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Mai più così vicini
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E-book388 pagine9 ore

Mai più così vicini

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Un successo del passaparola

Dall’autrice del bestseller Uno sconosciuto accanto a me 

Restare nell’ombra è la sua arte. Lui non ha mai fallito, ha portato a termine più di settantacinque rapine, è imprendibile. Lo chiamano Delirio. Siria ha sempre disprezzato il “mestiere” di famiglia, e tanto più lo disprezza ora che anche per lei è arrivato il momento di prostituirsi. «Quando sarò abbastanza grande, ti sposerò», le aveva promesso il piccolo Ermes. Ma lui non è più tornato. Il giorno in cui le loro vite si incrociano di nuovo, lei non lo riconosce. Non sa che è il ladro più famoso che ci sia in circolazione. Sa solo che è più bello di come lo aveva immaginato e che non ha mai smesso di volergli bene. Presto capisce che lui non è più interessato a lei, e che quella promessa era solo una stupida frase detta da un ragazzino. Un giorno Delirio viene convocato per un incarico che è costretto ad accettare. Non può immaginare che si troverà a commettere il primo errore della sua carriera. Che cosa accade quando un proiettile colpisce la persona sbagliata?

Un amore del passato, mai del tutto dimenticato, cambierà per sempre il destino di Siria e del misterioso ladro Delirio

Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Uno stile agghiacciante quanto assolutamente strabiliante. L’autrice descrive sensazioni, emozioni e dolore entrando nella mente dei protagonisti e imprimendosi nel cuore dei lettori. Un romanzo che non ti lascia via d’uscita.»

«Un libro fantastico, sempre in crescendo e ricco di momenti che spezzano il fiato.»

«Passione travolgente, cruda e vera. Ben scritto, pieno di suspense.» 

Marilena Barbagallo
è nata a Catania nel 1987. Ha studiato danza e recitazione ed è laureata in Economia e gestione delle imprese turistiche. Ha iniziato a scrivere da bambina, quando ha ricevuto in regalo il suo primo diario segreto e, da quel momento, la scrittura è diventata parte della sua vita. Ha pubblicato in self più di dieci libri, ognuno dei quali è stato una vera e propria palestra di stile. La Newton Compton ha già pubblicato Uno sconosciuto accanto a me e Ancora accanto a me.
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2019
ISBN9788822735256
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    Anteprima del libro

    Mai più così vicini - Marilena Barbagallo

    Prologo

    Sono il ragazzo che tutte le madri vorrebbero vedere in prigione, o almeno lontano dalle proprie figlie. C’è chi dice che alla mia età emergere nell’ambiente sia difficilissimo se non impossibile. Eppure le mie gesta hanno il loro successo. Ho fatto carriera, in cronaca faccio notizia e tutti parlano di me. Anche se non sanno come sono fatto, tutti mi conoscono. Questo, di certo, non me lo sarei aspettato. Restare nell’ombra è una prerogativa del mio mestiere, ma la fama ha i suoi vantaggi e la notorietà è una condizione che mi sta bene.

    Fin quando il mio viso resta un’incognita, fin quando la gente continua a fantasticare sulle mie sembianze, fin quando per tutti loro continuo a essere l’inarrivabile, l’imprendibile, il ricercato numero uno, il mio regno non avrà fine.

    Il numero uno.

    È questo ciò che sono.

    Ho ventisei anni e ho già portato a termine settantacinque rapine. Tutte andate a buon fine, ovviamente. Non tengo conto di quelle commesse in tenera età, si trattava di poca roba, ma anche in quel caso non ho mai fallito.

    Ovunque vada prendo qualsiasi cosa e ciò che resta è solo caos. Ciò che lascio è semplicemente delirio.

    Sono il prodotto di anni di pratica, di un addestramento scrupoloso. Ho sempre saputo chi dovevo essere e come dovevo essere, e ho ottenuto ciò che volevo. Mi chiamano Delirio, e sono un ladro.

    Mi correggo: io sono il ladro.

