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Broken. Tienimi sempre con te
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E-book386 pagine5 ore

Broken. Tienimi sempre con te

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Info su questo ebook

Broken Trilogy

Mi chiamo Savannah Miller. Sono la figlia del sindaco di New York e ho sempre vissuto senza preoccupazioni. Fino al giorno del mio ventisettesimo compleanno, quando mi hanno rapita, incappucciata e portata via contro la mia volontà, lontano dai miei affetti, dal mio mondo. Sono stata picchiata, trattata come un animale e rinchiusa in una stanza senza finestre. Privata della dignità e della percezione del tempo ho finito per rinunciare a qualunque speranza. Avevo deciso di farla finita, quando un’unità speciale dell’esercito ha fatto irruzione nel luogo in cui ero prigioniera. Dopo avermi portata al sicuro mi hanno dato la possibilità di scegliere: rimanere con loro durante le indagini seguendo le regole stabilite oppure andarmene e rischiare di finire nuovamente prigioniera. Ho scelto la prima opzione.

J.L. Drake
è un'autrice bestseller internazionale. È nata in Nuova Scozia, in Canada, ma attualmente vive con la famiglia in California. Quando non è impegnata a scrivere adora trascorrere il suo tempo viaggiando. Le piace inserire sempre una punta di mistero nelle sue storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita11 giu 2019
ISBN9788822734846
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    Anteprima del libro

    Broken. Tienimi sempre con te - J.L. Drake

    Prologo

    Inganno

    Raggiro

    Disonestà

    Distorsione

    Finzione

    Mito

    Favola

    Frottola

    …comunque la metti, il significato è sempre lo stesso: bugie.

    1

    Non so da quanto tempo sono qui: quattro mesi, forse cinque. Il tempo scorre in modo strano quando non hai alcun mezzo per misurarlo. All’inizio lo calcolavo in base ai pasti che ricevevo, ma dopo un po’ le consegne si sono fatte più rare e meno regolari. So per certo che, da quando sono qui, è passata un’intera stagione. Gli uomini sono passati dalle maniche lunghe a quelle corte.

    La mia prigione è una piccola stanza arredata con un letto arrugginito che cigola ogni volta che cambio posizione. Un minuscolo tavolo di legno con un piccolo sgabello occupa un angolo, mentre nell’altro, nascosti da una tenda lacera, si trovano un gabinetto e un lavandino. Niente finestre, niente

    TV

    , niente da leggere se non una vecchia copia del Delitto paga bene di Nicholas Pileggi. Non sono mai stata una lettrice di romanzi polizieschi, ma ora potrei recitarlo a memoria, parola per parola.

    Odo il suono ormai familiare della chiave che sblocca la serratura, e il mio stomaco si contorce. Mi aggrappo al mio maglione ormai logoro, avvolgendomelo ancora più stretto attorno al corpo: come se questo gesto potesse proteggermi da loro.

    Sento i suoi stivali strisciare sul pavimento di legno e gocce di sudore iniziano a colarmi sulla nuca. Merda, è lui. Mi viene la pelle d’oca quando vedo le sue dita, grosse come salsicce, stringere un vassoio di cibo per me. Il ventre peloso spunta da sotto la maglietta e sporge al di sopra della cintura dei jeans. Non appena posa gli occhi su di me, mi rivolge un sorriso storto.

    «Hola, chica. Come stai oggi?». La sua voce è roca e l’accento pesante, ma capisco ogni singola parola. Il suo linguaggio del corpo parla da sé. «Ti ho fatto una domanda», tuona contro di me.

    «Bene», rispondo io, lottando contro il nodo che mi serra la gola.

