose, un po’ mi pesa ammetterlo, come se si trattasse di un handicap.

    Il signor Rossi mi fissa a lungo. Ho sempre creduto che i Rossi a Milano fossero una specie di leggenda metropolitana.

    «Capisco.» Non aggiunge altro.

    Non so come interpretare quello sguardo, quella parola secca. Sono sulle spine. Avrei quasi voglia di salutare, riprendere ombrello e impermeabile e ritornare giù in strada, sotto la pioggia incessante che ancora fa eco nelle mie orecchie.

    «È molto grave?» Mi siedo e metto in bella mostra un sorriso.

    «Ma no, ma no, cosa dice? Ci sono molti suoi colleghi che vengono da quelle parti» aggiunge, poi si accomoda dietro la grossa scrivania. C’è il mio curriculum in bella vista accanto a un portatile spento. Andrea Marini, nato a Napoli il 15 novembre del 1985, leggo, in attesa.

    «Quindi, sono assunto? Parla di colleghi, ma non mi ha chiesto ancora nulla» la butto lì.

    «Be’, potrei farlo, sì. Dipende da lei. Mi stanno simpatici i meridionali. A differenza di quello che si potrebbe pensare, sono tutta gente in gamba. Di dov’è precisamente?»

    «Napoli.»

    «Napoli?» Ecco, ora ci ripensa. Pare quasi io abbia detto Bangladesh. Spesso ho pensato che Napoli fosse davvero il Bangladesh, ma in una versione peggiore. Molto, ma molto più disastrata.

    «Mia moglie è nata a Napoli» aggiunge, mostrando un sorriso allegro. «Zona Museo, piazza Dante.»

    Non fiato. Lui tamburella le dita sul legno lucido del piano della scrivania.

    «Leggo che ha una laurea in letteratura classica e moderna ed è stato speaker radiofonico in un paio di radio romane e in una bolognese, ma non vedo come un curriculum simile possa sposarsi con la sua istruzione. Dovrebbe insegnare italiano nelle scuole, magari latino in un liceo classico.»

    A venticinque anni? Che bell’augurio. In un mondo ideale sarebbe proprio quello che farei, ma vorrei usare questa laurea per coronare il sogno della mia vita. Diventare uno scrittore bravo e conosciuto, ma so bene che in Italia questi pensieri lasciano il tempo che trovano. Tutti pensano che sia il sogno di una persona stupida e immatura che non sa affrontare la vita. Eppure, senza questo sogno, ora non sarei così lontano da casa e non avrei lo stomaco che mi si spacca.

    Questo tempo così piovoso e freddo mi getta indietro con i ricordi. La mia vita che un bel giorno è cambiata, di punto in bianco, e ancora non riesco a rendermene davvero conto. Quanto tempo è passato? Cinque anni? Sette?

    «Vede, ho un’idea formidabile. Quando ho chiamato qui in redazione, Gianluca… ehm, il signor Pirozzi, volevo dire, mi ha detto che stavate cercando qualcosa di nuovo che permetta di aumentare gli ascolti. Ecco, signor Rossi, io…»

    «Chiamami Angelo» suggerisce in modo cordiale.

    «Signor Angelo, ecco io…»

    «Solo Angelo.»

    «Ecco, vorrei proporle una rubrica raccontata.» Continuo incurante della sua richiesta. Dargli del tu non mi riesce. «Si potrebbe realizzare un programma con sottofondi musicali durante la lettura e una storia appassionante, ironica, divertente.»

    Angelo si pizzica il labbro inferiore. «Una rubrica raccontata? Ho capito bene quello che hai in mente?»

    Lui riesce a darmi del tu senza problemi.

    «Lo so che può sembrare qualcosa di datato e che risale all’esordio della radio stessa, ma sa quante storie sono state raccontate attraverso l’etere prima di iniziare a trasmettere solo musica?»

    «Veramente si raccontano anche oggi. Dipende da cosa vuol dire di preciso, poi dovrei capire se una cosa del genere sia gestibile. Sempre che io abbia capito bene la faccenda.»

