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Dall’olio all’acrilico, dall’impressionismo all’arte contemporanea
Dall’olio all’acrilico, dall’impressionismo all’arte contemporanea
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E-book789 pagine8 ore

Dall’olio all’acrilico, dall’impressionismo all’arte contemporanea

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Il volume raccoglie i contributi presentati in occasione del VII Congresso Internazionale “Colore e Conservazione Dall’Olio all’acrilico, dall’Impressionismo all’Arte Contemporanea”, svoltosi a Milano il 13-14 novembre 2015 e organizzato dall’Associazione CESMAR7 (Centro per lo Studio dei Materiali per il Restauro) in collaborazione con la casa editrice il Prato.
La conferenza, interamente dedicata alla conservazione dell’arte contemporanea, ha visto protagonisti relatori di fama nazionale e internazionale, appartenenti ai più prestigiosi centri di ricerca nell’ambito della conservazione dei beni culturali.
Gli Atti rappresentano un condensato degli studi più recenti riguardo tematiche cha spaziano dagli interventi su opere di fine ‘800 - inizi ‘900, alle questioni riguardanti manufatti più recenti realizzati con materiali sintetici, agli oggetti in plastica e di design, fino al confronto diretto con l’esperienza del restauratore e la presentazione di casi studio.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita5 apr 2016
ISBN9788863363319
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    Anteprima del libro

    Dall’olio all’acrilico, dall’impressionismo all’arte contemporanea - Valentina Emanuela Selva Bonino

    Prima Sessione

    1st Session

    Materiali d’artista (colori e pigmenti) nell’atelier

    di Giuseppe Pellizza a Volpedo – Colori Muzii

    Aurora Scotti

    Musei di Pellizza, Volpedo - info@pellizza.it

    Politecnico di Milano - aurora.scotti@polimi.it

    Abstract

    La relazione esamina la grande quantità di strumenti tecnici (tele, pitture, vernici, ecc) conservati nell’atelier di Giuseppe Pellizza, confrontando gli stessi materiali con i risultati di analisi ed approfondimenti tecnici compiuti negli ultimi anni su alcune importanti opere del pittore di Volpedo (Poldi 2005: 119-134, Radelet e Laquale 2005: 103-118, in Scotti eds. 2007; Radelet & Scotti, 2008: 235-246, in Effetto Luce 2009; Poldi 2013; Poldi 2014: 59-67). I risultati di queste analisi vengono confrontati con gli appunti presi da Pellizza. Particolare attenzione viene dedicata alle ultime opere di Pellizza e all’uso di colori ad olio molto magro, di pastelli ad olio e di colori Muzii, di cui si conservano alcuni campioni tra i materiali rimasti nell’atelier di Volpedo.

    L’atelier di Giuseppe Pellizza a Volpedo costituisce uno straordinario giacimento culturale: la vicenda biografica del pittore, con la sua morte in età ancor giovane, impose la necessità di proteggerne il patrimonio, affidato a un tutore delle figlie piccole; in seguito proprio l’attaccamento delle figlie a queste testimonianze paterne ne garantì il mantenimento fino a deciderne la destinazione pubblica, salvaguardando e congelando un pezzo di storia della nostra pittura ¹.

    Tubetti e vernici, pastelli e strumenti di lavoro, tele e cornici, manoscritti e libri (non solo legati alla pratica pittorica), prove di colore e testimonianze del suo interesse per la fotografia, pur con i tempi lunghi che spesso gli studi comportano, contribuiscono tassello per tassello a rendere più chiara la complessa e variegata attività e le articolate relazioni del pittore sia dal punto di vista artistico che della sua biografia intellettuale.

    Ho ricostruito, in occasione di un recente convegno a Pisa dedicato ai materiali d’artista, il percorso di Pellizza nei confronti dei pigmenti e degli strumenti di lavoro: nel passaggio progressivo verso colori di produzione industriale capaci di garantire la stabilità e la durata; nel necessario confronto con alcune fonti antiche e con la trattatistica del tempo; nel significato delle prove di colore e in una puntuale ricognizione sui tubetti rimasti nello studio di Volpedo².

    Per questo convegno ho ritenuto utile portare l’attenzione su uno spicchio particolare della attività di Pellizza, studiando alcuni di questi tubetti che non hanno avuto finora una trattazione specifica.

    Nel ricco campionario di colori rimasti nello studio, e corrispondenti verisimilmente a quelli da lui usati soprattutto negli ultimi anni di attività, spicca un buon numero di tubetti Lefranc che recano sull’etichetta, accanto alla marca della ditta produttrice, la dizione couleurs de Muzii, tempera brillante. Si tratta dei seguenti pigmenti ordinati in ordine alfabetico: Blanc d’argent, Blanc de Zinc, Bleu de cobalt, Jaune de cadmium citron, Jaune de Cadmium foncé, Jaune de Naples, Laque de garance rose, Laque de Garance nuance bitume, Ocre jaune, Ocre rouge, Outremer extra, Terre d’ombre, Terre de Sienne brulée, Terre Vert nature, Vertémeraude, Vert Veronèse, Vermillon permanent (fig. 1).

    Nella biblioteca di Volpedo si conserva anche un breve opuscolo dal titolo Notizie dei colori muzii tempera brillante, edita in italiano da Lefranc, senza anno di stampa, ma con una datazione Firenze marzo 1905 posta in calce alla presentazione di questi nuovi prodotti fatta dallo stesso inventore, il pittore abruzzese Alfonso Muzii; questo consente di porre l’incontro di Pellizza con le tempere brillanti negli ultimi due anni della sua attività. Muzii definiva il suo tentativo come ricerca di inalterabilità così ammirata nei quadri dei Primitivi e, nello stesso tempo, di una rapidità di esecuzione che possa rispondere alle esigenze dell’arte moderna; i nuovi colori "conservano le buone qualità dell’antica Tempera, perdendone i difetti. In una parola si tratta di una pittura ad acqua che ha l’identico aspetto della pittura ad olio. Non avremo più toni opachi, ma una semilucentezza persistente che ci fa vedere immediatamente l’impressione esatta che produrrà l’opera nell’avvenire"³.