    Mi sovrasta mentre regge il vassoio. Alla fine, alzo gli occhi verso di lui, e mi rivolge un sorrisetto, a dimostrazione di quanto gli piaccia esercitare quel tipo di potere su di me. Ho avuto abbastanza incontri con quest’uomo da sapere che non se ne andrà senza chiedere qualcosa in cambio. Fortunatamente, finora, non si è mai trattato di sesso; solo altri giochi mentali. Ciò non significa che non abbia mai fatto allusioni in proposito. Tremo, mentre con dita malferme mi aggrappo al bordo della camicia da notte di cotone che mi arriva a metà coscia. Ci manca solo che gli faccia venire in mente strane idee. Il suo sguardo cade sulle mie gambe, e si lecca le labbra.

    «Supplica», mi ordina, strascicando quell’unica parola. La bocca mi si asciuga. Lui adora questa parte. Io non sono altro che un animale per lui. Mi chiama perra, che in spagnolo significa cagna. Sento salire la rabbia: cerco di dire a me stessa di lasciar perdere, ma non ce la faccio. Ormai non me ne frega più nulla.

    Gli rivolgo il sorriso più dolce che riesco a mettere insieme. «Fottiti». Da quando sono qui, non ho mai pronunciato una parola in più dello stretto indispensabile; inutile dire che rimane totalmente spiazzato dalla mia scelta di parole. Di norma, faccio quello che mi viene detto, mentre segretamente fantastico sui molti modi in cui mi piacerebbe uccidere quest’uomo. Cerco di comportarmi bene, perché non voglio rivivere i miei primi giorni in questo posto. Il dolore indescrivibile che ho provato quando mi hanno pestata a sangue perché non avevo fatto ciò che mi era stato chiesto, mi ha fatto imparare in fretta.

    Il mio picco di adrenalina si esaurisce rapidamente, mentre guardo i suoi occhi stringersi e la sua mascella serrarsi. Lancia il vassoio attraverso la stanza, mandando i piatti a frantumarsi contro il muro.

    «Niente cibo per te, lengua de mierda!», sibila, avanzando di un passo verso di me. Mi copro le orecchie e mi stringo le ginocchia al petto. Quest’uomo è abbastanza grosso da sollevarmi con una mano sola e farmi fare la stessa fine del vassoio. Mi afferra una ciocca di capelli e mi trascina, mentre le mie ginocchia rimbalzano sul pavimento come se fossi una bambola di pezza. Avverto a malapena il dolore: la mia mente si concentra di più sul fatto che sopra di me sta un uomo, alto più di un metro e ottanta per centosettanta chili di peso, arrabbiato. Perché dargli quella risposta? L’unica cosa che mi è rimasta è che non mi hanno ancora uccisa. Forse mi tengono prigioniera per chiedere un riscatto. Non è un segreto che mio padre ha un sacco di soldi, e sanno tutti chi è, visto che si è ricandidato per il secondo mandato da sindaco di New York.

    Cerco di rialzarmi facendo forza sulle mani, ma uno dei suoi stivali si abbatte sulla mia schiena, spingendomi con forza a terra. Sbatto la fronte sul pavimento, e le orecchie iniziano a fischiarmi. Mi sfugge un lamento e i miei occhi cadono su qualcosa appena al di fuori dalla mia portata. Sento il rumore della cintura mentre se la leva, e il mio cuore accelera i battiti. No, no, no! Non posso credere che stia accadendo. Se solo riuscissi a spostarmi di qualche centimetro a destra… raccolgo tutte le forze che mi rimangono e mi lancio in avanti sul pavimento.

    «Dove credi di andare?». La sua voce è calma, così calma. Le mie dita si avvolgono attorno al frammento di un piatto, e mi infilo una mano sotto al busto per nasconderlo. «Vieni qui». Si piega, afferrandomi per i piedi e rivoltandomi a pancia in su, e mi trascina indietro verso il letto. Urlo in segno di protesta. Scalcio e mi muovo avanti e indietro, ma la sua stretta è troppo salda. «Sei una piccola ribelle, eh?», sogghigna.

    Si curva sopra di me, e io ne approfitto. Con uno scatto verso l’alto, gli conficco l’affilato pezzo di vetro nel collo. I suoi occhi si allargano per lo stupore, e cade di lato con un pesante tonfo, imprecando e annaspando per estrarre l’oggetto. Scatto in piedi e mi dirigo verso la porta aperta.