    1

    Delirio

    La mia faccia si riflette distorta sul vassoio d’argento. Avvicino la narice alla striscia bianca, bianca come i bagliori del nulla. Sniffo in un colpo secco e mi rilasso sulla poltrona. Le onde schiaffeggiano la scogliera. Non riesco a vederle, ma le sento. Alle mie spalle, la finestra spalancata lascia passare la brezza marina, un sentore che sa di rifugio. Il mio rifugio. Chiudo gli occhi e il profumo m’invade i sensi, mentre la mia dose comincia a salire. Cocaina, poi forse Jack Daniel’s, poi forse del sesso, poi forse il sonno e l’oblio che non riesco a raggiungere se non sotto sonniferi.

    Nel mio campo visivo compare la mano di Salim. È nera come la notte. Nera come il Ghana. Mi porge una sigaretta che accetto ben volentieri, poi fa scattare la fiamma dell’accendino e la Marlboro brucia. Aspiro e vengo deliziato da quel suono lieve e quotidiano: lo sfrigolio della carta che arde, del tabacco che si incenerisce per incenerire a sua volta i miei polmoni.

    Mi faccio del male.

    Da giorni, ho deciso di lasciarmi andare.

    Ma nessuno lo sa.

    Perché io non ho nessuno.

    «Ditemi cosa vi turba, signore». La voce di Salim mette in dubbio ciò che penso da giorni. Forse qualcuno c’è.

    Mi giro lentamente verso quelle pupille bianche che fanno da sfondo alle piccole iridi nere.

    Lo fisso, sbuffo una nuvola di fumo e lui arretra in segno di sottomissione. Apprezzo il suo atteggiamento, ma adesso mi incuriosisce il fatto che lui abbia capito, che lui sia l’unico a intravedere quella macchia che sta per spargersi su di me, ovunque.

    «Che cosa hai detto?». Ho sentito benissimo, ma lo chiedo perché a volte si è increduli e allora si ha bisogno di riascoltare le stesse parole, perché si spera di udire qualcosa di sensato. Sensato… Cosa c’è di sensato?

    Aspiro un’altra boccata e mi concentro sul suono ruvido della sigaretta che si accorcia tra le mie dita, pronta a scomparire.

    «Signore…», esita.

    «Cosa hai detto prima?». Sotto la pelle sento il sangue pompare, l’effetto della neve inizia a prendermi. Mi prende e mi piace che mi prenda.

    «Vi ho chiesto cosa vi turba, signore».

    Ora è rigido, come se si stesse sforzando di reggere un confronto. Sa che potrei distruggerlo con una parola.

    «Lo vuoi sapere davvero o sei solo curioso?». Mi scosto e poggio i gomiti sulle ginocchia. La luna fa risaltare i tatuaggi dei miei polsi, e mentre li fisso cominciano a sdoppiarsi.

    «Signore, io voglio saperlo per darvi aiuto».

    Lui non mi dà del lei, lui mi dà del voi. È esagerato, è totalmente asservito a me, ma è bene che sia così.

    «Aiuto?». Sussulto e le labbra si tendono in un sorriso amaro lasciando uscire una nube grigia. È un sorriso che vorrebbe dire «’fanculo». Aiuto? Io non ho bisogno di aiuto.

    Mi tiro su e comincio a percepire una specie di elettricità che mi spinge a muovermi.

    «Non devi aiutare nessuno, Salim, tantomeno me».

    «Cosa avete fatto?».

    Gli do le spalle, non può vedere il mio viso, ma so che immagina perfettamente i miei occhi sbarrati.

    Mi ha scoperto.

    Sa che ho fatto qualcosa. La persona con cui parlo di meno al mondo ha capito più di tutti coloro che mi stanno quotidianamente intorno. E questo mi fa sentire terribilmente solo.

    Tu sei solo.

    Spengo la sigaretta nel posacenere e avanzo di qualche passo verso la finestra. Il vento soffia e genera una musica naturale che mi riempie la mente, l’aria agita le tende bianche e azzurre, creando un movimento ipnotico che mi fa sentire un imbecille incantato su una cazzo di stoffa che fluttua nel vuoto.

    Arrivo al davanzale e vi poggio le mani. La visuale della costa dell’isola di Pantelleria è il mio quadro reale preferito, la cartolina della mia vita.