    A chiusura dello stesso opuscolo troviamo un elenco dei colori Muzii posti in commercio nel 1905; il catalogo indica anche accanto a ciascun colore numero identificativo dei tubi che venivano forniti e che andava dal sei dei tubi di Bianco d’argento, al due dei blu, dei gialli dell’oltremare, dei verdi e del vermiglione e al tre dell’ocra e delle terre.

    Fig. 1. Colori e tavolozze nello studio di Giuseppe Pellizza a Volpedo.

    Sul margine dell’elenco sono segnati con una X i tubetti ordinati da Pellizza, con un acquisto in blocco per un ammontare di lire 79,5; i tubetti corrispondono a quelli sopra elencati, ad eccezione di quelli in corsivo che devono risalire ad un’altra, successiva ordinazione.

    Già nel catalogo generale del pittore del 1986, pur non avendo ancora sviluppata una particolare sensibilità per lo studio dei pigmenti, colpita dalla brillantezza di una piccola opera⁴ raffigurante La rosa, avevo intuito l’uso da parte di Pellizza di colori diversi da quelli ad olio a lui più consueti e ne avevo indicato la tecnica come tempera; i lavori e le analisi sui colori di Pellizza compiuti in questi anni con vari collaboratori, soprattutto a partire dalle ricerche fatte per il convegno Il colore dei Divisionisti del 2005 con Therry Radelet, Gianluca Poldi e Giuseppe Laquale⁵, avevano riguardato soprattutto alcune grandi opere dell’artista e, pur ricostruendo la complessità anche tecnica del lavoro del pittore, avevano evidenziato l’uso di colori ad olio senza approfondire altre tecniche.

    Il ritrovamento dell’inventario dei quadri steso alla morte dell’artista - inutilmente cercato negli anni ’80 e ora rinvenuto, dopo molte nuove ricerche, da Ettore Cau, inventario che è in corso di analisi e di verifiche sistematiche per nuovi approfondimenti ed aggiunte al catalogo generale – consente di fare qualche osservazione ulteriore poiché vi compare al n. 18 La Rosa definito opera su cartone a colori a tempera Muzii da 0,12 ½ a 0,18½ (uno degli ultimi studi)⁶.

    L’inventario permette di avvicinare a quest’opera anche qualche altro dipinto, costruendo un piccolo nucleo di sette lavori realizzati da Pellizza con colori Muzii. L’elenco di questi quadri, confrontato col catalogo generale, è il seguente:

    -cat. gen. 1284: Paesaggio con piante , corrispondente nell’inventario al "n. 44° Studio di Piante - a tempera Muzii senza cornice su tela da 0,25 × 0,25½ - Maggio 1906";

    -cat. gen. 1285 L’albero = "n.102 Schizzo di pianta su prato – a tempera Muzii su cartone – 0,21 per 0,302";

    -cat. gen. 1287: Paesaggio al Molinetto = "n. 6° Paesaggio al Molinetto (Volpedo) - a colori a tempera Muzii su tela da 0,40 per 0,40";

    -cat gen. 1318: Parete del mio studio = "n. 35 Archi di sostegno del mio studio – 23 giugno 1906 colori a tempera Muzii – una delle prime prove su cartone – (da 0,23½ a 0,18)" ⁷.

    Le altre opere segnalate nell’inventario come eseguite con questa tecnica sono alcuni quadri fatti da Pellizza in Engadina nel 1906 durante il viaggio compiuto sui luoghi segantiniani:

    -cat. gen. 1308 Alpe Languard = "n. 5° Alpe Languard su tela, e a colori a tempera Muzii (0,71 per 0,56)";

    -cat. gen. 1309 Paesaggio dell’Engadina = "n. 8° Montagna sopra la Pontresina – a colori a tempera Muzii su tela da 0, 35 × 0,61";

    -cat. gen. 1313 Montagna dell’alta Engadina = "n. 29 Montagna dell’alta Engadina da Pontresina su carta ad olio anzi a colori tempera Muzii (da 0,61 a 0,41 esistente sopra altro dipinto su cartone, rappresentante l’ Alba ").

    Nessuno di questi tre paesaggi è stato fino ad oggi ritrovato; i paesaggi engadinesi noti (da Pontresina (cm 63 × 47) a Montagne a Pontresina (cm 63 × 40,5) a Alpe Rosegg, Alta Engadina sopra Pontresina (cm. 63 × 48) sono lavori di grande qualità ma eseguiti a pastello, matite colorate e carboncino⁸.

    La scelta di portare queste nuove tempere nel viaggio in Engadina deve essere maturata all’interno delle caratteristiche sostenute da Muzii e testate da Pellizza nei lavori eseguiti a Volpedo: secondo quanto affermato nell’opuscolo i colori erano maneggevoli e asciugavano velocemente, consentendo di riprendere la pittura anche in tempi rapidi e di portare a compimento un quadro in un sol giorno; sembrava quindi opportuno utilizzarli in un viaggio accanto ai più tradizionali pastelli o matite colorate.

    Fig. 2. G. Pellizza, La Rosa, 1906, coll. priv., con indicazione dei punti analizzati al microscopio (®Musei di Pellizza, Volpedo/Radelet, Torino).

    Le analisi fatte su campioni di due tubetti di colori Muzii⁹ - bianchi e gialli - testimoniano la presenza nel tubetto di Blanc d’argent dei segnali della biacca (3532, 1740, 1386, 1104, 1044, 837, 773, 677 cm-1) e di una sostanza polisaccaridica come la gomma arabica o simili (1603, 1021, 1104, 990 cm-1) utilizzata come legante; le tracce di una sostanza grassa (2921, 2846, 1730 cm-1) sono probabilmente dovute a una contaminazione¹⁰. Anche nel caso del Giallo di Napoli le analisi hanno identificato i segnali di una sostanza polisaccaridica, (2928, 2853, 1622, 1457, 1418, 1374, 1339, 1039, 972, 925, 881, 841 cm-1) e del giallo Napoli (708, 670, 629 cm-1), confermando quanto dichiarato da Muzii (fig. 4). I colori dovevano essere diluiti in acqua per la loro stesura; Muzii consigliava anche un particolare medium, anch’esso venduto da Lefranc,¹¹ ma di questo non ho trovato traccia nello studio di Pellizza.