    «Racconterei una storia dividendola in capitoli per carpire l’attenzione dei lettori.»

    «Lettori? Be’, vorrai dire ascoltatori, no, Andrea?» osserva, accennando un altro sorriso.

    Sorrido a mia volta, un po’ a disagio. «Sì, sì, mi scusi l’inesattezza, intendevo proprio gli ascoltatori.»

    Angelo prende un piccolo pacchetto rosso sistemato sopra un’edizione abbastanza stropicciata di Cent’anni di solitudine. Tira fuori una sigaretta, poi me ne offre una, ma faccio un cenno di diniego. Accende e poi tira una boccata di fumo.

    «Mi vorrai mica leggere il Conte di Montecristo la sera in diretta? Oppure Tre metri sopra il cielo? Non se ne parla proprio. Siamo una radio locale nuova, nata otto mesi fa, e non possiamo permetterci errori. Siamo solo all’inizio e le cose non sono ancora facili. Un’idea carina, ma sbagliata, e chiudiamo. Capisci?»

    «Niente diritti d’autore.» Non ho nemmeno preso fiato. «Non dovrà, se mi assume.»

    Posso leggere un mio testo, vorrei dire, ma non ci riesco. Non sembro nemmeno abbastanza convinto con me stesso.

    «Non ti seguo. È una roba simile, o no? Sei o non sei laureato in lettere?»

    «Sì. È una roba simile, come dice lei.»

    Tira altre boccate di fumo e inizia a grattarsi la barba vicino all’orecchio destro. «Una soap opera? Vuoi scherzare, vero?»

    «Credo di aver letto da qualche parte che su Radio Montecarlo realizzarono un radiodramma, Colomba Darrel, organizzata coi rumori. Non so in che anno. Quindi l’idea forse non è nemmeno originale, ma un radiodramma non ha niente a che vedere con le soap opera, per nulla.»

    «Ma la tua sarà una soap opera, vero?» Mi scruta sbattendo le palpebre più volte, ma non so dire se lo fa perché l’ho incuriosito o se è perché sta trattenendosi dal buttarmi fuori della porta.

    «Ma no, niente robaccia simile, giuro. È un romanzo. Un mio romanzo, una mia storia. Possiamo fare così. Se lei mi dà la possibilità, vede come va la cosa e poi, se dopo due o tre serate il programma non decolla, mi licenzia.»

    «Appuntamento al buio. Senza avere idea di cosa leggerai?» mormora, ma poi ride.

    Un mio romanzo. L’ho detto davvero? Non sapevo nemmeno di averlo scritto. Non sono certamente così prolifico e geniale come Stephen King o bravo quanto Erri De Luca. In questo momento mi sembra davvero di dire una serie di cose buttate a caso.

    No, io non ho mai scritto un romanzo vero, quello che presenti a una casa editrice su dei fogli stampati e rilegati, con pagine ordinate, mentre attendi che se lo leggano, e preghi la notte fonda affinché piaccia, prendano in mano il telefono e ti ricontattino. Ho soltanto imbrattato diverse pagine con una storia particolare. Accidenti, ma che sto dicendo? No, non devo sminuire tutto. In realtà ci ho sudato sangue sopra per anni, è una cosa in cui credo tanto.

    «Sembri così sicuro, Andrea, ma io devo guardare ai numeri e se non funziona te ne torni da dove sei venuto.»

    Non ho afferrato se gli sto simpatico oppure se pensa che gli abbia fatto perdere solo tempo, ma ho capito che mi dà una possibilità e che ora tocca a me.

    Adesso che quella storia è abbandonata in quelle pagine, dovrò riesumarla come un cadavere da portare in vita, ma non sono Mary Shelley e la mia opera non è una creatura a cui uno scienziato pazzo possa donare il soffio della vita in una notte buia e tempestosa.

    La mia storia è la mia storia.

    «È la biografia della tua vita?»

    «Come?»