    Non ho idea di quale direzione dovrei prendere, ma non mi interessa. Per la prima volta da non so quanto tempo, sono fuori da quella stanza. Mi muovo alla massima velocità che i miei piedi sono in grado di raggiungere. Sono in preda a un calo di zuccheri e mi sento la testa leggera, ma vado avanti: questa è la mia occasione. Non faccio attività fisica da una vita, e il mio cervello fatica ad aspettare mentre le mie gambe cercano disperatamente di tenere il passo.

    Il corridoio è lungo, con un sacco di porte, la carta da parati è strappata in diversi punti e la luce è scarsa. Sembra un albergo abbandonato, ma dove sono le finestre? Giro un angolo dopo l’altro, e mi appoggio alle pareti per reggermi in piedi, mentre le mie ginocchia si fanno sempre più deboli. Ho perso il senso dell’orientamento: ogni corridoio sembra identico al precedente. Con il cuore in gola, sento alzarsi delle voci. Cerco di tirare e spingere la maniglia più vicina, ma non si muove di un millimetro. Lacrime pungenti mi scorrono sul viso. Arriva il panico, e mi lascio sopraffare dai singhiozzi. Cerco di ricacciarli indietro, ma sento che mi sto lasciando andare. Ho l’occasione di scappare, e non riesco nemmeno ad aprire una dannata porta! Un pesante clic seguito da un ronzio mi gela il sangue nelle vene. Poi le luci tremolano e si spengono.

    Mi copro la bocca per impedirmi di urlare, con le mani che mi tremano violentemente contro i denti. Appoggio la schiena contro la porta, in cerca di sostegno. Uno scintillio luminoso sulla sinistra attira il mio sguardo, ma si spegne rapidamente, sostituito da un tenue bagliore arancione. A circa tre metri da me c’è qualcuno, intento a fumare un grosso sigaro. Chiudo gli occhi e recito una preghiera silenziosa. Quando li riapro, mi trovo davanti due occhi malvagi, a pochi centimetri dalla mia faccia. Non riesco a muovermi. Conosco quest’uomo. L’ho visto qualche volta, in passato, credo diriga questo posto. Emette una boccata di fumo, riempiendomi il naso del nauseante odore del suo sigaro Montecristo. Riconoscerei quel fetore ovunque. Mio padre ha dato molte feste e questi, a quanto pare, erano i sigari più popolari tra i suoi ospiti.

    Le mie ginocchia si fanno sempre più deboli mentre l’uomo continua a fissarmi in silenzio. Sento la sua spalla spostarsi nella sua giacca, mentre alza una mano ad afferrarmi saldamente il mento. Con un gesto disinvolto, apre e accende il suo zippo, tenendolo alto per esaminare il bernoccolo che si va gonfiando sopra al mio occhio. La luce si spegne, e sento la stretta della sua mano spostarsi sulla mia nuca, mentre mi spinge in avanti. Evidentemente conosce bene l’edificio: nonostante sia buio pesto, mi guida senza esitazione. Sento solo il cuore che mi martella nel petto e il mio respiro corto ed esausto.

    Alla fine arriviamo davanti a una porta: lui la apre e mi spinge nella stanza. Inciampo in avanti e cado sulle ginocchia. Improvvisamente le luci si accendono, e io mi trovo faccia a faccia con il grassone, il cui collo è ora avvolto in una fasciatura bianca. Tiene in mano la sua cintura, facendola schioccare per fare più scena. L’ultima cosa che ricordo è che vengo spinta su un divano, e il primo colpo di cintura alla parte bassa della schiena. È un tipo di dolore che non dimenticherò mai: resterà per sempre radicato nella mia memoria. Fortunatamente scivolo in un luogo di beatitudine, una tregua che accolgo a braccia aperte.