    In assenza di maggiori informazioni certe sui colori inventati da Alfonso Muzii ho ritenuto opportuno far eseguire una serie di analisi non distruttive da Thierry Radelet, col quale avevo già avuto varie occasioni di lavoro comune su tele ad olio di Pellizza (appartenenti non solo al periodo divisionista ma a diverse fasi della sua attività), di Nomellini, Previati e Longoni¹², e che aveva compiuto analisi sui materiali conservati a Volpedo in collaborazione anche con Gianluca Poldi, e disponeva quindi di una specie di banca dati sulle opere di Pellizza.

    Le opere studiate sono state La rosa e L’albero grazie alla disponibilità della proprietaria che ringrazio vivamente. I quadri in oggetto non hanno subito restauri, trattamenti o interventi di sorta nel corso del tempo e sono ben conservati: infatti le analisi alla fluorescenza ultravioletta sui due dipinti non hanno evidenziato fluorescenza omogenea imputabile a un film protettivo: essa è localizzata solamente in alcune campiture ed è riferibile quindi ad alcuni pigmenti e/o leganti.

    La tempera in essi utilizzata è rimasta vivace, brillante e luminosa e i toni rispondono alle colorazioni documentate dai tubetti conservati a Volpedo e può quindi diventare un parametro importante di riferimento per altre opere.

    Il supporto in entrambi i dipinti è a base cartacea, cartone di media consistenza in L’albero e cartoncino in La Rosa (fig 2, 3).

    Il modo di distribuire i pigmenti sul supporto documenta la particolare ricchezza del tessuto cromatico, ottenuto grazie alla possibilità di sovrapporre le diverse tonalità con lunghe e veloci pennellate che però conservano una grande trasparenza: questo permette di evidenziare le variazioni tonali del pigmento, che rimane per lo più privo di qualsiasi rugosità, tipica invece del colore ad olio.

    Grazie alla fluidità della tempera diluita il pennello può scorrere con grande velocità, moltiplicando la possibilità di riprodurre le infinite variazioni della natura, quelle stesse che Pellizza cercava di ottenere anche nei più grandi quadri ad olio databili attorno al 1904 e in cui, rileggendo la lezione dei paesisti ottocenteschi, da Fontanesi, ai barbizonniers oltre che a Constable e Turner, cercava di tradurre sulla tela le molteplici variazioni atmosferiche percepibili attraverso il movimento dei rami e le macchie di vegetazione: ne sono testimoni i vari paesaggi eseguiti dal pittore nei primi anni del novecento come Paesaggio presso il prato del Pissone su cui sono state fatte particolari analisi da Gianluca Poldi¹³.

    Fig. 3. G. Pellizza, L’albero, 1906, coll. priv., con indicazione dei punti analizzati al microscopio (®Musei di Pellizza, Volpedo/Radelet, Torino).

    Fig. 4. Spettri FT-IR ottenuti sui campioni di colori muzii Blanc d’argent e Jaune de Naples, Tecnart srl (®Musei di Pellizza, Volpedo/Radelet, Torino).

    La presentazione delle analisi sulle due opere a colori Muzii, partendo da quelle in luce diffusa e luce radente, segue il testo e il percorso indicato dal rapporto steso da Thierry Radelet che le ha eseguite.

    Le analisi in luce diffusa hanno rilevato l’abbondanza di pennellate di diverse tonalità sovrapposte le une alle altre e che si fondono alla vista nel risultato finale. Oltre agli effetti di trasparenza, diversi da quelli dell’uso del colore ad olio, si è rilevato una certa opacità nelle stesure che non è compatibile con i colori ad olio, inoltre è evidente in diversi punti il ritiro dell’acqua dopo l’asciugatura che è caratteristico del procedimento a tempera diluita in acqua (fig. 5).

    Le analisi in luce radente hanno permesso di rilevare soprattutto nel dipinto La rosa larghe pennellate non riconducibili alle campiture soprastanti e riferibili quindi alla imprimitura di base (fig. 6). Nel dipinto L’albero non sembra di rilevare le stesure di imprimitura ma rimane più leggibile la rugosità del supporto a cartone, ben percepibile nelle analisi al microscopio che ne evidenzia la rugosità; in La Rosa possiamo vedere bene qualche filo di cellulosa e la presenza di una specie di imprimitura di base.

    Le analisi al microscopio digitale (da 51 a 140 x) dei pigmenti dell’Albero sono state eseguite in 5 punti. Il punto 1 ha evidenziato la liquidità delle stesure.

    Il punto 2, su una campitura verde, ha evidenziato la presenza di granuli verdi, che fa supporre che il verde nella stesura più ampia sia stato ottenuto non mescolando due pigmenti (come blu e giallo) ma schiarendo il verde col bianco. Le pennellate sono stese a velatura, nuance su nuance, che riescono a fondersi insieme.

    Fig. 5. Macro di un dettaglio del dipinto L’albero (®Musei di Pellizza, Volpedo/ Radelet, Torino).

    Fig. 6. Macro di un dettaglio del dipinto La Rosa (®Musei di Pellizza, Volpedo/Radelet, Torino).

    Fig. 7. Macro dei punti 1, 2, 3, 5 analizzati al microscopoio digitale in L’albero (®Musei di Pellizza, Volpedo/Radelet, Torino).

    La granulometria del punto 3 su campitura blu risulta impalpabile e potrebbe quindi essere frutto dell’uso di un pigmento organico per la sua realizzazione.

    Altrettanto si nota per i punti 4 e 5 a tonalità violetta e rossa, in questo caso identificabile con una lacca (fig. 7).

    Nelle analisi del dipinto La rosa: il prelievo del punto 1 rivela un rosso simile, per granulometria e per colore, a questo stesso rosso identificabile con una lacca.

    Nel rilevamento del punto 2 si evidenziano le stesure sottili che producono fusione fra colori sotto e soprastanti.

    Nel rilievo al punto 3 si possono identificare nelle zone libere dal colore le fibre della carta utilizzata come supporto.

    Nel rilevamento n 4 su superficie verde si possono trovare i granuli già visti nell’altro dipinto che fanno però supporre in questo caso uno schiarimento con uso probabile del giallo.

    Anche per il rilevamento 5 su area blu il risultato è analogo al dipinto precedente, perché la granulometria impalpabile porterebbe a ipotizzare l’uso di un pigmento organico (fig. 8).