    Non dovrei parlarne, soprattutto con uno dei miei uomini, una specie di servo – a dirla tutta, è lui che si definisce tale – ma sento l’esigenza di gettare via qualcosa. In realtà, tutto.

    «Signore, se credete che il mio comportamento sia inopportuno, vi lascio da solo».

    Chiudo gli occhi, mi gira la testa, ma riesco a rivedere la scena. Ho perfettamente chiara la visione che più mi tormenta, dopo quella che ha suscitato la mia dannazione.

    «Era così bella…», mormoro, ancora con gli occhi chiusi. Occhi che cercano il suo ricordo. Li riapro e, nel mare, rivedo i suoi. Amavo il mare, adesso lo detesto. «Era molto bella. Era una creatura solitaria. Esattamente come me».

    «Continuate, signore». Salim si avvicina e mi affianca. Non lo guardo perché non mi piace parlare delle mie questioni fissando la gente negli occhi.

    «Non c’è niente da dire, Salim. Non c’è più».

    Barcollo verso il mobile su cui sono disposti i miei liquori. Voglio il Jack Daniel’s, lo cerco e lo trovo. Me ne verso un bel bicchiere e comincio a sorseggiarlo, stavolta senza pensare al fatto che lui mi sta davanti.

    Il buio lo rende una sagoma indefinita e anche se dall’esterno la luna illumina parzialmente il salotto, Salim è come un’ombra inafferrabile.

    «Signore, cosa le avete fatto?».

    Questo ragazzo è sconcertante. Sa tutto. Capisce tutto.

    Mi lecco le labbra e il sapore corposo del liquore mi ricorda che i miei sensi sono ancora attivi e che forse dovrei placarli con i sonniferi. Ancora.

    Abbasso gli occhi e fisso la moquette color porpora.

    «Mi piaceva pensare che stesse aspettando me. Mi piaceva pensare che esistesse qualcuno sempre pronto ad aspettarmi. Mi piaceva semplicemente pensare che esistesse qualcuno per me».

    «Cosa state dicendo?».

    Sono fatto, lo capisco solo io cosa voglio dire.

    «Che lei mi ha sempre aspettato. E quello che mi piaceva pensare era reale. È sempre stato reale. Desideravo che ci fosse qualcuno per me e… Lei c’era. Mi ha sempre aspettato… mi ha sempre aspettato…».

    «Avete detto tante volte che è meglio che per voi non ci sia nessuno», mi ricorda, e io lo guardo di traverso.

    «Esatto».

    «Che fine ha fatto la ragazza?». La voce di Salim è impastata di preoccupazione. Sente un presagio: d’altronde sta parlando con me, si aspetta sempre una tragedia. Se mi chiamano Delirio un motivo ci sarà.

    Tracanno tutto in un colpo il mio drink e mi chino verso il vassoio, premo una narice con l’indice e tiro la polvere che per stasera esalterà sensi e pensieri, o forse mi ucciderà.

    Ignoro Salim e la sua domanda. Ignoro quegli occhi penetranti, scuri, inquietanti per chiunque. Ma poi lo fisso, respiro lentamente, il sangue al cervello già pompa più forte.

    Lei e i suoi occhi: acquemarine incastonate in un viso di una bellezza innaturale.

    Lei e quello che aveva addosso, quello che serviva a riconoscerci e che ha sempre tenuto con sé.

    «Signore, che cosa le ha fatto?».

    È sceso di un grado, non dà più del voi. Chiaro segnale di contrarietà. Dovrei punirlo?

    Adesso lo sguardo di Salim sembra implorarmi di non rivelare ciò che teme.

    Alzo il capo verso di lui. Io sono seduto, e il ghanese è così alto che devo piegare la testa indietro.

    «Signore…».

    «Cosa vuoi sentirti dire, Salim?». Lui tace e il suo viso si adombra sempre di più. «Che lei sta bene?», dico bruscamente. Annuisce, ma è la solita posa da sottomesso. «Cosa accade a chi mi sta intorno?», domando duro.

    «Nessuno le sta intorno, signore».

    Ma che bravo! Non è caduto nella trappola.