    Mi sveglio afflitta da un dolore lancinante, al minimo movimento mi scendono le lacrime, e quando piango il dolore peggiora. Il mio cervello è annebbiato. Riesco a stento a formulare un pensiero; persino respirare è difficile. Mi ci vuole qualche secondo per rendermi conto che sono di nuovo nella mia prigione, stesa a faccia in giù sul letto cigolante. Mi lascio andare e inizio a piangere. Mi serve qualcosa a cui pensare, qualcosa su cui concentrarmi. Ricordo il primo giorno che sono arrivata qui. Cristo, sembra passato tanto tempo.

    «Ciao, tesoro», sussurro alla mia macchina Keurig, mentre posiziono sotto di essa la mia adorata tazza con la scritta

    NON PARLATEMI FINCHÉ NON È VUOTA

    e premo il pulsante. Alla mia amica Lynn piace scherzare sul fatto che non riesco a carburare finché non ho in corpo almeno una tazza grande di caffè. Mi ha comprato questa tazza per il mio ventiseiesimo compleanno. Era dentro a un cestino fatto da lei, insieme a un biglietto aereo per le isole Figi che ci avrebbe permesso di fuggire dal pazzo mondo in cui vivo. Ragazzi, che viaggio è stato. Sento aprirsi la porta d’ingresso.

    «Ora sei nei guai, Savi!», mi urla Lynn mentre entra in cucina. Tiene sollevata una rivista, mostrandomi la copertina. Non appena leggo la didascalia, mi rendo conto di essere nella merda.

    «Oh, no!». Le strappo la rivista dalle mani.

    «Oh, sì», sospira lei, passandomi accanto e aprendo un armadietto. «Quindi, devo dedurre che non ti ha ancora chiamato?».

    Scuoto la testa mentre osservo l’immagine in preda al terrore. La fotografia su «Us Weekly» mi ritrae in un bar, ieri sera, piegata sopra un tavolo con il didietro in bella mostra. La didascalia recita: La figlia del sindaco senza veli.

    «Stavo recuperando la borsa!», grido. «Quello non è nemmeno il mio culo, l’hanno modificato con Photoshop».

    «Lo so, ma il tuo caro paparino ti crederà?».

    Sorseggia il suo caffè, osservandomi preoccupata. «Forse dovresti chiamarlo tu per prima. Se lo fai, potrebbe sembrare meno grave». Io e Lynn siamo amiche da sempre. Ci siamo conosciute alle medie, il giorno in cui ci ritrovammo in punizione per non aver saputo tenere a freno la lingua, e da allora siamo diventate migliori amiche. Lei ha cavalcato l’onda della celebrità e della pubblicità sempre al mio fianco. È la mia roccia, e io sono la sua, ed entrambe consideriamo l’altra la sorella che non abbiamo mai avuto. Forse ha ragione. Getto via la rivista, recupero la borsa ed estraggo il cellulare. Dopo tre squilli, sento la sua voce.

    «Papà. Come stai stamattina?». Il silenzio si prolunga all’altro capo del telefono. «Ci sei?»

    «C’è un motivo per cui sto guardando mia figlia sulla copertina dell’ennesima rivista scandalistica?».

    Merda! Merda! Merda!

    «Papà, guarda, lo sai che ultimamente non sono uscita molto. Sono stata estremamente attenta dopo quello che è successo l’anno scorso. Ma non è come sembra…».

    «Evita, Savannah. Hai una vaga idea di che danno mi stai procurando? Ho tre persone che ci stanno lavorando, che stanno perdendo il loro tempo su questa stronzata!».

    «Papà, per favore, lasciami spiegare…».

    «No, Savi, ne parleremo domani sera a cena». La comunicazione si interrompe.

    Lancio il telefono sul bancone e mi passo entrambe le mani sulla faccia. Lynn mi posa delicatamente una mano sulla schiena, lasciandomi qualche momento per elaborare il tutto. Sospiro e mi infilo le mani tra i capelli. Lynn si sposta davanti a me, costringendomi a guardarla.

    «Dai, Savi, usciamo di qui».