    La particolare materia cromatica delle tempere Muzii comporta anche il prodursi di cretti sulla superficie pittorica diversi rispetto a quelli che si producono sui pigmenti ad olio; le foto a radenza e a microscopio delle due opere rivelano infatti cretti a lunghi tratti e con andamento diramato in entrambi i dipinti.

    A questo punto delle analisi mi si è però aperta un’altra possibilità di indagine sul patrimonio conservato a Volpedo ed ho ritenuto opportuno riportare l’attenzione anche sulle tavolozze rimaste nello studio: oltre alla grande usata in atelier, si conservano altre quattro tavolozze usate soprattutto nella pittura en plein air; tre di queste sono molto ricche di pigmenti ad olio sia con stesure a piccoli colpi di colore (n.1) che con stesure a più larga campitura (n. 2).

    La quarta, a cui avevo prestato minor attenzione, presenta invece una caratteristica differente: ha una superficie smaltata e risulta al confronto poco utilizzata, perché arricchita solo da ampie pennellate a macchia sia pure con una gamma abbastanza ricca di colori; indice probabilmente di un uso più limitato rispetto alle altre e probabilmente riconducibile ad un acquisto più tardo (fig. 9).

    Nel suo opuscolo Alfonso Muzii rimarcava che per le sue tempere si potevano utilizzare gli stessi pennelli usati per i colori ad olio e che si lavavano poi in acqua, mentre per le tavolozze occorreva servirsi di tavolozze non assorbenti, sia di latta verniciata, o di maiolica, o di alluminio, o di celluloide.

    Fig. 8. Macro dei punti 1, 2, 4, 5 analizzati al microscopio digitale in La rosa (®Musei di Pellizza, Volpedo/Radelet, Torino).

    La tavolozza in oggetto, con superficie in celluloide, poteva quindi essere stata utilizzata da Pellizza proprio in concomitanza con la sperimentazione dei colori Muzii, probabilmente scelta fra quelle disponibili nel catalogo Lefranc, destinate preferibilmente ai colori non ad olio.

    Anche su questa tavolozza si è quindi proceduto ad analisi non distruttive per identificare i pigmenti e confrontarli con quelli delle tele. Contestualmente, per avere un test più significativo, le stesse analisi sono state fatte su un’altra delle due tavolozze piccole con pigmenti ad olio, partendo da riprese in luce diffusa e in luce radente che hanno messo in risalto delle profonde differenze fra le due.

    Partendo dalla osservazione dello spessore delle pennellate nei due quadri esaminati e dal loro confronto con le tavolozze, le analogie più evidenti sono con le più sottili pennellate della tavolozza a tempera che non con quelle corpose della tavolozza ad olio; al tempo stesso troviamo una maggiore analogia nell’opacità di colori rispetto alla luminescenza delle pennellate presenti sulla tavolozza ad olio.

    Anche i cretti presenti nelle due opere presentano analogia di diramazione e profondità con quelle della tavolozza n. 4 (fig. 10).

    Pellizza doveva aver usato i colori Muzii per cercare la trasparenza e la varietà delle sfumature nella resa del paesaggio: la trasparenza l’aveva ricercata fin dall’inizio con l’uso di lacche; aveva poi sperimentato nuove soluzioni rendendo il più sottile possibile le pennellate e provando non solo coi colori Muzii ma anche variando spessori e modi di distribuire il colore ad olio, e sperimentando anche i colori Raffaelli, colori ad olio ma in stick e quindi maneggiabili come pastelli: si vedano ad esempio alcune soluzioni presenti in quadri sicuramente ad olio come Il sorgere del sole della Gam di Milano che, al confronto con un altro analogo dipinto dal medesimo titolo e che sembra integralmente ad olio¹⁴, presenta dei tratti lunghi e luminosi che fanno pensare a un diverso modo di intendere la materia pittorica e su cui occorre riflettere ulteriormente.

    Fig. 9. La tavolozza usata da Pellizza per i colori muzii (®Musei di Pellizza, Volpedo).

    Fig. 10. Particolare della tavolozza analizzata al microscopio elettronico, coi cretti caratteristici (®Musei di Pellizza, Volpedo/Radelet, Torino).

    Questa ricerca di trasparenza sembra presente anche in altri quadri: il Girotondo sempre della Gam di Milano (seconda e più tarda versione di Idillio Primaverile; il Girotondo rimase probabilmente non finito alla morte dell’artista; sulla tela Thierry Radelet aveva compiuto nel 2002 particolari analisi non distruttive) il colore ad olio nella ricchezza del ductus con cui è distribuito ha documentato in qualche caso la presenza di una materia cromatica che presenta pennellate oblique di diverso spessore e diluizione risultando in qualche caso di effetto simile a tratti acquerellati, lasciando aperte ulteriori prospettive di analisi e di interpretazione.

    Oltre alle tempere Muzii a Milano a inizio novecento si sperimentarono anche i colori a tempera brillante del Barone Pereira, commercializzati dalla ditta tedesca Wurm. Li provò Pompeo Marini e su questo sono in corso ulteriori ricerche.

    Note

    ¹A. Scotti Tosini, Lo studio di Giuseppe Pellizza a Volpedo: un bilancio e prospettive a trent’anni dalla donazione al pubblico in A. Scotti Tosini (a cura di), Ateliers e case d’artista nell’Ottocento (atti del seminario Volpedo, 3-4 giugno 1994) Voghera 1998, pp. 17-30; A. Scotti - P. Pernigotti, Lo Studio-Museo di Giuseppe Pellizza da Volpedo e i Luoghi pellizziani , Regione Piemonte 1996.

    ²Tecnica e contenuti: La ricerca in progress di Giuseppe Pellizza , relazione presentata al convegno Materiali d’artista. Proposte per lo studio dell’atelier del pittore fra Otto e Novecento, Scuola normale superiore Pisa 7 maggio 2015.

    ³Notizie sui colori Muzii. Tempera brillante , Lefranc & C.ie Editeurs, s.d., p. 6

    ⁴A. Scotti, Pellizza da Volpedo. Catalogo generale , Milano 1986, n. 1332 p. 484.