    «I giovani scrittori raccontano sempre di se stessi.»

    Sono in cerca della risposta giusta. Spesso non mi riesce di controbattere. È difficile per me se prima non mi sono chiarito le idee mettendole su carta.

    Abbozzo un sorriso. Per Angelo Rossi sono già diventato un autore. Mi pare un buon inizio.

    «Vedi, Angelo, io…» ho preso coraggio. «Io non so come funzioni con gli altri, magari hai ragione, ma per me non è così. Fare una lunga autobiografia sarebbe autodistruttivo per chi scrive e noioso per chi legge.»

    Qualcuno potrebbe mai ammettere che ci siano elementi autobiografici in un proprio romanzo? Voglio dire, non si narra di se stessi, ma si rielaborano storie che si sono lette su un quotidiano, che si sono viste per strada o che ci sono state raccontate, o che fanno parte, in qualche modo, della propria vita. Raccontate da un diverso punto di vista, naturalmente, e mischiate con altro.

    «Sarà qualcosa di dinamico?»

    «Sì, e anche divertente, catturerà il pubblico.»

    Forse sono stato generico.

    Mi osserva incerto. «Ti devo credere sulla parola? Dammi qualche anticipazione, perché sono molto curioso. Adoro i libri, soprattutto quelli buoni.»

    L’aria fuori è fredda. Avevo viso, naso e mani ghiacciate prima di salire le scale, ma ora, sarà l’agitazione, forse il caldo dei termosifoni, sono quasi sudato. A un certo punto vedo dei fiocchi bianchi cadere. La finestra che ha alle spalle Angelo Rossi è un semplice scorcio verso la quotidianità, la vista di una strada del centro di Milano. Nulla di eccezionale. Niente Vesuvio, niente mare.

    Fiocchi di neve che cadono veloci, uno dopo l’altro, spinti dal vento. Bene. Non ho nemmeno le scarpe adatte, sono in giro da stamane e abbastanza lontano dall’appartamento in cui vivo, senza contare che il frigo piange.

    Devo comprare qualcosa da mettere sotto i denti al più presto e dare un flusso da programma radiofonico alla mia storia. Se mi chiama Francesco cosa gli devo dire? Com’è andato questo colloquio?

    Le lampadine fulminate sono ancora lì. Mettendo meglio a fuoco mi rendo conto che ci sono anche dei neon difettosi che lampeggiano. Mi fermo a osservarli, poi penso che prima o poi li cambieranno, forse già domani mattina.

    Ho sempre avuto l’idea che questa fosse una città organizzata e precisa, eppure, ora, mentre scendo queste scale gradino per gradino, potrei benissimo essere in qualsiasi altra parte del mondo. In questo momento davvero potrei confondermi e non sapere in che posto del mondo mi trovo.

    La stanchezza del giorno si appoggia a me, ma io le chiedo una tregua. Che mi conceda almeno di tornare a casa.

    C’è molto silenzio, ogni tanto l’aria viene scossa da tuoni. La pace che trasmette questo palazzo un po’ buio sembra tenermi prigioniero felice in un’altra dimensione, poi l’illusione è interrotta dalla tempesta che si è scatenata fuori. Piove, piove e piove.

    Ho camminato tutto il giorno e ho i piedi a pezzi. Sono stato in giro per colloqui vari. Forse nel penultimo mi assumerebbero anche, ma non ho ben capito con quale mansione. Fare fotocopie in un ufficio, mantenere in ordine un archivio, forse. Mi hanno chiesto se so usare il computer. Oddio, sono laureato in lettere, non in informatica, ma la tesi non l’ho certamente scritta a mano su fogli di papiro.

    L’ultimo colloquio, quello in radio, è stato di certo il più interessante della giornata, ma non so dire in che modo sia andato. Resto confuso. Sono quasi sette giorni che cerco lavoro e sono convinto che se bussassi a una qualsiasi porta di un pub, data la mia esperienza, subito mi darebbero un lavoro. Ho servito panini e bibite ai tavoli di continuo. L’ho fatto spesso durante l’università e lo farei senza problemi anche adesso, ma prima voglio tentare con qualcosa di meno stressante e più vicino alle mie aspettative.