    «Quindi?»

    «Credo che…», balbetta, poi si corregge. «Spero che le abbiate lasciato vivere la sua vita».

    «Ti rifaccio la domanda: cosa accade a chi mi sta intorno?»

    «La gente che incrocia il suo cammino si perde».

    Che bella definizione. Tanto semplice e appropriata.

    «Oppure?»

    «Signore, cosa le avete fatto?».

    Mi irrigidisco perché ha osato alzare la voce e avanzare una pretesa. Mi alzo lentamente, i miei occhi si catapultano nei suoi. Le mie iridi sono l’esatto contrario delle sue: luminose. Stringo i denti, il mio collo si irrigidisce automaticamente, mi viene il mal di testa e ricompaiono tutti i demoni che mi tormentano da quattro mesi.

    Faccio un passo deciso verso di lui che stavolta non arretra, comunicandomi quanto è deluso di ciò che, in fin dei conti, sa, ma che vuole sentirmi dire.

    Lui vuole che io ne prenda atto. Sono fatto, ma il cervello continua a funzionare.

    Lui vuole che io reagisca, che lo dica ad alta voce, che smetta di rompere tutto ciò che vedo. Lui vuole riportarmi indietro, ma se lo dico, se lo ripeto ad alta voce, allora, forse, arriverà il momento in cui esploderò e sentirò il dolore.

    «Non voglio sentirlo», sibilo.

    «Deve sentirlo».

    «Come fai a sapere di cosa parlo?», ringhio. Ha capito anche questo?

    «Vi vedo. State morendo giorno dopo giorno. Vi state uccidendo lentamente. Volete punirvi e raggiungere la fine». Torna al voi.

    «Se lo dirò sarà come renderlo reale».

    «Ma è reale!».

    Serro forte gli occhi. Non basta la coca, non basta bere, non bastano le donne né i sonniferi. Mi serve il tempo, una lancetta da manovrare per riavvolgere quell’attimo e tornare indietro.

    «Ditelo!», esclama deciso. Scuoto il capo e fisso il pavimento. «Ditelo!».

    Boati. Nel petto sento come dei boati. Nella mia gabbia toracica sta per esplodere una bomba.

    Non dirlo.

    «Prima lo accetterete, prima tornerete in voi».

    Mi massaggio la fronte, mi copro le orecchie con le mani come se fossi colpito da fischi assordanti. E le orecchie fischiano davvero, la vista si appanna più di prima. Continuo a sentire la voce di Salim che mi incita a prendere coscienza delle mie azioni.

    Respiri affannosi mi scuotono il petto, ho bisogno di spaccare qualcosa, ho bisogno di distruggere questo ricordo, questa verità, prima che essa possa disintegrarmi.

    Digrigno i denti, ignoro l’invito insistente di Salim che continua a ripetere martellante la parola «ditelo».

    Perdo le staffe, afferro la bottiglia di Jack e la scaravento contro la parete, fracassandola. Cocci di vetro esplodono nell’aria e il liquido scuro schizza ovunque macchiando le tende bianche che mi avevano incantato.

    Resto immobile a fissare il delirio della mia vita come in un fermo immagine.

    Le palpitazioni accelerano, nessun tentativo di controllo riesce a sciogliere il nodo alla gola.

    Voce strozzata, occhi che bruciano, pelle formicolante.

    E dolore.

    Il dolore di averlo fatto. Il dolore. Lei…

    C’è un momento di silenzio e decido di rompere anche quello. Resta solo demolire la stima che Salim ha di me. E lo faccio.

    Fisso il mare fuori dalla finestra, onde calme adesso accarezzano la scogliera facendo da contrasto al disordine dei miei pensieri.

    Quel mare blu, quel blu che le illuminava gli occhi…

    Chiudo i miei e lo bisbiglio quanto basta per rendere vive le parole, la verità.

    «Io l’ho uccisa».

    Io l’ho uccisa.

    2

    Siria

    Quattro mesi prima

    Mette il rossetto rosso e si guarda fiera, schioccando le labbra. Lo getta a casaccio in mezzo al disordine dei suoi trucchi, si sposta e butta giù la testa, cominciando a scompigliare i boccoli per renderli più vaporosi. Alza la testa di scatto e appare bellissima. Mia madre si prepara per lavorare e io devo prepararmi per evaporare.