    ⁵G. Poldi, Ricostruire la tavolozza di Pellizza da Volpedo mediante la spettrometria in riflettanza , e Th. Radelet – G. Laquale Analisi non invasive su opera di Nomellini e Pellizza. Risultati e prospettive di ricerca , entrambi i contributi i in A. Scotti (a cura di) Il colore dei divisionisti. Tecnica e teoria. Analisi e prospettive di ricerca , Atti del convegno (Volpedo- Tortona 2005), Tortona 2007, pp. 119-134 e 103-118; Th. Radelet – A. Scotti, La tecnica di Giuseppe Pellizza alla luce di nuove analisi , in Effetto luce. Materiali, tecnica, conservazione della pittura italiana dell’Ottocento , Atti del convegno (Firenze 2008), Firenze 2009, pp. 235-246.

    ⁶L’inventario redatto dal notaio Palmana di Volpedo fu steso con l’aiuto di Felice Abbiati, cugino ed amico del pittore, che ne frequentava la casa; Abbiati fu anche il tutore delle figlie, di cui amministrò il patrimonio con scrupolo.

    ⁷In realtà sul retro del dipinto, autografo di Pellizza, c’è il titolo Parete del mio studio.

    ⁸Scotti cit. 1986, nn. 1309, 1300, 1301, pp. 479 e 477, cui vanno aggiunti alcuni piccoli disegni a matita sempre schedati a pp. 477-480.

    ⁹Analisi eseguite da Tecnart/s.r.l. c/o Dipartimento di Fisica, Università di Torino, relazione allegata a quella consegnatami nell’ottobre 2015 da Thierry Radelet (Torino, via Modena 58, 10153 Torino; radelet@libero.it ; www.riflettografia.it ): Risultati delle analisi sui dipinti Albero e Rosa di Giuseppe Pellizza e confronto con alcune tavolozza del pittore .

    ¹⁰ Sarebbe comunque opportuno eseguire ulteriori analisi per testare anche la veridicità delle affermazioni di Muzii.

    ¹¹ Su questo ed altre notizie sui colori muzii si rimanda alla relazione di M. d’Ayala Valva, Documenti dall’archivio Lefranc. Il dossier Muzii in questi stessi atti.

    ¹² Th. Radelet - G. Laquale, Analisi tecniche non invasive su Sole sulla brina (1908-1910) e L’imbarco dei Mille a Quarto , in A. Scotti Tosini (a cura di), Induno Fattori Nomellini Viani. Pittura di storia nella Galleria d’arte moderna di Novara , Novara- Cinisello Balsamo 2005, pp. 123-36; Radelet - Laquale cit. 2007, pp. 123-136 e M.M. Mastroianni, Longoni, Nomellini, Pellizza, Previati: opere rivisitate alla luce di nuovi approfondimenti sulla tecnica pittorica , con contributi di Th. Radelet e G. Laquale, introduzione di A. Scotti, Tortona 2010.

    ¹³ Per le analisi su Paesaggio presso il lago del Pissone cfr. G. Poldi, Filamenti gocce, incisioni: la tecnica dell’ultimo divisionismo di Pellizza da Volpedo. Un contributo scientifico , in, Il paesaggio di Pellizza da Volpedo. Indagini e storia di un capolavoro , a cura di F.L. Maspes, Milano, pp. 65-83. Per Vecchio mulino a Volpedo , G. Poldi, Vecchio mulino a Volpedo , in Il vecchio mulino di Pellizza da Volpedo , a cura di F.L. Maspes, Milano 2014, pp. 59-77.

    ¹⁴ Scotti cit. 1986, nn. 1247 e 1246, pp. 465- 464.

    Non solo olio. Colori in tubetto e sperimentazioni artistiche in Italia.

    1860-1935.

    Simona Rinaldi

    Professore associato, Dip. DISUCOM Università della Tuscia,

    via S. Maria in Gradi 4, 01100 Viterbo - rinaldi@unitus.it

    Abstract

    Il contributo prende in esame le sperimentazioni condotte tra 1l 1860 e il 1935 da vari artisti italiani (ad es: Michetti, Fontanesi, Laurenti, de Maria, De Chirico), che dagli antichi trattati pittorici trassero le ricette con i leganti più diversi: emulsioni oleo-proteiche, uovo, cera, glicerina, gomme e resine. A tali ricerche si affiancò la nascita delle prime industrie italiane di colori (Ferrario 1919; Maimeri 1923) e l’adozione dal 1933 dei moderni smalti industriali (Decoral, Silexore, Ripolin).

    Gli estremi cronologici indicati circoscrivono gli anni che vanno dall’unificazione italiana fino alla fase del ventennio fascista in cui le sanzioni internazionali chiusero la possibilità di importare prodotti dall’estero. Il ritardo tecnologico che già esisteva nel campo dei materiali artistici venne così accentuato, e l’utilizzo di moderni prodotti industriali come i colori acrilici, alchidici etc. fu introdotto tra gli artisti italiani solo dopo la fine della seconda guerra mondiale.

    Se infatti si prendono in esame le recenti ricerche multidisciplinari che hanno interessato la produzione dei pittori artisticamente più innovativi del nostro Ottocento, come i Macchiaioli toscani e i Divisionisti lombardi, emerge il ricorso sistematico ai pigmenti a olio in tubetti prodotti industrialmente da note marche di colori dell’epoca, in primo luogo dalla ditta francese Lefranc e da quella inglese Winsor & Newton.

    Da una prima ricognizione storica sulle marche dei tubetti di colore adottate dagli artisti italiani, emerge il ruolo di promotore commerciale della ditta Lefranc svolto da Vittore Grubicy de Dragon accanto a quello più consueto di critico e collezionista dei Divisionisti¹, mentre parallelamente si afferma il ruolo di Milano come principale centro italiano del mercato pittorico e di aggiornamento culturale e industriale nel campo delle Belle Arti².

    A Milano infatti la ditta di Luigi Calcaterra, fondata come semplice rivendita nel 1839, diviene dai primi anni del Novecento il principale fornitore dei prodotti francesi, inglesi e tedeschi, assumendo anche una importante funzione divulgatrice attraverso la stampa dell’Enciclopedia artistica curata da Maurizio Erbici in una prima edizione del 1900, subito ristampata con aggiornamenti tre anni dopo³.

    Nel testo si delinea un articolato panorama dei principali prodotti industriali per le belle arti cui sono affiancati numerosi brani estratti da vari autori della letteratura tecnica dell’Ottocento, a partire dal famoso testo di Jehan-Georges Vibert, La science de la peinture (1891) tradotto in italiano nel 1893 da Gaetano Previati.