    Vorrei dirlo a Francesco; sto provando a contattarlo da un paio d’ore, ma non mi risponde. Quel piccolo delinquente è di continuo in giro. Ha una vitalità quasi innaturale. Non mi ha fatto nemmeno una telefonata per chiedermi com’è andata. Avrei approfittato per dirgli di comprare l’occorrente per la nostra sopravvivenza fisica. Non ho le forze per affrontare anche questo impegno serale, sarei capace di lasciare il frigorifero così com’è: con solo una bottiglia di acqua naturale e un pacchetto di sottilette.

    I gradini sono terminati. Sono di nuovo a piano terra del palazzo della radio. Vedo il mio riflesso sul vetro della portineria vuota. La camicia bianca e l’abito garbato di Francesco mi fanno un certo effetto. Mi sono specchiato anche sul vetro in bagno prima di andare via e devo dire che sembro un bel figurino.

    Attraverso il lungo androne senza correre, mentre la sera avanza. Sento già il rumore più forte della pioggia. Non c’è nessuno che entra o che esce dal palazzo, ma decido di non intrattenermi oltre e andare via. Tiro il portone e, tutto a un tratto, mi sembra che la pioggia sia meno intensa. Apro l’ombrello e mi lascio fagocitare da queste strade, da questa città.

    Fermo davanti a un locale osservo, da dietro la vetrina, un bambino azzannare un panino e lo stomaco fa un rumore di vuoto. A pranzo ho mordicchiato qualche pacchetto di cracker, mangiato un croccante e ora mi sento venir meno.

    Dopo aver chiesto l’ora a un uomo incurante che scappa via sotto il suo enorme ombrello scuro, resto senza alcuna risposta, non mi va, sotto la pioggia di prendere il telefono. Sono quasi sicuro che lo farei cadere nelle pozzanghere davanti a me. Vorrei quasi seguirlo e ripetergli la domanda, ma desisto. Attraverso la strada, mi infilo in un pub ed estraggo dal minuscolo zaino il cellulare, sono le 19:01. Resto all’ingresso del locale per un attimo e noto che è quasi del tutto vuoto. Cerco un posto tra panche e tavolini in fondo, mi siedo e, infine, riesco a riposare un po’.

    Provo a chiamare Francesco, ma nulla; ora è addirittura non raggiungibile. Sarà stato inghiottito da un buco nero.

    «Cosa ordina?» Una ragazza coi capelli ricci si è appena fermata accanto a me.

    Nel locale c’è una musica di sottofondo e una voce suadente che parla. Mi suona quasi familiare, poi realizzo, sorridendo. «Radio Lunare, giusto?»

    La ragazza annuisce. «Esatto. C’è il programma di Piro Pirello. Se vuole ascoltare meglio e non le dà fastidio, posso alzare un po’ il volume.»

    Gianluca Pirozzi, in arte Piro Pirello.

    «No, va bene lo stesso. Prendo un hamburger con insalata e una birra chiara.»

    Sollevo il capo verso di lei e mi accorgo che mi guarda con insistenza, come se avessi dimenticato di concludere l’ordinazione. Mi perdo nei suoi occhi chiarissimi. Lei se ne accorge, mi scruta, poi sorride impacciata e si ritira.

    Dopo un po’ è di ritorno dalla cucina con la mia cena. «Cerca lavoro?»

    Torno a sorriderle. È piacevole essere al centro delle sue attenzioni. Una ragazza carina in una semplicissima e comunissima divisa da cameriera che risponde al mio sorriso. A Napoli è quasi sempre stato il contrario. Dovevo essere io a cercare di avvicinare una ragazza, quasi sempre con fatica, ma ora i ruoli sono invertiti e mi sento benissimo.

    «Puoi darmi del tu» mi lancio, poi aggiungo: «Ma davvero si nota che cerco un lavoro?»