    Dopo una doccia calda, inizio a riprendermi un po’. Mi infilo il mio vestito preferito, blu marino, abbinato a stivali neri e a un caban nero.

    «Okay, okay, piantala di agitarti», si lamenta Lynn, ferma sulla porta. «Stai benissimo».

    «Se vado in giro conciata come una in preda ai postumi di una sbronza e i media mi beccano, sai quanto se la spasseranno».

    Mi prende per le spalle e guarda la mia immagine riflessa nello specchio. «Chissenefrega di cosa pensano gli altri? Chiunque ti conosca veramente sa che hai un cuore d’oro… e una lingua sempre pronta a rimettere la gente al proprio posto». Sogghigna. «Come si fa a non volerti bene?»

    «Sì, sono un bel tipo», scherzo.

    Ci prendiamo a braccetto e usciamo dalla porta. Fuori nel corridoio dobbiamo scansare due imbianchini, e mentre premo il pulsante per chiamare l’ascensore, lancio un’occhiata a uno dei due. Indossa una cintura con una grossa fibbia, decorata con la scritta

    TEXAS

    e un bovino dalle lunghe corna al centro.

    «È parecchio lontano da casa», mormoro.

    Lynn scuote la testa. «Oh, per favore». Ride, notando la direzione del mio sguardo. «Ne vendono a palate in qualsiasi supermercato». Mi spinge in ascensore. Sospiro, tutt’altro che impaziente di affrontare il mondo esterno.

    «Pronta?». Si infila gli occhiali da sole.

    «Immagino di sì».

    «Piantala di preoccuparti, Savannah», dice Lynn dopo aver addentato il suo bagel. «Tuo padre se ne farà una ragione. Lo sai com’è».

    «Lo so. È solo che odio deluderlo, specialmente in cose come questa, e sono stata così attenta». Penso all’ultima volta che sono finita sulla copertina di una rivista. Ero inciampata su un tizio ubriaco ed ero caduta di faccia sul pavimento. I tabloid ci avevano costruito sopra una storia grandiosa, e ancor più grandiosa era stata la scenata di mio padre. Tutto ruota attorno all’immagine che il pubblico ha di te, e io non ne posso veramente più. L’idea di passare altri quattro anni in queste condizioni è sufficiente a mettermi addosso la voglia di urlare.

    «Hai qualche programma per stasera?», chiede Lynn, lanciando il suo tovagliolo sul piatto.

    «Sì, ho una cena di lavoro a cui non posso mancare. Stiamo cercando di accaparrarci un nuovo cliente».

    Il suo viso si rattrista. «Sembra… divertente». Fortunatamente per Lynn, lei lavora come artista nello studio di cui è titolare, mentre io sono in una grande società di marketing. Nonostante mi sia spaccata il culo per anni a scuola, ho ancora l’impressione che mi stiano usando per guadagnare clienti grazie alla mia parentela con il sindaco.

    Quando mia madre se n’è andata, sei anni fa, dopo una lunga battaglia contro il cancro, io mi sono trovata in una condizione di esaurimento mentale e fisico. Quando mio padre ha iniziato a impegnarsi di più in politica, ho cambiato il mio cognome acquisendo quello di mia madre da nubile. Non volevo che la gente capisse subito chi ero. All’inizio mio padre non capiva, ma ora sono sicura che non abbia nulla in contrario. Avevo solamente bisogno di tempo e privacy per andare avanti con la mia vita e superare il lutto.

    Più tardi, quella sera, mi trovo a perdermi nei miei pensieri, invece di prestare attenzione alla conversazione che si sta svolgendo. Eccomi qui, a un’altra fantastica cena con dirigenti incredibilmente noiosi, e non c’è nulla di interessante in quello che dicono. Mi coinvolgono a malapena e non chiedono mai la mia opinione. Me ne sto seduta, cercando di non dare a vedere ciò a cui sto pensando. Ad esempio, a come la cravatta del signor Roth continui a finire nella sua zuppa, e a come sua moglie finga di non notarlo. Continua a tentare di nascondere un sorrisetto… ne deduco che le cose a casa non vadano granché bene. Questo, almeno, è un minimo divertente. Sposto lo sguardo fuori dalla finestra, che dà su Central Park. Oh, cosa non darei, in questo momento, per andarmene a correre lungo quei sentieri innevati.