    Meno nota è la pubblicazione che nel 1897 lo stesso Vibert dedica alla pittura a tempera e intitolato La peinture à l’oeuf, di cui la ditta Lefranc non solo si assunse gli oneri come editore, ma fece stampare a più riprese dal 1897 al 1910 una brochure riassuntiva, che incaricò Vittore Grubicy di tradurre in italiano⁴.

    Nel breve testo di una trentina di pagine, Vibert evidenzia i degradi causati dal legante a olio, a fronte dei maggiori pregi della tempera d’uovo, precisando sin dal sottotitolo di voler ricostruire il procedimenti esecutivi dei pittori primitivi. La tempera tuttavia richiedeva di essere preparata ogni giorno fresca, mentre la tecnica a olio si rivelava più pratica e facile da utilizzare. Al fine di eliminare le principali difficoltà causate dalla tempera, l’autore descrive nel dettaglio due nuovi prodotti messi in commercio dalla Lefranc, piuttosto che presentare dei colori a tempera in tubetto pronti per l’uso. Infatti dichiarando di aver abbandonato l’idea espressa nel 1891 di riprodurre chimicamente l’uovo, Vibert consigliava l’impiego dell’uovo fresco, attenuandone i difetti mediante l’adozione di due nuovi preparati: l’Aqualenta, diluente per colori a tempera che ne ritardava al contempo la rapida essiccazione (pp. 11-16) e la Vernis à l’eau, protettivo della superficie pittorica (pp. 17-22).

    La trattazione di Vibert sulla pittura a uovo e il conseguente interesse di Grubicy, appaiono come una prima risposta alla moda dilagante della tecnica a tempera che dalla Germania si stava rapidamente diffondendo in tutta Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento.

    Negli ultimi due decenni del XIX secolo il dibattito avviato all’Accademia di Belle Arti di Monaco sulla permanenza dei colori a olio in tubetto si era fatto particolarmente vivace e aveva generato uno specifico filone di ricerca scientifica applicata al campo delle Belle Arti, con la finalità di fornire prodotti di qualità certificata⁵. Fu così che dalle ricerche chimiche di Adolf Keim nacquero negli anni 1880 i Normaölfarben per la pittura da cavalletto, e i Mineralmalerei per la pittura murale⁶. Altre ricerche innovative furono presentate a Monaco nel 1893 con una netta prevalenza di colori a tempera in tubetto: da quelli brevettati nel 1891 dal barone Adolf von Pereira, alle produzioni industriali proposte dai fabbricanti Richard Wurm, Hermann Neish, Franz Schönfeld e Hermann Schmincke, affiancandovi anche nuove tipologie di colori a olio come i Mussini Ölfarben, mentre il pittore Wilhelm Beckmann esponeva le proprietà dei Syntonosfarben, il cui legante era una miscela di gomma arabica, olio di lino, glicerina, cera, sego e sapone verde⁷.

    Le numerose formulazioni a tempera proposte si ponevano come alternativa idrosolubile ai colori a olio e la loro minore tendenza a deteriorarsi, accompagnata dal riferimento storico alle antiche tecniche pittoriche, riscuotevano un notevole gradimento tra gli artisti, tra cui i notissimi Arnold Böcklin e il padre della Secessione monacense Franz von Stuck⁸.

    Nel 1892 Alphonse von Pereira giunse a Milano per presentare i tubetti a tempera da lui brevettati, e tempestivamente Grubicy ne recensì la conferenza, commentandola in maniera caustica, nella convinzione che il recupero della tecnica a tempera fosse non solo «un inutile anacronismo, ma una vera reazione in senso retrogrado, reazione che farebbe comodamente il giuoco dei fabbricanti di colori»⁹.

    La diffidenza di Grubicy nei confronti dei colori a tempera prodotti industrialmente in Germania appare piuttosto radicata, essendo confermata da una lettera del 1903 dove critica i pessimi risultati ottenuti nel ritoccare la sua Sinfonia crepuscolare

    «per abbassarla al tono giusto crepuscolare con i colori strombazzati allora dagli imbroglioni tedeschi col nome di ‘Tempera Wurm’. Tempera … credevo volesse dire tempera, cioè colore ad acqua che se non è fissato con vernice si può togliere … no? Se avessi visto che desolazione!, Non solo non c’era modo di toglierli e disgregarli in nessun modo ma – quel che era peggio! - tutti i colori erano cresciuti di tono verso il nero»¹⁰.

    In Italia i pittori, per rifornirsi di colori, dovevano necessariamente ricorrere all’acquisto di prodotti stranieri, non esistendo ancora alcun stabilimento industriale di materiali per le belle arti. Fu solo nel 1919 che il pittore Carlo Ferrario, reduce della prima guerra mondiale, aprì una prima fabbrica nel varesotto, per trasferirsi negli anni Venti a Rovereto, dove avviò la produzione di colori a olio e pastelli¹¹. Qualche anno dopo, nel 1923 a Milano il pittore Gianni Maimeri, coadiuvato dal fratello Carlo, laureato in chimica industriale al Politecnico di Zurigo, fondò la nota ditta Maimeri, ma sempre a partire dalla produzione di colori a olio.

    In realtà numerosi pittori italiani erano interessati alla tecnica a tempera, in particolare nell’ambiente veneziano, fortemente impregnato di cultura simbolista che risultava maggiormente sensibile al secessionismo mitteleuropeo. Fu infatti a Venezia che il primo premio della I Biennale Internazionale d’Arte del 1895 venne assegnato alla Figlia di Jorio di Francesco Paolo Michetti, che dipinse la grande tela servendosi di una miscela di gomma e glicerina, analogamente a numerose altre tele eseguite negli anni succcessivi¹².