    È molto semplice, prima che arrivino i clienti devo essere fuori casa. Mamma non vuole che mi vedano ed è un bene. L’ultima volta è stato un disastro. Sorvolerei su quello che è successo, abbiamo quasi ammazzato un tizio pur di evitare che mi prendesse.

    Mia madre non vuole che io diventi come lei. O meglio, preferirebbe vedermi ad alti livelli, cioè, se lei è una puttana da quattro soldi, per me sogna una carriera da escort di lusso.

    Resto a braccia conserte sul ciglio della porta della nostra camera, mi porto i capelli indietro che ricadono da un lato. Mi innervosisco e li raccolgo in una coda, sciogliendoli su una spalla. È sconcertante la somiglianza tra me e lei. Stessi occhi indaco, stessi capelli castani, stesse sfumature chiare, stessa pelle e, purtroppo, stesso carattere di merda.

    Sbuffo, perché so che devo sloggiare e non ho la più pallida idea di dove andare. Guardo l’orologio e mi preparo a fare la solita domanda, mentre lei armeggia col reggiseno per rendere più voluminoso il suo seno già abbondante. È una puttana da quattro soldi, ma bellissima, ha solo avuto sfortuna nella vita, se avesse incontrato le persone giuste forse avrebbe fatto carriera.

    «Quanto ci metterai?», chiedo, sperando che il cliente soffra di eiaculazione precoce.

    «Mi fai sempre la stessa domanda. Che ne so io!».

    Si alza e tira su la gonna del vestitino fuxia, come se non fosse abbastanza corta. È terribile quel colore, nemmeno commento, perché sennò rischio davvero di intercettare il porco di turno.

    Lei si avvicina e mi poggia le mani sulle guance, delicata, attenta, ma solo perché ha lo smalto fresco.

    «Va’ a bere qualcosa. Chiama le tue amiche, c’è un locale nuovo in fondo alla strada, dicono sia carino». Mi schiocca un bacio sulla guancia e poi con un mugolio comincia a pulirmi il rossetto con cui mi ha certamente sporcata.

    «Le mie amiche sono tutte all’università, mammina cara». La chiamo così quando voglio comunicarle che ha detto una cazzata. «Io sono l’unica che resta qui a marcire».

    «Avrai anche tu il tuo momento». Mi dà uno schiaffetto sul sedere.

    «Un giorno mi spiegherai perché ambisci tanto di vedermi fare la troia!».

    So di ferirla, ma questa cosa che cerca di trovarmi un impiego nell’alta puttanagine mi fa impazzire. Quale madre sana di mente vorrebbe un futuro simile per la propria figlia?

    Lei, chi altri? Luana Morelli, mia madre. Una donna che ha fatto tutto da sola, ecco perché la mia vita è un casino. Non tutte le donne riescono a far tutto, non tutte le donne sanno vivere, non tutte le donne sanno essere donne. Lei lo è, per carità, la amo, è mia madre, ma avrebbe di certo potuto fare scelte diverse e non quelle che continua a fare con la speranza di imboccare la via giusta. Purtroppo, Luana Morelli conosce un solo padrone: il denaro. E ne abbiamo poco, molto poco, quindi mi chiedo spesso a cosa serva questa vita. Vale la pena sacrificare tanto per poi non riuscire ad arrivare a fine mese?

    Lei abbassa gli occhi, senza curarsi delle mie parole.

    «Ciao mamma, buon lavoro», dico noncurante.

    Attraverso il corridoio spoglio. Senza accertarmi se faccia freschetto o meno, esco con solo un abitino leggero dal taglio morbido, con stampe colorate, le zeppe che possiedo da quando avevo diciannove anni – ora ne ho ventiquattro – e che dovrei continuare a tenere immacolate fino alla pensione, semmai ne avrò una. Mi incammino verso il vialetto, il mio quartiere fa schifo, è una zona poco raccomandabile di Agrigento, ma tutti sanno che sono la figlia della puttana, figuriamoci se si avvicinano a me sperando di potermi derubare. Io non ho nulla.