    «Posso venire a farle compagnia, ovunque lei sia in questo momento?», mi chiede Joe Might, curvandosi verso di me in modo che solo io possa sentirlo.

    «Chiedo scusa?».

    Sorride. «Sembra che lei se ne sia andata da qualche altra parte».

    Oh. Che imbarazzo, sorpresa a sognare a occhi aperti da quello che tutti sperano diventi un futuro cliente. Non mi sembra un bel modo per presentarmi.

    «Sono così dispiaciuta», arriccio il naso, infinitamente imbarazzata. Bel colpo, Savi!.

    «Non lo sia». Estrae una mano da sotto il tavolo e mi mostra il telefono sul quale stava giocando a poker online. Cerco di nascondere una risata; lui sorride e alza le spalle. «Sappiamo tutti che ormai l’accordo è concluso, no?»

    «Immagino di sì, vero?», rispondo con un sospiro. «Mi piacerebbe solo poter avere qualcosa di più forte». Indico il mio bicchiere di Pinot Grigio. Di norma non bevo, ma questa cena è uno strazio. Mi fa l’occhiolino prima di schiarirsi la voce.

    «Chiedo scusa, signori, ma devo scambiare due parole con la signorina Miller». Prima che mi renda conto di ciò che sta accadendo, mi allontana la sedia dal tavolo e mi aiuta ad alzarmi, guidandomi attraverso la sala ristorante e fuori dalla porta d’ingresso. Consegna al valletto la sua ricevuta e, pochi istanti dopo, mi siedo sul soffice sedile marrone chiaro della sua Corvette rossa. «Ora». Sorride. «Vediamo di trovarle qualcosa che le piaccia… da bere, s’intende». Non riesco a fare altro che annuire come una deficiente.

    Dopo qualche drink in un pub scozzese, decido che farei bene a rientrare prima di mettermi di nuovo nei guai con la stampa. Ci sono solo il barista e un uomo solitario nell’angolo, ma se mi trovassero in un altro pub dopo quello che è successo ieri sera, per quei due equivarrebbe a un terno al lotto.

    «Lasci almeno che l’accompagni di nuovo alla sua auto», replica Joe, alzandosi per infilarsi la giacca. È un bell’uomo. I suoi capelli castani fissati con il gel e gli occhi chiari formano una bella combinazione. Immagino che la sua età si aggiri attorno ai trentacinque anni.

    «Non è necessario. Posso prendere un taxi».

    «Sciocchezze. L’ho portata via io, quindi ho il dovere di riportarla indietro». Mi indica la porta. «Ha lasciato l’auto al lavoro?».

    Scuoto la testa mentre mi appendo la borsa alla spalla. «Un’amica mi ha dato un passaggio stamattina».

    «A casa, dunque?».

    Annuisco mentre usciamo. Il viaggio è piacevole. Mi fornisce nuove informazioni sulla sua azienda e mi fa qualche domanda sul mio lavoro.

    «Allora mi invierà via fax qualche campione, non appena le sarà possibile?», mi chiede, quando mi abbasso per salutarlo attraverso il finestrino.

    «Certamente. Buonanotte, Joe. Grazie per la bella serata, e per il passaggio». Mi dirigo verso il mio palazzo, decisa a recuperare subito il file necessario, senza aspettare l’indomani.

    Mi appoggio alla parete dell’ascensore, stanca e in ansia per com’è iniziata la mia giornata. L’idea di deludere di nuovo papà mi pesa enormemente. Ormai sembra che accada una volta alla settimana, per colpa dei media o, semplicemente, di qualcosa che dico o faccio in sua presenza. Dio, quanto mi manca mia madre! Era così dolce e comprensiva. Non le sarebbe importato se avessi indossato il vestito sbagliato a pranzo, o avessi detto la cosa sbagliata a una cena di lavoro. Cristo, sono una persona normale. Non ho mai desiderato stare sotto i riflettori, mai! Neanche una volta!