    Alla I Biennale di Venezia parteciparono anche Cesare Laurenti e Mario de Maria, ben noti per le ricerche sulla tecnica a tempera. Sulla ricetta della «Tempera Laurenti» si conoscono solo i principali componenti: la colla animale e la gomma arabica¹³. Come colla animale il pittore utilizzava la colla Totin¹⁴, prodotto industriale a base di pelle di coniglio, ritenuta la migliore dell’epoca. La gomma arabica era invece impiegata in miscela «ad una soluzione di gelatina di semi di lino bollita in acqua e filtrata»¹⁵. Si trattava di un legante denso e opaco con cui l’artista dipingeva alternandolo a numerose velature, per le quali consigliava un legante resinoso costituito da copale e vernice mastice¹⁶. Prima di giungere a tali formulazioni Laurenti si era largamente servito delle tempere Wurm, come attesta una lettera del 1894 dove il pittore si lamentava della mutata qualità dei tubetti a tempera tedeschi, affermando di averli impiegati sin dal 1890 e di averli trovati sempre di ottima qualità e superiori ai colori a olio¹⁷. Nel 1895 l’artista ribadiva a Wurm le sue critiche sull’ingiallimento dei bianchi e la lentezza di tutti i colori nell’asciugarsi, allegando anche alcuni campioni di tela dipinta e pregando di rispondere sollecitamente «per arrivare in tempo a finire la mia pittura per la grande Esposizione Internazionale di Venezia»¹⁸.

    Analoghe lettere a Wurm furono inviate da Pietro Fragiacomo¹⁹, testimoniando contestualmente l’avvio delle ricerche condotte da Laurenti sulla sua tempera a partire dal 1896 e ottenendo attorno al 1902 un legante rispondente alle sue esigenze, che fu prontamente adottato da Fragiacomo e altri pittori veneziani. Il successo fu tale che Laurenti tentò di brevettare la sua tempera e commercializzarla: era infatti entrato in contatto con la piccola industria chimica Giorgi di Rovigo, dove lavoravano sia il figlio Bruto che il genero Checchi, che avrebbe dovuto realizzare una fabbrica industriale di colori. Il progetto, poi non realizzato, è testimoniato da due lettere dell’agosto 1909 concernenti proprio la preparazione industriale della «Tempera Laurenti», soprattutto in relazione al bianco, notevolmente luminoso, insieme ad altre ricette innovative per i colori che l’artista aveva elaborato²⁰.

    La passione per la sperimentazione tecnica era condivisa da Laurenti con Mario de Maria, che inventò anch’egli una propria tempera, mediante una rigorosa preparazione artigianale da cui era escluso ogni prodotto industriale e che egli conservava gelosamente²¹. Nella lettera che l’artista invia al critico Ugo Ojetti nel 1912 che stava all’epoca curando la traduzione italiana del testo di Charles Moreau-Vauthier²², rivela che si trattava di una «miscela di colla vegetale e animale e varie resine». Era quindi una tempera grassa che de Maria utilizzava come primo strato cromatico da condurre a compimento mediante la stesura di velature oleo-resinose. Infine, una volta conclusa la pittura «il tutto è impregnato con ambra liquefatta»²³.

    La «Tempera De Maria», per quanto artigianale, era molto conosciuta a Venezia, come dimostra una lettera del pittore Beppe Ciardi al collega Pietro Chiesa del 20 settembre 1909 dove affermava che era costantemente utilizzata da Guglielmo Talamini e Gennaro Favai, concludendo: «Molti a Venezia mescolano dipingendo la tempera Plancik, la Wurm, la Sminke [sic], quella ad uovo, la Pereira, i colori a olio, ad acquerello e molte altre cose ancora. Così fa Tito, a quel che dicono»²⁴.

    Accanto a tali testimonanze documentate, si rintracciano in letteratura numerosi altri riferimenti a pittori italiani, come è il caso di Antonio Fontanesi (1818-1882), che abbozzava i suoi paesaggi con un legante a tempera costituito da rosso d’uovo e gomma arabica, con l’aggiunta di alcool o aceto e zucchero. Tale stesura a tempera, secondo la testimonianza di Carlo Carrà che la sperimentò personalmente, costituiva l’abbozzo pittorico che il pittore finiva di dipingere con colori a olio diluiti con resina copale²⁵.

    Tra tutti gli eperimenti condotti, è noto che almeno in un caso la produzione artigianale ebbe un riscontro commerciale internazionale. A partire dal 1905 il pittore abruzzese Alfonso Muzii si accordò con la ditta Lefranc per la fabbricazione industriale delle sue Tempere Brillanti a base d’uovo²⁶, che furono testate anche da Grubicy, Pellizza da Volpedo²⁷ e altri pittori divisionisti come Emilio Longoni²⁸.

    Una vera a propria consacrazione della tecnica a tempera fu operata negli anni Venti da Giorgio de Chirico quando all’interno del Ritorno al mestiere da lui proposto sin dal 1919 dopo la fase Metafisica, pubblicò vari scritti tecnici: Pro tempera oratio nel 1923 e il Piccolo trattato di tecnica pittorica nel 1928. L’origine di tale interesse dechirichiano è stato strettamente correlato alla sua presenza nell’Accademia di belle arti di Monaco tra 1906 e 1907 e alla frequentazione degli Uffizi dove eseguiva copie dai maestri del Rinascimento. Lo studio diretto dei dipinti convinse il pittore che il legante fosse costituito dalla tempera grassa: una emulsione oleo-proteica che da quel momento tentò di riprodurre con numerose formule²⁹. Variando l’olio siccativo (di lino o di papavero) da unire al rosso d’uovo, de Chirico differenziava ulteriormente i componenti della sua tempera grassa, aggiungendovi in un primo caso, albume, trementina di Venezia, sapone di Marsiglia, aceto e acqua; mentre nel secondo caso la miscela era addizionata con olio di trementina o petrolio, glicerina, aceto e acqua.

    Al suo rientro a Parigi, de Chirico riprese a dipingere a olio, mentre la fortuna della pittura a tempera proseguì il suo cammino in Italia contagiando numerosi pittori, da Felice Casorati al fratello Alberto Savinio³⁰, per giungere allo spagnolo Mariano Fortuny y Madrazo che nel 1933 impiantò una fabbrica di colori a tempera in tubetto nella sua residenza veneziana di Palazzo Pesaro degli Orfei.