    Ho appuntamento con Federica, ma ho detto a mamma di essere sola, tanto per farla sentire in colpa. A volte mi fa stare bene ferirla. Sono una figlia ingrata e cattiva. Raggiungo Federica a piedi e poi, insieme, prendiamo un taxi che ci porterà in discoteca.

    Non amo molto stare in mezzo alla gente, ma faccio uno sforzo, giusto per non sentirmi dire che sono una noiosa ragazzina stanca della vita. Federica danza in mezzo alla folla, il viso sereno, il corpo sinuoso che ondeggia al ritmo del pezzo forte dell’estate, gli occhi semichiusi, a mostrare che ciò che ha bevuto le scorre nel corpo insieme al flusso sanguigno. È completamente ubriaca e non so se riuscirò a riportarla a casa prima che la discoteca chiuda. Quando si riduce in questo stato, è sempre l’ultima a lasciare la pista.

    I suoi capelli rossi scintillano sotto i faretti, il suo sedere ancheggia provocante, mentre io me ne sto in un angolino a controllare che nessuno le salti addosso e a vigilare come una sorella maggiore. I paradossi della vita sono questi: io me ne sto in disparte, non do mai confidenza a nessuno, eppure sono considerata tale e quale a mia madre. Federica invece è una libertina per natura, eppure viene vista come una ragazza normale. Si è ciò che la gente dice, o ciò che si sa di essere? Ecco perché mi odio, perché invece di divertirmi come fanno tutte le ragazze della mia età, me ne sto in un angolo di una discoteca a rimuginare sulla mia vita di merda.

    Qualcuno si avvicina a Federica e le mie antenne da amica-protettrice si rizzano. È Luca, il ragazzo più bello di Agrigento, il ragazzo per cui tutte hanno una cotta. Piace anche a me, ma non ho mai avuto il coraggio di fare una qualunque mossa, non sono mai stata in grado di intraprendere una conversazione con lui. Mi vergogno terribilmente.

    Luca inizia a ballare con Federica, e li lascio fare, perché lui comunque è un bravo ragazzo e so che non ne approfitterebbe mai. Solo che… Vederli così vicini, così complici, così sereni e felici, mi fa sentire ancora peggio. Luca non mi guarderà mai come guarda Federica, io non sarò mai alla sua altezza. Mai.

    Deglutisco amarezza. Non ce l’ho con Federica, d’altronde io e Luca nemmeno ci parliamo, non trovo irrispettoso da parte sua ballarci in quel modo. O dovrei pensare che mi manca di rispetto? Forse non penso di meritare alcun rispetto.

    Mi avvicino alla coppia che ci dà dentro e sussurro all’orecchio di Federica che sto per allontanarmi verso il bar. Lei annuisce contenta, Luca nemmeno mi guarda. Lo saluto e lui fa un cenno del capo, sembra infastidito. Di sicuro si vergogna a farsi vedere con me. Mi allontano, giusto per non disturbarlo ulteriormente e mi dirigo verso il bar, dove c’è una fila di gente seduta davanti al bancone. Trovo uno sgabello libero e mi accomodo, cominciando a sbracciarmi per attirare l’attenzione del barman.

    Inizio a pensare di essere invisibile e del tutto inutile, perché il ragazzo serve tutti tranne me.

    Ancora paziente, attendo considerazione, quando all’improvviso sento un ragazzo sbottare al mio fianco, rivolgendosi al barman con arroganza.

    «Sono cinque minuti che la ragazza chiede la tua attenzione, vuoi servirla o pensi sia meno importante degli altri?».

    Scivolo dallo sgabello lentamente e mi volto verso il ragazzo. La poca luce non mi consente di vedere bene i tratti del suo viso, ma riesco a notare le sue braccia tatuate che si contraggono sul bancone. Ha una t-shirt nera e aderente con lo scollo a V, che non nasconde altri tatuaggi sul petto. Ha la mandibola contratta, le labbra carnose, un naso elegante e perfetto, e gli occhi… un blu cobalto che mi costringe a battere i miei, tanto scintillano di rabbia. Ha i capelli chiari e scompigliati e un profumo che mi arriva dritto alle narici, fino a raggiungere la testa.