    Esco dall’ascensore, il parcheggio è silenzioso. Per fortuna, la mia auto non è lontana: iniziano a farmi male i piedi in questi stivali con il tacco alto. Apro il bagagliaio, recupero la custodia con dentro il mio portatile, e improvvisamente sento qualcuno dietro di me. Faccio per girarmi, ma un pezzo di stoffa nero cala sulla mia faccia. Una mano mi copre la bocca per impedirmi di urlare. I miei piedi abbandonano il terreno mentre vengo issata sulla spalla di qualcuno, e sento qualcosa di freddo e duro sfregarmi contro lo stinco. La paura mi gela il sangue nelle vene, e rimango senza fiato quando il mio aggressore mi lascia cadere rudemente sul sedile posteriore di un veicolo. Avverto il movimento quando partiamo a tutto gas. Non posso credere che stia accadendo veramente! Sono fuori di me dal terrore.

    Qualcuno mi lega velocemente polsi e caviglie. Riesco a distinguere solo ombre intorno a me, e sento una voce maschile grugnire e respirare affannosamente. La paura ha avuto la meglio su di me, e a quanto pare mi ha fatto perdere l’uso della parola. Qualcuno mi afferra per le spalle, bloccandomi, mentre qualcun altro si sdraia sopra di me. Con tutte le mie forze, tiro su le gambe e colpisco uno di loro ai genitali. Strilla da spaccare i timpani mentre indietreggia, poi sento la puntura di un ago, e tutto diventa sfocato.

    Questo è tutto ciò che ricordo dell’ultimo giorno in cui ho parlato con mio padre, la mia migliore amica, i miei colleghi, dell’ultimo giorno in cui ho visto la luce del sole.

    2

    Tento di rotolare giù dal letto, perché ho la gola terribilmente secca e un disperato bisogno di acqua. Le ginocchia mi si piegano mentre mi avvio faticosamente verso il lavandino. Di norma, la cella mi sembra molto piccola, ma, in questo momento, ho la sensazione che il muro disti un centinaio di metri da me. Devo aver preso un sacco di botte: sento dolore ovunque.

    Finalmente raggiungo il lavandino e afferro l’arrugginito contenitore di latta. L’acqua non ha mai avuto un sapore così buono. Mi inumidisco le labbra e lascio che il liquido mi scivoli giù per la gola prima di rannicchiarmi in un ammasso di carne dolorante. Comincio a singhiozzare, consapevole del fatto che non uscirò mai di qui. Posso solo immaginare in quali condizioni sia la mia schiena. La sento bagnata e mi brucia atrocemente, la testa mi pulsa e i polsi mi cedono. Deve avermi legato mentre… mi si chiude lo stomaco. Muovo la mano lentamente verso l’orlo della mia camicia da notte e la sollevo. Emetto un flebile sospiro di sollievo quando mi accorgo di avere ancora le stesse mutandine di ieri. Fuori sono devastata, ma il resto di me rimane, almeno per il momento, incontaminato. Tuttavia, emotivamente sono esausta. Mi copro la faccia con le mani in un gesto di improvvisa sconfitta mentre mi stendo sul pavimento a pensare. Da troppo tempo ormai vengo trattata come un animale. I miei rapitori non sembrano mai stancarsi di esercitare il loro potere malato su di me. Sono sicura che traggono piacere e divertimento da questa situazione. Riesco a fare un bagno una volta ogni tanto e, in quelle circostanze, mi fanno un sacco di foto e video. Ho uno spazzolino da denti che è diventato disgustoso, e una saponetta, ormai ridotta a un piccolo scheletro. Il mio cibo, quando si ricordano di darmi da mangiare, è una specie di zuppa con del pane secco. L’acqua è sempre calda, con tracce di sporco in superficie.