    Come riferisce il suo amico pittore René Piot, per la manifattura dei suoi colori a tempera Fortuny non adottò il consueto procedimento utilizzato sia dai pittori che dai fabbricanti tedeschi e francesi, i quali traevano le ricette dallo studio degli antichi trattati e ricettari pittorici pubblicati e commentati da Ernst Berger³¹. Fortuny preferì rivolgersi ai vecchi venditori di colori ancora in attività, acquistando in blocco i materiali grezzi rimasti nelle antiche mesticherie veneziane e lombarde³². La composizione del legante a tempera da lui ottenuto fu sempre mantenuto rigorosamente segreto, ma dai risultati preliminari delle analisi chimiche ancora in corso presso i laboratori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, emerge anche in questo caso la natura eterogenea della sua tempera, contenente una miscela di materiali oleosi, cerosi, resine e glicerina³³.

    Nel pieno degli anni Trenta Fortuny ancora si richiamava all’estetizzante clima simbolista che aveva condiviso a Venezia con Laurenti e De Maria³⁴, mentre nel resto d’Italia gli artisti erano sollecitati dalla magniloquenza della retorica fascista a cimentarsi con rinnovato vigore nella decorazione di edifici e spazi pubblici. Si trattava di riesumare la consunta tradizione della pittura murale italiana che infatti fu recuperata negli effetti visivi di superficie, ma senza riappropriarsi dell’antica tecnica a fresco, adottata solo in qualche raro esempio³⁵. In molti casi, come testimonia la campagna decorativa realizzata in occasione della V Triennale di Milano del 1933, i pittori cominciarono a servirsi – seguendo gli esempi francesi degli anni Dieci – di smalti industriali per tinteggiatura, che condussero ben presto al degrado delle pitture³⁶.

    Gli smalti industriali erano facilmente reperibili a Milano dal consueto Calcaterra, che aggiornava sin dal 1907 il proprio catalogo inserendo il Ripolin in 101 tonalità di colore³⁷. E tra i primi artisti italiani a servirsi del Ripolin o comunque di smalti a olio per tinteggiatura viene segnalato Giacomo Balla che nel 1915 lo impiegò in Grido. Dimostrazione in piazza del Quirinale, derivandone l’uso da Picasso³⁸.

    Delle decorazioni pittoriche realizzate per la triennale milanese da una trentina di artisti - tra cui Depero, Prampolini, Carrà, Sironi, Cagli, De Chirico, Usellini, Funi, Campigli³⁹ - oggi non rimangono che i resoconti giornalistici dell’impresa⁴⁰, testimoniando come il legame materiale con le tecniche si fosse allentato al punto che alcuni dipinti non furono neanche eseguiti sul supporto murario, bensì su pannelli lignei. Il principale protagonista di questa rielaborazione tecnica fu Corrado Cagli che adottò la tempera all’uovo su tavola successivamente lucidata con cera e da lui denominata «tempera encaustica»⁴¹. Analogamente a tempera ma con una emulsione grassa Afro dipinse tra 1935 e 1936 alcuni dipinti (Autunno, Foro Romano, Autoritratto), sia su una tavola di compensato che su tela, mentre Gianfilippo Usellini, utilizzando come guida il Piccolo trattato di De Chirico, dipinse su tavola con una tempera d’uovo, olio di lino e gommalacca, fino al 1945. Tra gli artisti italiani degli anni Trenta emerge in sostanza un atteggiamento alquanto contraddittorio, volto da un lato all’aggiornamento sui materiali industriali, adottando tuttavia prodotti di largo consumo non specificamente destinati all’uso artistico. Dall’altro lato continua a permanere la convinzione sulla migliore qualità offerta dai prodotti artigianali, e in subordine dalle più note marche di colori Lefranc e Winsor & Newton. Una significativa testimonianza di tale permanente dualità la fornisce Giorgio Morandi, che fino agli anni Trenta preferì utilizzare prodotti naturali che macinava personalmente, come dichiarava in una lettera del 1919 a Carlo Carrà:

    «in una mesticheria [ho trovato] gli ultimi pezzi di una bella terra rossa che veniva levata una volta nei dintorni di Assisi e che da molto tempo non si trova più. Mescolata al bianco dà un rosa molto bello come si vede negli affreschi antichi. Se come faccio io Lei si macina i colori me lo dica che gliene manderò alcuni pezzi»⁴².

    Solo a partire dagli anni Quaranta, in piena autarchia, il pittore cominciò a impiegare colori pronti in tubetto, chiamando in aiuto chi tra gli amici viaggiasse all’estero, per acquistare i colori delle più note marche straniere che garantivano l’alta qualità dei loro prodotti, ed escludendo totalmente i materiali industriali per i decoratori, noti per la loro scarsa durata⁴³. Così nel settembre del 1941 l’artista ringraziava Cesare Brandi per avergli procurato

    «delle boccette di vernice. Mi saprà poi dire quanto Le devo. Per ora non me ne occorre altra perché da Milano me ne hanno già procurato della Wibert [sic]. Riguardo ai colori Lefranc non mi occorre che il giallo di cromo scuro. Ma solo se si tratta di colori fini non da decorazione. Come pure mi occorrerebbe, ma sarà difficilissimo, del Vert de Crome [sic] sempre di Lefranc. Nel caso trovasse questo colore, è bene fare attenzione che sotto l’indicazione del colore vi è segnata la composizione chimica e cioè oxide de crome. Le dico questo perché sotto lo stesso nome viene smerciato altro prodotto che non ha nulla a che fare con ciò che mi occorre»⁴⁴.

    Note

    ¹M. Vinardi, Tra critica d’arte e promozione pubblicitaria per la Lefranc & Cie. I suggerimenti pei pittori di Vittore Grubicy de Dragon , in P. Bensi-A. Rava (a cura di), Effetto luce. Materiali, tecnica, conservazione della pittura italiana dell’Ottocento , Firenze 2009, pp. 281-292.

    ²A. Gioli, La Ditta Luigi Calcaterra: la Lefranc a Milano , in M. Patti (a cura di), Oltre il Divisionismo. Tecniche e materiali nell’atelier Benvenuti-Grubicy , Ospedaletto (Pisa) 2015, pp. 99-114.

    ³M. Erbici, Enciclopedia artistica. Manuale del Pittore e Decoratore Industriale , Milano 1903.

    ⁴J-G. Vibert, La Peinture à l’Oeuf. Procédés des Peintres Primitifs Reconstitués et Rendus Pratiques , Paris 1897.

    ⁵K. Kinseher, Womit sollen wir malen?. Farben-Streit und

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