    E poi il suo viso mi ricorda… Lui mi ricorda… No, non può essere. È partito molto tempo fa, è andato via, mi ha abbandonata. Non può essere tornato adesso. No, non è lui. Gli somiglia solamente e gli somiglia pure tanto, così tanto che mi sento precipitare.

    «Allora? Vuoi fare il tuo lavoro o no?», lo sgrida ancora.

    «Non fa niente, posso aspettare», dico, cercando di rassicurare il ragazzo oltre il bancone che ci fissa basito.

    «Hai aspettato abbastanza», sbotta lui, senza guardarmi. «Cosa prendi?».

    Imbarazzata, tiro indietro i capelli e bisbiglio: «Una bottiglietta d’acqua».

    «Una che?». Ora mi guarda e sono costretta a deglutire per via dell’effetto strano che mi fanno i suoi occhi. Sono così familiari, così comunicativi. Sembrano urlare qualcosa. Forse è lui. Potrebbe essere lui….

    No, non può essere!

    «Chi diavolo prende una bottiglietta d’acqua in discoteca?», mi sfotte.

    «Io?»

    «Okay!», sospira. «Una bottiglietta d’acqua per la ragazza e per me un Jack Daniel’s».

    Torno a sedermi sullo sgabello, ma non mi rivolgo più a lui. Qualcosa mi imbarazza e credo sia la mia solita insicurezza.

    «Come ti chiami?», domanda, come se mi stesse facendo una cortesia. Di sicuro nemmeno gli interessa. Guardo prima le sue mani tatuate e poi alzo gli occhi di scatto su di lui. È serio, sembra voler sorridere, ma non lo fa.

    «Mi chiamo Siria». Gli porgo la mano.

    «Siria?», dice sorpreso. Annuisco.

    «E tu?», gli chiedo, ma cambia subito discorso.

    «Ti ho notata prima».

    «Cosa avresti notato?». Il barman ci serve le nostre ordinazioni, faccio per pagare, ma il ragazzo mi blocca e mi precede, pagando anche la mia acqua. «Grazie», mormoro imbarazzata. È la prima volta che qualcuno mi offre qualcosa. «Allora… Cosa hai notato?»

    «La tua amica ti ha soffiato il ragazzo sotto agli occhi».

    Resto inebetita. Come diavolo ha fatto a notare una cosa del genere?

    «Quello non… lui non è… La mia amica non…».

    «Rilassati», mi interrompe. «Bevi la tua acqua minerale. Non sforzarti di mentire. Si vede lontano un miglio che ti piace quell’idiota».

    «Non mi piace!», mi affretto ad affermare, incollando le labbra alla bottiglietta.

    «Toglitelo dalla testa. Quelli come lui non si mettono con quelle come te». L’acqua mi va di traverso, quasi soffoco.

    «Con quelle come me?»

    «Siria Morelli… la figlia della puttana, giusto?».

    Se mi avesse dato un pugno dritto allo stomaco avrei provato meno dolore.

    Abbasso gli occhi e nemmeno gli rispondo. Scivolo dallo sgabello, volto i tacchi e me ne vado.

    Lui non mi avrebbe mai parlato in questo modo.

    Non è lui. No, non può essere.

    E se mi avesse trattato così perché non l’ho riconosciuto?

    No, non è lui!

    Cammino in mezzo alla folla, sperando di riuscire a trattenere le lacrime almeno fino a quando raggiungerò un posto isolato. Un posto dove nessuno potrà riconoscermi. Non riesco a frenare la collera, la gola mi brucia e sento le lacrime scendere.

    Raggiungo la terrazza esterna e scendo i gradini che conducono a un altro piccolo terrazzino. Mi affaccio dalla ringhiera e stappo la bottiglietta, bevendo un lungo sorso d’acqua che mi scivola in gola pesante, duro.

    Tiro su col naso e mi tampono quelle lacrime maledette. Non piangevo da una vita. Quando è stata l’ultima volta?

    Per lui.