    Ogni tanto, un dottore viene a visitarmi e, in un paio di occasioni, ha dovuto iniettarmi dei liquidi per via endovenosa. In quei casi, la mia preoccupazione non riguardava tanto quello che stavano introducendo nel mio corpo, quanto che l’ago fosse pulito. Una volta ho provato a chiedere aiuto al medico, ma lui si è comportato come se non mi capisse. Ma ho intuito che invece mi comprendeva, perché quando ho pronunciato la parola casa è trasalito e ha evitato qualsiasi contatto visivo. Tutto quello che ho ottenuto è stato un pugno nelle costole da parte di uno dei miei aguzzini, il quale ha anche urlato delle frasi minacciose in spagnolo in seguito ai miei tentativi di comunicare con il dottore.

    L’unica opzione che ho è lasciarmi morire di fame. Ho deciso di farla finita, così almeno deciderò io come e quando morire.

    Sento dei passi fuori dalla mia porta. Allo scattare della serratura, il mio corpo inizia automaticamente a tremare. Come previsto, il grassone torna con il vassoio del cibo. Lo lascia cadere rumorosamente sul tavolo e poi mi fissa.

    «Ti fa male?», mi chiede con una risata. Vorrei fiondarmi su di lui e conficcare un altro pezzo di piatto nel suo collo. La prossima volta mi ricorderò di tirarlo fuori e continuare a infierire finché quel grassone bastardo non sarà morto.

    «No, a te?», replico. Dopotutto, che cosa ho da perdere? Piega la testa e fa per toccarsi il collo con la mano, ma si ferma. Prende il mio bicchiere d’acqua e lo versa sul pavimento, poi ripete l’operazione con la zuppa e il pane mentre mi guarda con un sorriso insolente. Solo qualche giorno fa, sarei stata disperata, ma oggi il suo gesto rientra esattamente nei miei piani. Gli sorrido. Vaffanculo.

    Qualche ora dopo, sento il suono familiare della chiave che gira nella serratura. Le luci sono fioche, perciò non riesco a vedere bene. Qualcuno porta un altro vassoio e lo fa strisciare sul pavimento mentre lo posa. Si muove verso il mio letto. Sento l’odore a me ben noto di Montecristo e capisco che si tratta dell’uomo con il sigaro.

    «Devi mangiare», dice in tono severo. Non mi muovo. Me ne sto sdraiata e mi sento completamente sconfitta. Allunga la mano verso di me e mi getta un pezzo di pane che mi rimbalza contro la spalla. «Mangia, perra». Se ne va, sbattendo la porta dietro di sé.

    Dopo un po’, mi avvicino al vassoio e mi viene da vomitare quando vedo lo stesso pasto che mi viene offerto per pranzo e cena da Dio solo sa quanto tempo: uno spezzatino di carne annacquato. Conoscendo questi tizi, probabilmente è stato preparato con carne di topo oppure di opossum. Questo non fa che rafforzare la mia decisione di non mangiare. Bevo un sorso d’acqua e un po’ di sabbia mi scivola in gola. Tossisco, ingoiando la bile che mi sale in gola, e ritorno a letto.

    Mi vengono portati altri cinque pasti, cinque pasti che rimangono intatti. Sebbene il mio corpo mi chieda di mangiare, la mia forza di volontà non vacilla. Inutile dire che mi sento di merda.

    Mia madre viene a farmi visita spesso e mi sussurra parole di incoraggiamento. So che è solo il modo in cui la mia mente reagisce alla fame, ma in qualche modo vederla di nuovo mi fa stare bene. È proprio come me la ricordavo: lunghi capelli scuri, denti perfetti e occhi scuri. Il suo tocco è così reale che posso quasi sentire il calore della sua mano sul mio viso.

    «Ti voglio bene, Savi. Lo sai, vero?», mi dice. «Sono qui per te». Mi tocca il petto proprio sopra il cuore. «Mio piccolo angelo».

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