    «Be’, non solo quello.»

    Non si agita per nulla, il viso resta inespressivo così tanto che mi chiedo se non mi abbia snobbato nella sua risposta.

    Va via lasciandomi cullare nell’incertezza. Cosa altro si noterebbe? Che voleva dire? Sembra fare una sfilata. Il panino è ancora nel piatto davanti a me e, quando torno dal bagno, dinnanzi a me ci trovo anche lei.

    «Credevo fossi andato via.»

    Ora mi sento davvero piccolo piccolo. Sta cercando di sedurmi o è solo annoiata dal fatto che il locale è quasi vuoto?

    «Piacere, Andrea» butto lì.

    «Debora.»

    «Con o senza l’acca?» oso dire, poi noto che mi guarda a lungo senza fiatare, e in modo perplesso. Le mie pessime battute!

    «Sei di Napoli?»

    Ero di Napoli. Oggi sono cittadino del mondo e, in questo momento preciso, vorrei trovarmi a Dublino, a Parigi, a Londra, altrove ma non lì. Non vorrei essere in questo posto mentre una ragazza mi chiede se sono di Napoli nello stesso modo in cui si chiede a uno se fa l’idiota o se lo è.

    «Conosco a memoria tutti i film di Massimo Troisi. Tranquillo, non ti preoccupare. Ho capito che volevi fare il simpatico.»

    Me lo dice in un tono così asciutto che non so come interpretare quel simpatico.

    «Ti sei offesa?» Mi pizzico un palmo con pollice e indice.

    Mi sorride, incrocia le braccia sul petto e mi osserva. Sono molto imbarazzato e non so come uscire dalla situazione, poi lei continua.

    «Ma no, no. Solo che sono sempre euforica quando entra qualcuno carino e viene a sedersi da solo quaggiù. Pensa che, invece, a fine serata non mi reggo nemmeno più in piedi. Per rimanere in tema di lavoro, se vuoi, qui stiamo cercando gente in gamba, se ti interessa.»

    Scrollo le spalle. «Cerco qualcosa, sì. Ci penserò.»

    «Ah, comunque è senza l’acca. Dico, il mio nome.»

    D’improvviso una vampata di calore mi invade. Lei è sempre davanti a me, immobile. Mi pare che si sia stabilito un contatto molto intimo tra di noi, o forse sto immaginando tutto.

    Debora mi guarda allegra come se volesse la stessa cosa che anch’io, a un tratto, desidero. Poterla prendere su questo tavolo di legno nel centro di una città nuova, di una metropoli in movimento di giorno e di notte, senza interruzione, dove i desideri e le passioni sembrano più amplificati che mai. Come se avessi sepolto certi momenti del mio passato, così, senza pensarci troppo.

    Resto in silenzio ripensando al suo timbro di voce così delicato. Non sono mai stato per incontrarsi, piacersi e finire nudi a fare sesso, ma in quel momento è proprio quello che desidererei fare. E lo farei. Ora o mai più.

    Se ci fosse stato Francesco al mio posto magari sarebbe andata proprio così. Anzi, ne sono sicuro. Ma per me è diverso, le novità mi mettono sempre alla prova, vorrei cambiare qualcosa di me.

    Chiedile il numero di cellulare! Chiedile qualcosa, qualunque cosa!

    Non posso, non posso.

    Che idiota che sei!

    Appena dieci minuti e il locale inizia a riempirsi di adolescenti, mentre Piro Pirello continua a intrattenere con il suo mirabolante programma. Lo ascolto da un paio di giorni. Mi piace.

    «Aspetta, vengo subito. Ho da proporti una cosa.» Debora senza l’acca si allontana e trasporta nel gesto i suoi capelli castani ricci e la sua completa e adorabile sensualità senza che io possa ribattere.

    Mi si secca la bocca. Bevo un sorso di birra, mentre il panino ancora mi aspetta.

    Vorrà propormi di andare da lei dopo il turno oppure

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