    «Ehi!». Sento qualcuno che mi chiama alle spalle, ma non mi volto perché ho ancora gli occhi lucidi e so che si tratta di quel maleducato.

    «Scusami, non volevo offenderti», lo sento dire, allora mi giro e lo affronto.

    «Ah no? E se avessi voluto offendermi, cosa avresti detto?».

    Oh, santo cielo!

    Il faretto esterno gli illumina il viso. Il viso che adesso appare nitido, lampante.

    Un tremolio mi scuote e porto una mano sulle labbra.

    Ora che è in piedi appare molto alto, muscoloso ma non tanto, i tatuaggi in mostra, il collo contratto, la mandibola serrata e la mano che massaggia con imbarazzo la nuca.

    Come faceva anche tanto tempo fa.

    È lui.

    Il mio cuore perde un battito e mi ritrovo davanti a quel ragazzino che mi aveva promesso di tornare.

    Ermes.

    «Non volevo offenderti. Davvero. Scusami».

    «Hai detto solo la verità. Non c’è nessun problema», dico fredda e dura, suscitando in lui una smorfia confusa. Non voglio che si renda conto di quanto ha colpito. «Anzi…», mi faccio forza e comincio a parlare con ironia, giusto per togliergli ogni occasione di colpire ancora. «Credo sia meglio che tu ti allontani. Non vorrei che si dicesse in giro che frequenti gente di basso livello». Fa un passo verso di me e io arretro, continuando a precedere ciò che sicuramente è venuto a dirmi. «Meglio mantenere le distanze. La gente potrebbe fraintendere. Poi ti direbbero che te la fai con una puttana!». Stappo la bottiglietta e bevo ancora un po’ d’acqua. «Va’ a parlare con qualche brava ragazza».

    «Hai finito?», chiede incrociando le braccia al petto.

    «Tu hai finito?»

    «Non ho nemmeno iniziato».

    «Evita di farlo. Lasciami in pace».

    Mi guarda come se gli facessi pena. Non mi va che mi guardi così, allora mi volto e noto Federica e Luca avvicinarsi, mano nella mano.

    «Siria, ti dispiace se torno a casa con Luca?», domanda la mia amica. Luca mi guarda dall’alto al basso, come se si sentisse un essere superiore.

    «Non penso sia il caso, hai bevuto. Preferisco accompagnarti io». Premurosa, provo a tirarla via.

    «Guarda che sto bene!», si scosta infastidita.

    «Non ti fidi di me, Siria?», si inserisce Luca.

    «Non è questo, è solo che Federica non è in sé».

    «Sto benissimo!», farfuglia lei.

    «Dai, torniamo a casa insieme». La tiro di nuovo via, ma lei si scosta e mi sputa addosso parole velenose.

    «Tu vuoi tornare con me solo per dividere il taxi».

    «Cosa?». Sono inorridita.

    «Sei solo invidiosa perché Luca preferisce la mia compagnia».

    «Senti, sai che ti dico? Vai con Luca, vai con chi vuoi. Sono stanca di doverti coprire ogni volta che vai con qualcuno…».

    «Ehi!». Luca mi si para davanti come se volesse cercare un confronto quasi fisico. «Qui se c’è qualcuno che va con qualcuno, quella non è di certo Federica. Lo sanno tutti, Siria. Ora non rompere le palle e lascia che la riporti a casa io. Non sono come quegli uomini che frequentano casa tua, quindi, vedi di farti gli affari tuoi».

    Improvvisamente vedo una mano tatuata poggiarsi sul petto di Luca per spingerlo indietro.

    «Non pensi di esagerare?», sibila calmo lui.

    «Che vuoi, Ermes?». E ho la dura conferma che si tratta proprio di Ermes. Vorrei sparire, vorrei non averlo qui vicino a me, vorrei che non fosse mai tornato.

    «Non starle addosso». Adesso si para davanti a me, spingendomi dietro di sé con una mano. Il contatto della sua mano sul mio fianco manda strane scariche al mio corpo. Com’è sempre stato.

    «La porti a casa tu?», chiede Federica a Ermes.

    «No, prenderò un taxi!», sbotto. «Ho i soldi per

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